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Assegno divorzile: sì anche in caso di nuova convivenza dell’ex coniuge

L’ex coniuge che beneficia dell’assegno che ha una nuova convivenza, stabile e continua, può mantenere la titolarità del mantenimento: lo hanno detto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ribaltando un orientamento che ormai da anni era diventato granitico in materia.

Sebbene non ci sia una disposizione di legge che regolamenta questa situazione, si era soliti considerare l’inizio di una nuova convivenza dell’ex coniuge beneficiario come motivo per interrompere il pagamento dell’assegno divorzile.

La legge n.898/1970, infatti, prevede la celebrazione delle nuove nozze del beneficiario come unica causa espressa di cessazione del diritto a percepire l’assegno divorzile. Partendo da questo dato normativo giudici e avvocati, concordi con l’interpretazione maggioritaria della Corte di Cassazione, hanno ritenuto di poter estendere analogicamente questa prassi anche in caso di nuova convivenza.

Cambio di rotta delle Sezioni Unite in tema di assegno divorzile e nuova convivenza

Con una sentenza innovativa le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, per certi versi, ribaltato l’impostazione seguita fino a questo punto dagli addetti ai lavori partendo dalla concezione retributivo-compensativa dell’assegno divorzile che è stata introdotta da un’altra celebre sentenza delle Sezioni Unite del 2018 incentrata sulla natura del contributo economico per l’ex coniuge.

Secondo la Cassazione del 2018, la funzione dell’assegno divorzile è anche quella di ristorare l’ex coniuge per il contributo e i sacrifici fatti nell’interesse della famiglia e dell’altro coniuge. Partendo da tale presupposto il diritto a questa “compensazione” non può escludersi per intero e in automatico qualora il beneficiario inizi una stabile convivenza, nonostante si riconosca al diudice la possibilità di una modulare l’importo mensile.

Iniziare un nuovo percorso di vita con un altro compagno, quindi, potrebbe provocare la perdita della parte assistenziale dell’assegno divorzile ma non della componente compensativa che verrà riparametrata dal giudice tenendo conto di vari criteri, tra cui:

  • la durata del matrimonio;

  • la prova dell’apporto del beneficiario al patrimonio familiare;

  • le eventuali vicende economiche che hanno contraddistinto la vita familiare e del beneficiario (ad esempio rinunce lavorative o di crescita professionale);

  • l’assenza attuale di adeguati mezzi di mantenimento autonomo e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.

Spiccata differenza tra convivenza e matrimonio sulle sorti dell’assegno divorzile

La circostanza che balza agli occhi con estrema evidenza, dopo la lettura della sentenza delle Sezioni Unite, è la decisione di escludere in maniera inequivocabile le convivenze more uxorio dall’applicazione dell’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, ossia la disposizione che fa cessare il diritto a percepire l’assegno mensile in caso di nuove nozze.

La differenza tra matrimonio e convivenza viene, quindi, ancora una volta enfatizzata dalla Corte di Cassazione non senza un certo disagio e incertezza per gli operatori professionali e per le parti che si trovano a gestire una crisi familiare. Il diverso trattamento che viene riservato a convivenza e matrimonio, infatti, sembra apparire un po’ anacronistico rispetto alla situazione sociale degli ultimi anni dove stiamo vedendo una proliferazione delle convivenze a discapito della celebrazione di unioni matrimoniali.

Se, infatti, sotto molteplici aspetti è giuridicamente corretto lasciare una differenziazione netta tra l’istituzione del matrimonio e la convivenza more uxorio, per quanto riguarda il concetto che sostiene la ratio dell’assegno divorzile la convivenza e matrimonio sono modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale che giustificherebbero l’estinzione dell’assegno divorzile, tanto nel caso di nuove nozze che nel caso di convivenza more uxorio.

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Fallimento del marito dopo la separazione: tutele per l’assegno di mantenimento della moglie

Quando, dopo la separazione, interviene il fallimento del marito obbligato a versare l’assegno di mantenimento alla moglie, per questa esistono tutele limitate.

In questo periodo post crisi economica potrà accadere spesso che un soggetto tenuto al pagamento di somme a titolo di mantenimento non possa rispettare tali pattuizioni per evidenti difficoltà economiche. In taluni casi queste difficoltà economiche possono diventare talmente croniche da sfociare in un fallimento.

Mensilità non pagate prima della pronuncia del fallimento

Nel caso in cui il marito avesse smesso di pagare l’assegno prima della pronuncia del fallimento, la moglie potrebbe insinuarsi al passivo per il credito relativo alle mensilità già scadute.

Gli ultimi tre mesi, tra l’altro, entrano a far parte dei crediti privilegiati cioè quei crediti che possono essere soddisfatti prima degli altri.

Mensilità non pagate successivamente al fallimento

Le mensilità successive alla pronuncia di fallimento non rientrano nella massa fallimentare quindi non trovano tutela fino al termine della procedura di liquidazione e rischiano, pertanto, di non essere mai ricevute dalla moglie.

La moglie in questo caso ha due possibilità per tentare di ricevere un sostegno economico.

Se il marito continua a percepire redditi da lavoro può chiedere al Giudice delegato di ricevere una parte della somma destinata al mantenimento del fallito.

Possibili rimedi per la moglie

La moglie, in ogni caso, ha diritto di chiedere al Giudice delegato per il fallimento del marito di ricevere un sussidio alimentare, dimostrando di non avere il necessario per provvedere ai suoi bisogni primari.

Le possibilità che questa richiesta trovi buon fine possono dipendere, anche, dall’eventuale attività lavorativa svolta dal marito e dall’entità dei beni personali rimastigli.

È opportuno precisare che:

  • se il marito è socio di una società per azioni o di una società di capitali, il fallimento di questa società sarebbe relativamente preoccupante per la moglie in quanto non andrebbe a toccare il patrimonio personale del marito che, pertanto, avrebbe maggiori possibilità di continuare a pagare l’assegno ed un’interruzione dei pagamenti dell’assegno di mantenimento dovuta al fallimento potrebbe essere facilmente smentita.

  • se il marito fosse titolare di una piccola impresa individuale o socio di una società di persone (snc, sas ecc.) o, ancora, lavoratore dipendente il fallimento sarebbe più preoccupante dato che coinvolgerebbe anche il patrimonio personale.

Cosa succede all’assegno di mantenimento in favore dei figli

L’assegno di mantenimento in favore dei figli segue la stessa disciplina di quello in favore del coniuge ad eccezione di una maggiore facilità di ottenere il sussidio alimentare in caso di bisogno della prole minorenne.

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Coppie di fatto: possibile la richiesta di assegno alimentare | Stato di bisogno dell’ex convivente

La Legge Cirinnà regolamenta alcuni aspetti giuridici relativi alle coppie di fatto. In particolare per l’ex convivente in stato di bisogno è adesso possibile ottenere un assegno alimentare.

Fino a poco tempo fa una persona che interrompeva una convivenza non poteva avanzare nessuna pretesa nei confronti dell’altra sia dal punto di vista morale che, soprattutto, economico.

Ricordiamo che quando parliamo di coppie di fatto nell’ambito della Legge Cirinnà ci riferiamo sia a coppie eterosessuali che a coppie omosessuali.

Per fare un esempio relativo alla casistica trattata possiamo immaginare una coppia omosessuale che convive da qualche anno. Uno, più giovane, senza un’entrata fissa mentre l’altro un normalissimo impiegato.

Il convivente ha diritto all’assegno di mantenimento?

 

Fino ad un anno fa se la coppia che abbiamo descritto si fosse lasciata ognuno avrebbe preso la sua strada senza poter avanzare alcuna richiesta di assegno.

Con la Legge Cirinnà il convivente “più debole” ha la possibilità di ricorrere in Tribunale per ottenere il riconoscimento di una somma di denaro periodica che, però, non è pari al mantenimento previsto in caso di separazione o divorzio di due coniugi o, ancora, di scioglimento di un’unione civile.

Il diritto previsto per il convivente è quello di ricevere un assegno alimentare.

Quali sono i presupposti dell’assegno alimentare e chi è obbligato

 

Per poter ottenere l’assegno alimentare la parte richiedente, nel nostro caso la persona che non ha lavoro, deve dare la prova di essere in condizione di bisogno e di non essere in grado di provvedere a soddisfare le necessità primarie ed essenziali.

A differenza dell’assegno di mantenimento che viene determinato anche valutando i redditi delle parti ed il tenore di vita goduto dalla coppia, nell’assegno alimentare è prevista la concessione di una somma che potremmo definire pari al “necessario per vivere” da individuarsi comunque in base alle possibilità reddituali dell’obbligato.

La prestazione alimentare, inoltre, potrà essere concessa solo per un periodo proporzionale alla durata della convivenza, quindi limitato nel tempo. È facile capire che l’assegno alimentare non solo dura per un tempo predefinito ma è anche di importo molto inferiore rispetto all’assegno di mantenimento.

Per finire bisogna precisare che prima del convivente obbligati a versare l’assegno sono i genitori ed i figli di chi lo richiede.

Tornando alla nostra coppia, pertanto, se il partner senza lavoro dovesse chiedere gli alimenti in Tribunale dovrebbe versarli l’ex convivente solo nel caso in cui lui non avesse più il padre o la madre o se questi non avessero le disponibilità economiche per provvedervi.

In ogni caso l’inserimento del convivente tra gli obbligati a versare l’assegno è una grande novità introdotta dall’Ordinamento nell’ottica della tutela di una situazione di fatto come la convivenza.

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L’assegno di divorzio può sopravvivere alla sentenza di annullamento del matrimonio religioso

L’assegno di divorzio e la sentenza di annullamento del matrimonio religioso non hanno necessariamente un rapporto di interdipendenza. È bene che ci sia un chiarimento in merito dato che l’annullamento del matrimonio religioso è tornato recentemente in auge non solo trai VIP.

Se nelle cronache rosa, infatti, leggiamo spesso di coppie famose che decidono non solo di separarsi e divorziare, ma anche di chiedere al Tribunale ecclesiastico l’annullamento del proprio matrimonio religioso, in questi ultimi la tendenza sembra ampliarsi. Con probabilità l’aumento del ricorso a tale strumento è dovuto all’intervento di Papa Francesco che ha fortemente ridotto le tariffe per iniziare il Giudizio dinanzi alla Sacra Rota che, prima, era destinato soltanto a coniugi particolarmente abbienti.

Nonostante i cambiamenti apportati nel corso degli anni, però, spesso le tempistiche per l’annullamento sono più lunghe di quelle del divorzio, ed esistono delle regole di raccordo per far convivere i due procedimenti e le due sentenze.

La delibazione e l’efficacia delle sentenze ecclesiastiche per l’ordinamento italiano

Per poter essere efficaci per l’ordinamento italiano, le sentenze di un Tribunale straniero, e quindi anche del Tribunale ecclesiastico, devono essere delibate. La Corte di Appello deve cioè verificare che la sentenza ecclesiastica presenti tutti i requisiti per poter essere riconosciuta anche dall’ordinamento italiano.

Cosa succede all’assegno di divorzio dopo la delibazione della sentenza di annullamento?

Dobbiamo precisare che le due sentenze, così come gli effetti giuridici, possono convivere. In sostanza l’annullamento del matrimonio religioso non comporta la cancellazione delle condizioni previste dalla sentenza di divorzio. In linea di massima i rapporti patrimoniali che intercorrono fra gli ex coniugi dopo il divorzio, come ad esempio il diritto da parte del coniuge più debole a ricevere un assegno di mantenimento e gli altri accordi relativi agli aspetti economici, non possono essere modificati dalla delibazione della sentenza di annullamento, a patto che la sentenza di divorzio sia definitiva (ossia quando sono trascorsi i termini per fare appello o quando sono stati svolti tutti e tre i gradi di giudizio).

Solo se la sentenza di nullità modifica le condizioni economiche degli ex coniugi può essere introdotto un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio.

La stessa regolamentazione è prevista in caso di separazione passata in giudicato i cui effetti economici, quindi, possono sopravvivere alla sentenza di nullità ecclesiastica.

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Assegno di mantenimento: con la separazione il coniuge più debole ha diritto allo stesso tenore di vita che aveva nel matrimonio

La sentenza della Cassazione Berlusconi-Lario ha stabilito che in fase di separazione il coniuge più debole ha diritto ad avere un assegno di mantenimento parametrato sul tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Con la lettura di questa sentenza a molti è venuta in mente un’altra importante pronuncia della Corte di Cassazione, la n. 11504/17, che invece aveva stabilito, pochi giorni prima, che non era dovuto l’assegno di mantenimento all’ex coniuge che risulti indipendente e autosufficiente anche solo potenzialmente.

La Corte di Cassazione ha, però, respinto il ricorso di Berlusconi, precisando che la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 è andata a regolare la questione dell’assegno di mantenimento in caso di “divorzio”, e perciò, quando si verifica la cessazione dei doveri di solidarietà tra coniugi, mentre – in questo caso – alla base della discussione è stato posto l’assegno versato in sede di “separazione” da Berlusconi al coniuge separato. La Corte ha poi osservato che la separazione non elimina il vincolo coniugale e il coniuge più forte ha il dovere di garantire al coniuge separato lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio. Le Sezioni Unite della Corte, in ogni caso, con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento.

Come si determina l’assegno di mantenimento

La Cassazione ha inoltre precisato che con la separazione non vengono meno gli aspetti di natura patrimoniale e quindi la misura dell’assegno viene stabilita considerando prima di tutto la condizione delle parti ed il loro reddito ma anche le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato alla famiglia e alla formazione del patrimonio di ciascuno, o di quello comune, il tutto valutato in relazione alla durata del matrimonio.

L’assegno a cui il coniuge debole separato ha diritto è di natura assistenziale avendo come scopo quello di rimediare al peggioramento delle condizioni economiche godute in costanza del matrimonio, avvenuto per colpa dello scioglimento del vincolo.

Valutare i redditi delle parti

Ai fini della valutazione dei presupposti per l’attribuzione dell’assegno è necessaria, quindi, un’indagine comparatistica della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente e dell’obbligato con quella della coppia all’epoca del matrimonio.

Questa ricostruzione della posizione patrimoniale e reddituale serve per verificare che chi chiede l’assegno si trovi realmente in una posizione di debolezza e deve essere fatta esaminando le condizioni soggettive (età, professione, salute ecc.) del richiedente, anche sopravvenute, considerando ogni fattore economico, sociale, individuale, ambientale e territoriale.

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Divorzio e mantenimento: quando l’assegno può essere negato al coniuge economicamente autosufficiente o indipendente

Ci sono voluti quasi 30 anni per giungere ad una riforma epocale per quanto riguarda il diritto al mantenimento del coniuge “debole” in sede di divorzio. Il vecchio orientamento, che prevedeva la quantificazione dell’assegno di mantenimento in base al tenore di vita durante il matrimonio, è infatti cambiato con la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 che ha stabilito che l’assegno di mantenimento, che comunque deve conservare uno spirito assistenziale, debba essere calcolato sulla base della capacità economica di chi lo richiede con, tuttavia, dei criteri ancora più rigorosi rispetto a quanto avveniva in passato.

In altri termini secondo questa pronuncia i Giudici dovevano valutare se la ex moglie o l’ex marito, richiedenti l’assegno di mantenimento, risultassero economicamente autosufficiente (perché, ad esempio, lavorano o hanno un conto in banca che garantisce una rendita finanziaria o ricevono un affitto da immobili locati ecc.) o, tratto ancora più interessante, se potessero essere autosufficienti (perché, ad esempio, si trova in età lavorativa, e potrebbe quindi cercarsi un impiego o lavorare come libero professionista).

Negli ultimi anni si era parlato di una modifica alle regole per la determinazione dell’assegno di mantenimento per l’ex coniuge: le decisioni che negano l’assegno di mantenimento all’ex moglie che va a convivere stabilmente con il nuovo compagno vanno proprio nella direzione di ritenere il matrimonio non più, come alcune volte si sentiva dire, una assicurazione economica sulla vita.

Nel momento in cui l’ex coniuge richiede l’assegno di mantenimento il Giudice deve operare almeno due valutazioni: una sulla situazione economica del richiedente al fine di verificare se ci siano, o meno, i presupposti per ottenere l’assegno e l’altra sulla sua quantificazione.

Secondo l’impostazione dettata nel 2017 dalla Corte di Cassazione in primo luogo la valutazione doveva essere orientata a capire se l’ex coniuge avesse diritto all’assegno di mantenimento, partendo dai criteri di indipendenza e autosufficienza, nel senso che il Giudice valutati i redditi, i beni mobili e immobili di proprietà del richiedente, la disponibilità della casa familiare e la formazione scolastica e professionale, doveva stabilire se esistesse, oppure no, il diritto all’assegno. In questa valutazione il Giudice doveva anche verificare l’eventuale esistenza, per la persona richiedente, di mezzi idonei per rendersi economicamente autonoma o per procurarsi un reddito, valutando in questo anche la capacità lavorativa del soggetto.

Solo nel caso non ci fossero stati i mezzi idonei per rendersi indipendente o per procurarsi un reddito si poteva passare alla quantificazione dell’assegno. Non rilevava più, quindi, la situazione di disoccupazione del richiedente al fine di ottenere il mantenimento nel caso in cui lo stesso non avesse dimostrato di essersi adoperato per trovare un’occupazione.

Anche i termini per il calcolo e la quantificazione dell’assegno di divorzio erano cambiati: il Giudice non doveva più cercare di livellare la differenza economica tra i due coniugi e riportare il coniuge richiedente al tenore di vita che aveva durante il matrimonio, ma doveva quantificare un contributo che permetta allo stesso di mantenersi.

Per la quantificazione quindi non si doveva più considerare come parametro principale la situazione economica del richiedente durante il matrimonio, ossia quello che si chiamava tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma si dovevano considerare criteri più restrittivi: ad esempio, il Tribunale doveva valutare se una somma risultasse adeguata al coniuge per mantenersi oggi, più che per mantenere uno status storico ossia una situazione ormai non più attuale. La Corte di Cassazione sembrava quindi dire che gli ex coniugi dovevano rivolgere lo sguardo più all’oggi che al passato.

Con questa impostazione alcune situazioni risultavano molto difficili da valutare: si pensi al caso di una donna con figli piccoli che tecnicamente avrebbe la capacità lavorativa ma che, dovendo seguire i propri figli, è impossibilitata a svolgere un’occupazione che le permetterebbe il proprio mantenimento, o ancora al fatto che lavorando dovrebbe sobbarcarsi ulteriori costi per pagare baby sitter o persone che possano seguire i figli mentre si trova al lavoro. Allo stesso tempo doveva definirsi quale fosse la valutazione in merito a quelle donne che, concordemente con il marito (ora ex), avevano deciso di fare le casalinghe e che quindi si ritrovavano in una situazione di difficile collocamento lavorativo pur essendo soggetti con potenziale capacità lavorativa.

Per questi motivi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.

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Assegno di divorzio per il coniuge economicamente indipendente o autosufficiente | Ritorna la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio

La sentenza n. 11504/17 della Cassazione aveva cambiato la rotta del divorzio in Italia perché aveva negato l’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente autosufficiente o indipendente. In particolare aveva eliminato la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio.

A seguito della pronuncia della Suprema Corte, infatti, il parametro sul quale i Giudici dovevano basare le proprie valutazioni in merito all’assegno di mantenimento per il c.d. “coniuge economicamente debolenon poteva più essere il tenore di vita avuto durante il matrimonio bensì la situazione in cui si trovava effettivamente il richiedente al momento della domanda di divorzio.

La pronuncia è scaturita dal ricorso presentato dall’imprenditrice Lisa Lowenstein nei confronti dell’ex marito, ed ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che le aveva negato l’assegno di mantenimento divorzile.

Anche la Cassazione aveva negato l’assegno di divorzio all’ex moglie facendo tuttavia una diversa valutazione e introducendo innovativi criteri che, per molti, apparivano del tutto in linea con l’evolversi dei tempi, andando quindi a cambiare, in parte, la concezione del matrimonio.

Criterio applicato dalla Corte di Cassazione

Secondo la Cassazione infatti era necessario “superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva” in quanto “è ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Si deve dunque ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”.

A cambiare, quindi, era stato proprio il punto di vista su cui doveva incentrarsi la valutazione del Giudice in Sede di divorzio: come criterio principale non contava più, dunque, lo stile di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio ma la valutazione dell’autosufficienza o dell’indipendenza economica dell’ex coniuge che chiede l’assegno. Ad esempio, se in Sede di divorzio la moglie avesse domandato al Tribunale di condannare il marito al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, bisognava che il Giudice prima accertasse che la moglie non fosse in possesso di redditi idonei, o di un patrimonio mobiliare e immobiliare che le garantisse una rendita o che avesse “la stabile disponibilità” di un’abitazione. Allo stesso modo, nel caso in cui la moglie richiedente fosse stata senza lavoro, il Giudice avrebbe dovuto anche accertare se avesse le “capacità e possibilità effettive di farlo e se quindi, si stesse eventualmente sottraendo dal cercarsi una occupazione, senza alcun giustificato motivo. Ne conseguiva in merito all’assegno divorzile “se è accertato che il richiedente è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Conseguenze della decisione sui divorzi già pronunciati

Una svolta epocale dunque, capace di abbattere un principio che aveva retto granitico per oltre trent’anni e che vedeva come un dogma intoccabile il diritto del coniuge economicamente più debole a mantenere lo stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio e che, bisogna ammettere, ha regalato una certa sicurezza a tutti quei divorziandi che hanno sempre e solo contato sulle risorse economiche dell’altro coniuge.

Questi nuovi criteri di calcolo valevano non solo per chi doveva divorziarsi, o per chi aveva in corso un divorzio, ma anche per chi il divorzio – consensuale o giudiziale – lo aveva già affrontato. Per questo motivo anche chi stava  pagando un assegno di mantenimento all’ex moglie, poteva – in caso vi fossero i presupposti – presentare un ricorso di modifica delle condizioni di divorzio, chiedendo al Tribunale di poter ridurre l’importo versato o, in certi casi, di eliminarlo completamente.

Nuova pronuncia della Corte a Sezioni Unite

Le Sezioni Unite della Corte, in ogni caso, con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.

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Divorzio e criteri per calcolare l’assegno di mantenimento per il coniuge: caso della moglie senza reddito

La Cassazione ha parzialmente modificato i criteri per determinare l’assegno mantenimento in caso di divorzio nei confronti della moglie che non ha reddito ampliando la valutazione rispetto al semplice tenore di vita avuto dal coniuge durante il matrimonio e precisando che debba essere considerato anche il contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali di moglie e marito.

Questa novità, in pratica, apre la strada ad una differente valutazione delle situazioni patrimoniali e lavorative dei coniugi che potrebbe portare anche alla revisione di molte pronunce di divorzio – consensuali o giudiziali – già emesse sulla base del criterio del tenore di vita.

Cosa cambia per il coniuge che chiede l’assegno di divorzio?

Andiamo ad esaminare una situazione concreta per capire cosa cambia per chi chiede l’assegno di divorzio.

Immaginiamo una moglie separata, di mezza età, laureata ma casalinga – dato che, durante il matrimonio, i coniugi avevano concordemente deciso che lei si sarebbe occupata dei figli. Attualmente in fase di separazione ha ottenuto un assegno di mantenimento versato dal marito, dirigente d’azienda. Durante l’unione la coppia, anche se non si è mai lasciata andare a lussi sfrenati, ha goduto di un buon tenore di vita: è riuscita anche ad investire i risparmi accantonati, acquistando alcune case poi divise al 50% in fase di separazione.

In sede di divorzio si dovrà valutare se il coniuge richiedente sia economicamente autosufficiente o abbia le capacità effettive per esserlo grazie, per esempio, a proprietà immobiliari, ad un patrimonio personale e la parte richiedente dovrà inoltre dimostrare di essersi resa parte attiva per ottenere i mezzi necessari per vivere ma il tenore di vita goduto con il marito, la contribuzione alla vita familiare e le possibilità economiche dell’epoca matrimoniale saranno considerate rilevanti per determinare la conferma o meno dell’assegno.

Come agire per dimostrare in ogni caso l’impossibilità di avere reddito

Potrà essere utile, ad esempio, iscriversi a corsi di formazione che possano riqualificare il curriculum vitae di una persona fuori dal mercato del lavoro, oppure inserire il proprio profilo nelle banche dati online che svolgono selezione del personale per conto di aziende terze, così come ricorrere al “collocamento” ordinario e parimenti potrà essere utile inviare vari curricula alle diverse aziende in cerca di personale. Un atteggiamento passivo e di “attesa” da parte della richiedente potrebbe essere visto negativamente dai Giudici e portare ad un rigetto della domanda. Nel caso che abbiamo tratteggiato per esempio, l’ex moglie potrebbe essere considerata in grado di mantenersi grazie ai risparmi accantonati durante il matrimonio o magari grazie alla proprietà degli immobili da far affittare e, quindi, potrebbe vedersi negare l’assegno.

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Assegno di mantenimento rivalutabile anche su accordo di moglie e marito | Rivalutazione annuale Istat

L’assegno di mantenimento (ma anche l’assegno divorzile) riconosciuto in favore del coniuge economicamente più debole prevede per legge la rivalutazione annuale in base agli indici Istat ma è rivalutabile anche sulla scorta di un accordo differente raggiunto da moglie e marito, per esempio in funzione del variare delle condizioni economiche delle parti.

Cos’è la rivalutazione dell’assegno di mantenimento

L’ammontare dell’assegno di mantenimento che il giudice riconosce in sede di separazione, o divorzio, viene calcolato in funzione a un determinato potere d’acquisto. Col passare del tempo, però, la svalutazione della moneta potrebbe determinare una consistente perdita di tale potere. È per questa ragione che è previsto dalla legge un aggiornamento annuale dell’assegno di mantenimento sulla base di indici Istat, di solito il FOI.

Tale rivalutazione è obbligatoria e si applica anche se il Giudice non l’ha espressamente indicata nella sentenza di separazione o divorzio. Di conseguenza, essa è sempre dovuta e sempre esigibile, entro un termine di prescrizione quinquennale.

All’atto pratico chi deve pagare l’assegno ogni anno deve calcolare, e versare, la cifra “aggiornata” rispetto a quella determinata dal Giudice.

La rivalutazione su diverso accordo delle parti  

 

Marito e moglie, però, possono anche accordarsi per un adeguamento personalizzato. È il caso frequente, per esempio, del beneficiario che si trasferisce all’estero, in un paese dove la moneta soffre di un’inflazione più gravosa che in Italia.

In questo caso esiste una regola inderogabile: la somma adeguata secondo l’indice concordato non potrà mai essere inferiore a quella disposta dal Giudice che, quindi, rimane il limite minimo da versare. Pensiamo ai casi in cui l’inflazione sia negativa ed un aggiornamento in tal senso potrebbe portare ad ottenere un importo inferiore a quello originario.

L’obbligato non potrà versare l’importo adeguato ma dovrà pagare, almeno, la somma decisa dal Giudice in sede di separazione.

In questi casi dovremo stare attenti ad un ulteriore aspetto relativo al recupero delle somme eventualmente non versate.

L’adeguamento Istat è automatico e, in caso di mancato versamento, permette di procedere con il diretto recupero del credito (precetto) anche se nella sentenza o nel verbale di separazione o nella sentenza di divorzio non è espressamente previsto.

Un adeguamento personalizzato, invece, deve essere chiaramente ratificato altrimenti l’eventuale recupero, in caso di inadempimento dell’obbligato, non è possibile in via diretta. La parte interessata dovrà incardinare un apposito giudizio per far riconoscere dal Tribunale la diversa pattuizione intervenuta in sede di separazione o divorzio o in un momento successivo tra i coniugi.

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Quali tutele ha la moglie se il marito vende tutto per non pagare l’assegno di mantenimento | Sequestro e ipoteca

Quando il marito deve pagare l’assegno di mantenimento (o di divorzio) alla moglie ma, tentando di evitarlo, vende buona parte dei suoi beni, la moglie può azionare precise tutele giudiziarie come il sequestro e l’ipoteca.

Quando iniziare a temere il mancato versamento dell’assegno

 

Affrontiamo, come sempre, un esempio concreto che possa permettere di comprendere l’operatività della disciplina. Marito e moglie sono separati. Lui è titolare di una piccola impresa e proprietario di diversi immobili. Lei, ex dipendente, ha lasciato il lavoro durante la convivenza matrimoniale per poter badare ai figli.

La sentenza di separazione le ha riconosciuto un assegno di mantenimento periodico oltre all’assegnazione della casa familiare, nella quale vive con i figli ancora minorenni.

Il marito, seppur rispettando l’accordo si è sempre lamentato dell’elevata cifra da versare. Dopo qualche tempo la moglie viene a sapere dell’intenzione del marito di mettere in vendita tutti gli immobili in suo possesso e di voler cedere, quanto prima, anche la sua attività. Incredula e spaventata teme di restare improvvisamente senza assegno di mantenimento, di fatto l’unica fonte di sostentamento di cui dispone.

A questo punto è opportuno che la moglie agisca per tutelare il suo credito ed evitare di rimanere sorpresa dalle mosse del marito.

Le garanzie per il beneficiario dell’assegno di mantenimento

 

Quando la prospettiva che l’obbligato smetta di versare l’assegno di mantenimento diventa concreta e reale (es. perché vende molti beni di proprietà o smette inspiegabilmente di lavorare, tutte cose che fanno dubitare della possibilità di continuare a versare una somma mensile, magari elevata), il beneficiario ha diversi strumenti a disposizione mediante i quali assicurarsi il rispetto dei propri diritti.

 

In caso di fallimento dell’impresa che fa capo al coniuge che versa l’assegno, ad esempio, si può chiedere che vengano effettuati dei sequestri conservativi; in altri termini, i beni mobili o immobili sottoposti a sequestro conservativo vengono bloccati e successivamente pignorati, a garanzia del proprio credito.

Il coniuge titolare di un assegno di mantenimento, tra l’altro, è considerato un creditore privilegiato: ciò significa che in qualsiasi circostanza avrà la priorità di liquidazione rispetto ad eventuali altri creditori.

 

Esiste poi un ulteriore strumento che il beneficiario dell’assegno può utilizzare: si tratta dell’iscrizione di ipoteca. L’iscrizione può essere applicata sia sui beni disponibili, nel momento in cui viene emessa la sentenza di separazione (o di divorzio), sia su quelli che il debitore acquista in una fase successiva.

Si tratta di una pratica applicabile non solo in caso di separazione giudiziale, ma anche in caso di separazione consensuale (così come in fase di divorzio). L’iscrizione è esente da imposta ipotecaria, ma è bene sapere che se i presupposti vengono meno, il coniuge debitore potrà chiedere al Giudice la cancellazione dell’ipoteca o una riduzione della somma ipotecata.

È opportuno precisare che non costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca i provvedimenti temporanei e urgenti che il Giudice emette in attesa della sentenza di separazione o del divorzio, quando il tentativo di conciliazione tra i due coniugi previsto dal procedimento giudiziale non va a buon fine.

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Come recuperare le spese straordinarie dei figli escluse dall’assegno di mantenimento

L’assegno di mantenimento mensile non comprende tutte le spese necessarie alle esigenze dei figli. I genitori, però, devono contribuire anche alle spese escluse, cosiddette straordinarie. Se uno dei due non paga queste spese agire per recuperare la quota da rimborsare può non essere agevole.

Quali sono le spese straordinarie

 

Dobbiamo precisare che non esiste una distinzione netta tra le spese straordinarie e quelle comprese nell’assegno, molto dipende dal caso concreto; solitamente, però, le spese straordinarie sono tutte quelle che non vanno a soddisfare le normali esigenze quotidiane (spese scolastiche, spese per lo sport ecc).

Al giorno d’oggi tutti cerchiamo di stare attenti alle spese. Se abbiamo dei figli, però, possiamo avere difficoltà maggiori: le scuole, i vestiti, lo sport, i videogiochi… I bambini hanno pretese sempre più costose e sempre maggiori.

Per i genitori single la situazione rischia di essere ancora più rischiosa: occuparsi da soli di un pargolo non è sempre facile ed è molto dispendioso. Quando l’altro genitore, poi, non rispetta i suoi obblighi di mantenimento i problemi possono diventare davvero seri.

È importantissimo che il genitore obbligato a versare l’assegno rispetti non solo le modalità e le scadenze previste, ma paghi anche la sua quota di spese straordinarie. In questo modo anche i figli saranno protetti e potranno svolgere le loro attività abituali senza rinunce. Quando, però, ci troviamo di fronte ad un ex partner che non versa quanto dovuto possiamo agire per tutelare sia noi stessi che i nostri figli.

Come agire contro il genitore che non paga

L’iter da percorrere in questi casi non è sempre lo stesso. Quando non viene pagato l’assegno di mantenimento, infatti, è possibile agire immediatamente in via esecutiva, prima con un precetto e poi con il pignoramento, per esempio, dei beni o del conto corrente dell’altro, perché si tratta di una somma certa già determinata dal Giudice.

Per avere il rimborso delle spese straordinarie, invece, è tendenzialmente opportuno iniziare una causa che accerti e determini l’effettiva spesa, ordinando all’altro genitore il pagamento della sua quota.

Ultimamente i Giudici hanno ammesso la possibilità di ricorrere immediatamente al precetto anche in caso di spese straordinarie giustificate da appositi riscontri documentali. Questa operazione, però, può rivelarsi più rischiosa derivando da un’interpretazione giurisprudenziale e, quindi, prestarsi a opposizioni da parte del genitore precettato.

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Rapporto tra assegno di mantenimento e tenore di vita matrimoniale: dipende dai redditi | Separazione

L’assegno di mantenimento riconosciuto in fase di separazione dovrebbe permettere al coniuge che lo richiede di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio. Tale rapporto è garantito solo dopo la valutazione dei redditi dell’obbligato da parte del Giudice.

Consideriamo, ad esempio, il caso di una famiglia composta da tre persone: madre, padre e figlio. I coniugi sono entrambi impiegati, ma la mamma lavora part-time, così da poter trascorrere più tempo con il bambino. La famiglia, per tutta la durata della convivenza coniugale, ha mantenuto un tenore di vita ben al di sopra delle proprie possibilità, al punto tale che il marito, per poter far fronte alle numerose spese, ha contratto debiti con diverse società che erogano prestiti personali, il tutto all’oscuro della moglie.

Durante un’eventuale fase di separazione la moglie potrebbe pretendere un assegno di mantenimento parametrato allo stile di vita sostenuto fino a quel momento, ma l’immaginazione si scontrerebbe con il colore del conto in banca, il rosso!

Il processo di determinazione dell’assegno di mantenimento

E’ vero che di fronte alla richiesta di un assegno di mantenimento in fase di separazione, il Giudice deve valutare in via principale il tenore di vita mantenuto dalla coppia durante la convivenza coniugale e analizzare se il diritto all’assegno esista realmente.

Perché sia riconosciuta l’esistenza del diritto è, però, necessario che al richiedente non venga addebitata la separazione e dimostri di non avere i mezzi idonei a mantenere lo stile di vita precedente, né di poterli procurare per ragioni oggettive.

Infine, il giudice dovrà stabilire se la separazione abbia provocato uno sbilanciamento tra le risorse economiche del marito e quelle della moglie. In questo senso, non è necessario che il coniuge richiedente versi in stato di bisogno, essendo sufficiente dimostrare che le risorse di cui dispone non bastano a garantire il tenore di vita goduto in precedenza.

Quando il tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza non è affatto sostenibile per le loro capacità reddituali, però, il Giudice non potrà considerarlo come il parametro di riferimento per la determinazione dell’assegno di mantenimento.

Rapporto tra stile di vita e redditi

Il Giudice, quindi, è obbligato ad effettuare una disamina della vera situazione patrimoniale e reddituale di entrambi per desumere il tenore di vita reale che la famiglia è in grado di mantenere. A quel punto, solo in presenza di un’effettiva disparità di risorse tra i coniugi, potrà arrivare a definire l’ammontare dell’eventuale assegno.

Dobbiamo considerare che l’assegno può essere riconosciuto solo compatibilmente con il reddito ed il patrimonio dell’obbligato. Laddove, quindi, per una difficoltà economica, non sia possibile mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale, l’assegno dovrà rispettare questa evidenza. Grazie alla sconsideratezza del marito, quindi, la famiglia di cui abbiamo tratteggiato l’ipotetico profilo, dopo la separazione, si troverà con ogni probabilità a doversi adattare ad uno stile di vita molto inferiore al precedente.

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