SPETTA AL DATORE DI LAVORO PROVARE CHE LA SUA AZIENDA HA MENO DI 16 DIPENDENTI, SE VUOLE EVITARE LA REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE, INGIUSTAMENTE LICENZIATO, IN BASE ALL’ART. 18 ST. LAV.
Contrasto di giurisprudenza nella Suprema Corte (Cassazione Sezione Lavoro n. 7227 del 17 maggio 2002, Pres. Senese, Rel. Filadoro).
In base all’art. 18 St. Lav., in caso di licenziamento illegittimo la reintegrazione nel posto di lavoro può essere disposta dal Giudice nei confronti di aziende che abbiano più di 15 dipendenti. La legge però non ha esplicitamente precisato se l’onere della prova sul numero dei dipendenti spetti al lavoratore o all’azienda. In proposito si è determinato nella Sezione Lavoro della Suprema Corte un contrasto di giurisprudenza. Secondo l’orientamento prevalente, spetta al lavoratore l’onere di provare la consistenza numerica dei dipendenti dell’azienda, in quanto fatto costitutivo del diritto alla stabilità rivendicato in giudizio. In questo senso si sono espresse le sentenze S. U. n. 2249, 4 marzo 1988, cfr. anche Cass. 3229 del 1988, 1659 del 1983, 3247 del 1980. Queste conclusioni non sono, tuttavia, condivise da un orientamento giurisprudenziale più recente, per il quale compete al datore di lavoro dimostrare la consistenza numerica che impedisce l’applicabilità del regime di stabilità reale, tenuto conto del fatto che il licenziamento illegittimo costituisce un inadempimento contrattuale e che l’azione di impugnazione si configura come azione di adempimento e/o di responsabilità per inadempimento ex art. 1218 codice civile (Cass. n. 613 del 22 gennaio 1999).
Secondo l’orientamento più recente, il datore di lavoro che pone in essere un licenziamento al di fuori delle condizioni richieste dalla legge si rende responsabile di un inadempimento alle obbligazioni assunte al momento della costituzione del rapporto. Fatti costitutivi dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la sua interruzione per effetto di un licenziamento.
Fatti impeditivi degli effetti giuridici che il lavoratore intende conseguire sono la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. La regola della ripartizione della prova, di cui all’art. 5 della legge 604 del 1966, non è altro che l’applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola generale di cui all’art. 1218 codice civile in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i principi generali, la conseguenza del licenziamento illegittimo dovrebbe essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla controparte (art. 1223 codice civile). L’art. 8 della legge 604 del 1966 prevede invece una forte attenuazione delle conseguenze a carico della parte inadempiente ed è allora giustificato – conclude Cass. n. 613 del 1999 – porre a carico di colui che pretende di essere esonerato da quelle che sarebbero le comuni sanzioni derivanti da un inadempimento (dettate dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970) l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni che determinano la riduzione degli effetti restitutori o risarcitori. Questo più recente orientamento è stato ora ribadito dalla Suprema Corte della sentenza della Sezione Lavoro n. 7227 del 17 maggio 2002 (Pres. Senese, Rel. Filadoro). Addossare al datore di lavoro l’onere della prova in materia – ha affermato la Corte – appare giustificato, oltre che dalle considerazioni sistematiche contenute nella sentenza n. 613 del 1999, anche dal rilievo che la circostanza da provare consiste in un dato di fatto ben noto al datore di lavoro e che risulta addirittura da libri, la cui tenuta è obbligatoria per legge.
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