Durante il giudizio di affidamento o collazione dei figli, siano i genitori sposati o conviventi, ha sempre più valore la loro volontà. In particolare nel caso in cui siano coinvolti più fratelli è possibile procedere con l’ascolto di ciascun minore in giudizio, compatibilmente con l’età e la capacità di discernimento.
Noi siamo abituati a pensare ai figli come persone che hanno voce in capitolo, invece, sempre più spesso le cose in questo senso stanno cambiando e la volontà dei minori sta assumendo maggiore rilevanza.
L’importanza di dare valore alla volontà dei minori nel giudizio di affidamento
Per capire meglio potremmo fare un esempio di una famiglia dove i genitori si stanno separando e ci sono tre figli, di cui uno ormai adolescente: pensiamo ad un quindicenne o sedicenne, e gli altri due di pochi anni più piccoli.
A differenza di questi ultimi, particolarmente attaccati alla madre, il più grande ha sempre avuto un legame speciale con il padre, con cui condivide la passione per lo sport. Fin da quando era solo un bambino, il ragazzo ha partecipato col padre a gare e concorsi anche su scala nazionale. I due hanno quindi trascorso molto tempo insieme fin dall’infanzia del figlio, dedicandosi alla loro passione e sviluppando un particolare feeling. Per queste ragioni il ragazzo vorrebbe poter continuare a vivere, anche dopo la separazione, col papà.
Per esigenze lavorative, il padre si allontana spesso da casa, fattore che senz’altro potrebbe ostacolare la decisione del Giudice di far abitare con lui tutti e tre i figli, peraltro i due più piccoli vorrebbero assolutamente stare con la mamma.
I genitori vorrebbero quindi venire incontro ai desideri dei figli ma in questi casi sorge anche il dubbio se sia possibile separare i fratelli perché la collocazione dei figli tende a non essere suddivisa tra i due genitori essendo preferibile evitare di dividere fratelli e sorelle per non causare un allontanamento traumatico. Quando siamo davanti ad una decisione condivisa, e anzi richiesta dagli stessi figli, non è però escluso che questa soluzione venga accolta dal Tribunale.
L’ascolto del minore
La volontà del minore, soprattutto se capace di comprendere ed esprimere le proprie necessità e i propri desideri, è rilevante in un procedimento nel quale si deve decidere del suo futuro, per questo motivo è previsto il diritto del minore ad essere ascoltato, e quindi che il Giudice ascolti sempre il minore maggiore di 12 anni per prendere provvedimenti che lo riguardano in maniera diretta, ma anche i bambini di età inferiore, se già in grado di esprimersi e più in generale se capaci di discernimento.
L’ascolto è fatto dal Giudice, e può anche avvenire in presenza di esperti. Tuttavia, quando la volontà del minore si rivelasse in contrasto con i suoi interessi, o quelli dei fratelli, il Giudice potrebbe dover prendere provvedimenti diversi da quanto emerso dalla fase di ascolto.
L’ipotesi di collocare i figli più piccoli presso un genitore e il ragazzo adolescente presso l’altro, come prospettato in precedenza, potrebbe risultare un’opzione praticabile nel caso il Giudice ascoltasse il ragazzo, magari anche i fratelli, e capisse che la sua reale volontà non è dannosa, né per sé né per i fratelli.
Bisogna però fare particolare attenzione anche ai fratelli più piccoli che, forse, in questo caso finiscono per essere i soggetti più fragili: in una fase delicata come è la separazione, vedere già il papà allontanarsi dalla loro vita quotidiana rende ancor più difficile pensare anche di doversi distaccare dal fratello maggiore.
Certamente il tutto sarebbe più facile se i genitori continuassero ad abitare nella stessa città, ma comunque, a certe condizioni, si assiste a trasferimenti in un’altra città, anche lontana o all’estero.
Il Tribunale quindi, valutate tutte le circostanze del caso, e sentiti i genitori, dovrebbe convocare i minori e ascoltare i loro pareri e desideri, così da tenerne conto nella definizione dei provvedimenti da adottare per la collocazione.
Separazione e divorzio di coniugi stranieri: il processo si può fare in Italia con legge estera
La separazione o il divorzio di moglie e marito stranieri che vivono in Italia può essere pronunciata a seguito di un processo svolto dinanzi al Tribunale italiano, con l’applicazione della legge estera dei coniugi.
Immaginiamo due coppie in piena crisi coniugale. La prima vive in Italia ma è composta da due cittadini stranieri; nella seconda i coniugi sono italiani ma risiedono da diversi anni all’estero. In entrambi i casi per capire dove dovrebbero svolgersi le cause di separazione o divorzio delle due coppie esistono delle regole.
Giurisdizione e legge applicabile: due concetti differenti
Prima di tutto dobbiamo chiarire che la giurisdizione individua lo Stato ed il Giudice dinanzi ai quali deve svolgersi la causa e non la legge che si dovrà applicare durante il processo.
Una causa che si svolge in Italia non vede necessariamente l’applicazione della legge italiana perché per individuarla esistono diversi criteri, anche la possibilità che i coniugi la scelgano da sé.
Per capire dove le due coppie potranno iniziare la loro causa, il primo criterio è quello della residenza abituale della coppia, intesa come il luogo dove si svolgono principalmente gli interessi e la vita dei coniugi.
L’altro criterio, cui è possibile ricorrere solo in seconda battuta, è quello della cittadinanza comune dei coniugi. In sostanza viene considerato prioritario il legame che i due coniugi instaurano con il Paese in cui abitano rispetto a quello con il Paese di cui sono cittadini.
Per comprendere il meccanismo sarebbe utile che facessimo qualche esempio. Un marito straniero, residente da almeno un anno in Italia, che deve separarsi della moglie, anch’essa straniera e residente in Italia, potrà fare la causa nel nostro paese avendo priorità la residenza abituale della coppia.
Ma anche la separazione di due coniugi cittadini italiani, residenti all’estero, in due Stati diversi, potrebbe svolgersi in Italia in funzione della loro comune cittadinanza, dato che la residenza abituale dei due non è la stessa.
Iniziare una causa davanti a Giudici diversi: regole per decidere la competenza
Quando due parti decidono di iniziare una causa davanti a due Giudici diversi devono applicarsi specifiche regole per decidere la competenza. Non è possibile, infatti, che uno stesso giudizio si svolga dinanzi a due Tribunali diversi in quanto le due sentenze creerebbero un conflitto di giudicati.
Quando si verifica una litispendenza
Nel mondo del diritto di famiglia questa problematica può avverarsi, per esempio, quando si sposa una coppia mista. Al momento della separazione o del divorzio, infatti, entrambi potrebbero voler svolgere il giudizio nel proprio paese d’origine. Questa volontà potrebbe creare una duplicazione di processi.
Per questo motivo esistono delle regole di raccordo tra le giurisdizioni delle diverse nazioni, così che si possa individuare un solo Giudice competente.
Facciamo l’esempio di due ragazzi – lui italiano e lei francese – che si sposano e vanno a vivere insieme in una città italiana. Dopo i primi anni tutti rose e fiori, i due entrano in crisi e la ragazza decide di fare ritorno in Francia e lasciare il marito.
A questo punto il marito potrebbe rischiare di subire il processo per il divorzio in Francia, senza conoscere la leggi né capire bene la lingua né, tantomeno, avere i soldi per difendersi adeguatamente. L’unica possibilità per evitare questa prospettiva sarebbe quella di iniziare una causa in Italia.
Se i due ragazzi iniziassero una causa contemporaneamente si verificherebbe una litispendenza.
Le regole stabilite dal Regolamento 2201/2003
Il regolamento dell’Unione Europea n. 2201/2003 prevede che in questi casi la competenza venga riconosciuta al Giudice che è stato coinvolto per primo. In particolare si considera introdotto per primo il giudizio che è stato depositato al Tribunale per primo e che è stato notificato all’altra parte.
Quando la seconda causa inizierà, quindi, la parte interessata dovrà far presente al Giudice l’esistenza di un processo dinanzi al Tribunale di un altro Stato e, il secondo Giudice, dovrà dichiararsi incompetente e cancellare la causa, salva la possibilità di emettere provvedimenti temporanei e urgenti se nell’interesse di minori.
Il marito, quindi, dovrà necessariamente agire in fretta depositando il ricorso in Tribunale e notificando l’atto alla moglie, prima di ricevere la citazione dinanzi al Tribunale francese.
Limitazioni all’applicazione della legge straniera in Italia | Separazione e divorzio internazionale
In caso di separazione internazionale (o divorzio) esistono delle limitazioni all’applicazione della legge straniera in Italia.
La conoscenza di questa regola è essenziale, in modo particolare, da quando il Regolamento 1259/2010 consente alle coppie che vivono in un Paese diverso da quello di provenienza di poter scegliere quale legge applicare in caso di separazione o divorzio. Ciò, infatti, non risulta sempre possibile.
Limitazioni al Regolamento n. 1259/2010
Ipotizziamo che due coniugi siano originari di un paese in cui è concessa la poligamia e lì si sono sposati, con il marito giunto al terzo matrimonio.
Per varie ragioni la coppia si trasferisce in Italia, lasciando le altre mogli nel paese d’origine. Dopo qualche tempo la moglie inizia a frequentare un altro uomo, e dopo diversi mesi decide di rivelare al coniuge il suo tradimento e l’intenzione di chiedere il divorzio.
Per ragioni economiche e di tempo la moglie vorrebbe divorziare in Italia, senza tornare nel paese d’origine, ma la cosa potrebbe risultare più complessa del previsto.
Le norme di ordine pubblico sono prevalenti rispetto alla volontà delle parti
Per una forma di tutela dei principi e delle regole vigenti nei vari Stati dell’Unione Europea e per impedire che siano obbligati ad applicare norme straniere ritenute illegittime ed incompatibili con il diritto interno, il regolamento 1259/2010 prevede tre limiti che impediscono di usare la legge straniera.
Non si può applicare una legge straniera che non prevede il divorzio o lo prevede solo a condizioni discriminatorie per uno dei due coniugi. Si tratta di un limite che intende salvaguardare la parità di diritti tra uomo e donna, impedendo, ad esempio, che possa essere ammessa una legge che lasci al solo marito la possibilità di divorziare.
Il secondo limite prevede che la legge straniera non possa essere adottata se uno dei due Stati non riconosce il divorzio o se il matrimonio non è considerato valido. Pensiamo, ad esempio, al matrimonio omosessuale che non è ammesso in Italia: la richiesta di divorzio presentata da coniugi omosessuali, sposati all’estero, verrebbe rifiutata.
Il terzo limite del regolamento 1259/2010 è previsto nel caso in cui la legge straniera risulti in contrasto con le norme di ordine pubblico cioè con i principi fondamentali tipici di ciascuno stato.
Il matrimonio della coppia presa ad esempio non potrebbe avere validità nel nostro paese, perché non è ammessa la poligamia. Di conseguenza la domanda di divorzio verrebbe rigettata dal Tribunale perché riferita ad un matrimonio privo di effetti per la nostra legge. La coppia, quindi, sarebbe costretta a divorziare nel suo paese in origine.
Come applicare la legge straniera alla separazione ed al divorzio in Italia anche se marito e moglie non sono d’accordo
Per marito e moglie che affrontano una separazione o un divorzio è possibile applicare la legge straniera anche se non sono d’accordo su quale normativa nazionale scegliere.
Prendiamo il caso di due coniugi, lui originario della Svizzera, lei italiana. Questi decidono, dopo il matrimonio, di trasferirsi nel paese di lui: migliori opportunità lavorative, salari più elevati, avvicinarsi alla famiglia del coniuge… sono solo alcuni motivi che li spingono a lasciare l’Italia.
Il legame, però, non si rivela duraturo e la moglie decide di lasciare il marito per tornare in Italia, vicino ad amici ed affetti.
In una simile situazione, e senza l’accordo con il marito, potrebbe essere molto complesso per la moglie avviare un processo di divorzio in Svizzera. I costi alti e le difficoltà linguistiche renderebbero difficile la gestione del procedimento, senza contare che l’avvio delle procedure sul territorio estero le richiederebbero inevitabilmente spostamenti periodici.
La moglie, quindi, perderebbe la possibilità di ottenere il divorzio senza dover prima passare dalla separazione, come ammesso dalla legge elvetica.
Il regolamento 1256/10, entrato in vigore da qualche anno in Unione Europea, però, permette di ottenere una via d’uscita facilitata in questi casi.
L’applicazione del regolamento 1259/2010 in caso di mancata scelta
In mancanza di un accordo tra i coniugi sulla separazione o sul divorzio, chi agisce per primo può scegliere sia dove iniziare la causa sia la legge applicabile.
Il regolamento prevede la possibilità di applicare la legge dello Stato in cui i due moglie e marito risiedono abitualmente o quella del Paese che è stato la loro ultima residenza comune, purché uno dei due vi risieda ancora.
Vi è anche una terza opzione che concede la possibilità di applicare la legge dello Stato di cittadinanza di marito e moglie. Se nessuna di queste tre opzioni può essere adottata, dovrà essere applicata la legge dello Stato dove si svolge il giudizio.
La moglie, quindi, potrà iniziare una causa in Italia applicando la legge Svizzera ottenendo subito il divorzio come previsto il quello Stato, che è quello dell’ultima residenza comune dei coniugi dato che il marito vi risiede ancora.
Attenzione però perché per poter scegliere la legge del Paese dell’ultima residenza abituale, non deve essere trascorso più di un anno da quando i due coniugi vi risiedevano insieme e l’inizio della causa.
Coppia mista: ammessa la scelta di legge per separazione e divorzio
Nella separazione o nel divorzio di una coppia mista è ammessa la scelta della legge da applicare durante il giudizio in base a quanto disciplinato dal Regolamento UE 1259/10.
Spread, crisi greca, troika, emergenza profughi, sembra che l’Europa di cui tanto sentiamo parlare sia tutta qui. Al di là del populismo, diciamo una verità quando diciamo che siamo ancora distanti da quel modello ideale di Stati Uniti d’Europa che ci era stato fatto immaginare. Eppure l’Unione Europea non si limita a regolare cambi e borsa, ma anche molti settori della vita quotidiana di noi cittadini.
Da qualche anno, anche se un po’ in sordina, è entrato in vigore il predetto Regolamento n. 1259/10 che ha portato una grossa innovazione in tema di separazione e divorzio. Il regolamento è rivolto a quelle coppie miste ossia formate da marito e moglie di diverse nazionalità.
La norma è applicabile anche per moglie e marito che hanno vissuto in diverse parti del mondo e che, di fronte alla scelta di separarsi o di divorziare, avrebbero potuto incontrare difficoltà nella scelta della legge applicabile, o magari avrebbero dovuto affrontare spese e disagi dovuti allo svolgimento del procedimento in un paese diverso da quello di residenza.
Cosa prevede il regolamento 1259/2010
Il regolamento 1259/2010 lascia alla coppia la possibilità di scegliere la legge che vogliono applicare in caso di crisi coniugale in base a specifici criteri.
La coppia mista può scegliere di adottare la legge dello Stato dell’attuale residenza oppure quella dello Stato dell’ultima residenza comune, a patto che uno dei due vi risieda ancora.
In alternativa, la coppia può decidere di rifarsi alla legge dello Stato di cui sono cittadini o ancora alla legge del foro, cioè dello Stato dove si svolge il procedimento giudiziario.
Affinché tale decisione sia valida, è necessario che i coniugi firmino una dichiarazione che indichi la legge applicabile al fine di conoscere le conseguenze giuridiche e sociali cui vanno incontro facendo quella precisa scelta.
La dichiarazione dovrà essere fatta in qualsiasi momento dopo le nozze basta che sia precedente alla separazione o al divorzio.
Una simile libertà di scelta garantisce a marito e moglie molta autonomia e soprattutto risponde a esigenze pratiche, concrete. Prendiamo per esempio, due coniugi italiani residenti all’estero potranno chiedere la separazione davanti a un Giudice italiano, senza dover affrontare le difficoltà di un processo in terra straniera.
Ed, ancora, laddove la legge prescelta lo consenta, i coniugi potrebbero immediatamente divorziare senza dover prima separarsi come avviene in Italia o, ancora, potrebbero far valere gli accordi prematrimoniali, possibilità che da noi non è ancora ammessa.
Affidamento e collocazione di più fratelli: valore alla volontà del minore con l’ascolto in giudizio
Durante il giudizio di affidamento o collazione dei figli, siano i genitori sposati o conviventi, ha sempre più valore la loro volontà. In particolare nel caso in cui siano coinvolti più fratelli è possibile procedere con l’ascolto di ciascun minore in giudizio, compatibilmente con l’età e la capacità di discernimento.
Noi siamo abituati a pensare ai figli come persone che hanno voce in capitolo, invece, sempre più spesso le cose in questo senso stanno cambiando e la volontà dei minori sta assumendo maggiore rilevanza.
L’importanza di dare valore alla volontà dei minori nel giudizio di affidamento
Per capire meglio potremmo fare un esempio di una famiglia dove i genitori si stanno separando e ci sono tre figli, di cui uno ormai adolescente: pensiamo ad un quindicenne o sedicenne, e gli altri due di pochi anni più piccoli.
A differenza di questi ultimi, particolarmente attaccati alla madre, il più grande ha sempre avuto un legame speciale con il padre, con cui condivide la passione per lo sport. Fin da quando era solo un bambino, il ragazzo ha partecipato col padre a gare e concorsi anche su scala nazionale. I due hanno quindi trascorso molto tempo insieme fin dall’infanzia del figlio, dedicandosi alla loro passione e sviluppando un particolare feeling. Per queste ragioni il ragazzo vorrebbe poter continuare a vivere, anche dopo la separazione, col papà.
Per esigenze lavorative, il padre si allontana spesso da casa, fattore che senz’altro potrebbe ostacolare la decisione del Giudice di far abitare con lui tutti e tre i figli, peraltro i due più piccoli vorrebbero assolutamente stare con la mamma.
I genitori vorrebbero quindi venire incontro ai desideri dei figli ma in questi casi sorge anche il dubbio se sia possibile separare i fratelli perché la collocazione dei figli tende a non essere suddivisa tra i due genitori essendo preferibile evitare di dividere fratelli e sorelle per non causare un allontanamento traumatico. Quando siamo davanti ad una decisione condivisa, e anzi richiesta dagli stessi figli, non è però escluso che questa soluzione venga accolta dal Tribunale.
L’ascolto del minore
La volontà del minore, soprattutto se capace di comprendere ed esprimere le proprie necessità e i propri desideri, è rilevante in un procedimento nel quale si deve decidere del suo futuro, per questo motivo è previsto il diritto del minore ad essere ascoltato, e quindi che il Giudice ascolti sempre il minore maggiore di 12 anni per prendere provvedimenti che lo riguardano in maniera diretta, ma anche i bambini di età inferiore, se già in grado di esprimersi e più in generale se capaci di discernimento.
L’ascolto è fatto dal Giudice, e può anche avvenire in presenza di esperti. Tuttavia, quando la volontà del minore si rivelasse in contrasto con i suoi interessi, o quelli dei fratelli, il Giudice potrebbe dover prendere provvedimenti diversi da quanto emerso dalla fase di ascolto.
L’ipotesi di collocare i figli più piccoli presso un genitore e il ragazzo adolescente presso l’altro, come prospettato in precedenza, potrebbe risultare un’opzione praticabile nel caso il Giudice ascoltasse il ragazzo, magari anche i fratelli, e capisse che la sua reale volontà non è dannosa, né per sé né per i fratelli.
Bisogna però fare particolare attenzione anche ai fratelli più piccoli che, forse, in questo caso finiscono per essere i soggetti più fragili: in una fase delicata come è la separazione, vedere già il papà allontanarsi dalla loro vita quotidiana rende ancor più difficile pensare anche di doversi distaccare dal fratello maggiore.
Certamente il tutto sarebbe più facile se i genitori continuassero ad abitare nella stessa città, ma comunque, a certe condizioni, si assiste a trasferimenti in un’altra città, anche lontana o all’estero.
Il Tribunale quindi, valutate tutte le circostanze del caso, e sentiti i genitori, dovrebbe convocare i minori e ascoltare i loro pareri e desideri, così da tenerne conto nella definizione dei provvedimenti da adottare per la collocazione.
Genitori separati e divorziati: si al diritto di visita online ai figli con smartphone e computer
Per i genitori separati e divorziati che vivono distanti dai figli è possibile rispettare il diritto di visita con modalità alternative come quella online attraverso l’uso di smartphone e computer.
Quando è possibile esercitare il diritto di visita online
Pensiamo ad una madre, collocataria dei figli minori, affidati ad entrambi i genitori, che riceve dall’azienda presso cui lavora una promozione che le richiede il trasferimento in un’altra città. Nonostante i dubbi iniziali, la madre decide di cogliere al volo quest’opportunità, che si traduce anche in un aumento di stipendio.
I due genitori affrontano la vicenda e, dopo qualche smarrimento iniziale, anche il padre incoraggia la ex a trasferirsi. Al di là dell’incoraggiamento iniziale, il padre tuttavia è intimamente preoccupato perché teme di allontanarsi troppo dai figli e di perderli.
Per quanto dolorosa possa essere una scelta simile, specialmente per chi la subisce, essa non influisce sull’affidamento dei minori.
La distanza geografica tra i luoghi di residenza dei genitori, infatti, non impedisce di mantenere l’affidamento condiviso. D’altra parte, la lontananza non incide sulla capacità di un genitore di crescere, istruire ed educare il proprio figlio, né di stargli vicino o fargli sentire la propria figura di riferimento.
Si tratterà dunque di fare qualche sforzo in più, rivedendo modalità e tempi di permanenza del minore con l’altro genitore. Se la madre si trasferisce in una città distante, o semplicemente mal collegata, è evidente che i pomeriggi infrasettimanali, magari col pernotto, nei quali il padre andava a prendere a scuola i figli verrebbero compromessi. Essi potrebbero essere sostituiti, ad esempio, aumentando l’orario di inizio e fine dei weekend alternati di spettanza del papà (facendoli eventualmente partire dal venerdì invece che dal sabato), oppure ampliando le vacanze estive e invernali col padre.
I limiti da rispettare in caso di modifica della residenza
Se la residenza dei figli cambia in seguito al trasferimento del genitore collocatario, dovranno probabilmente essere riviste le modalità e i tempi di visita. In questa prospettiva, un aiuto può arrivare dalle nuove tecnologie.
È stata ammessa, a questo proposito, la possibilità d‘integrare le visite ai figli – rese più difficoltose e dispendiose dalla distanza – con “visite online” utilizzando la webcam [sappiamo tutti quanto sia tecnologicamente facile: la videocamera è già integrata su tutti gli smartphone (Apple®, Android® ecc.) o si monta sul pc qualora il monitor già non l’abbia integrata). Basta poi un programma, generalmente già preinstallato sul cellulare (tipo FaceTime® su iPhone®), o da scaricare gratuitamente come Skype®].
Naturalmente quella online non sarà sufficiente come unica forma di contatto e comunicazione con i propri figli.
Se infatti la videochiamata rappresenta indubbiamente un mezzo più coinvolgente rispetto alla telefonata, perché consente maggiore interazione, grazie alla possibilità di cogliere anche gli aspetti non verbali della comunicazione, essa non può in alcun modo essere considerata sostitutiva della relazione fisica.
Per questo sarà opportuno mantenere la visita online solo come strumento integrativo, a supporto degli incontri veri e propri con i figli.
Rischi per chi ostacola il rapporto tra il figlio e l’altro genitore
Incontriamo ogni giorno persone che purtroppo pensano che i figli siano di loro esclusiva proprietà, che hanno una morbosa possessività: li si sente continuamente dire i “miei” figli, mai i “nostri”, quasi a voler negare la figura genitoriale dell’altro. Se poi neppure accettano di poter avere un rapporto sereno con l’ex dopo la fine della loro storia d’amore, si finisce quasi sempre per litigare e la gestione dei figli risulta molto conflittuale. Ogni scusa è valida per impedire ai bambini di poter vedere e frequentare l’altro genitore. L’orario delle visite viene puntualmente modificato senza preavviso, impegni imprevisti e scuse di vario genere costringono l’ex, sempre più spesso, a dover rinunciare a far visita ai minori.
Conseguenze civili per chi ostacola il diritto di visita
Molto frequentemente queste persone ignorano che ostacolare il diritto di visita di un genitore è un comportamento che può essere sanzionato e punito, perché impedisce il corretto svolgimento delle modalità di affidamento stabilite dal Giudice. Sono innanzitutto i diritti del bambino ad essere lesi: il diritto alla bigenitorialità di avere legami equilibrati e continuativi con entrambi i genitori, il diritto a godere di una equilibrata e serena crescita psicofisica, il diritto ad avere un rapporto affettivo stabile e significativo, il diritto a ricevere una costante educazione ed istruzione, sono questi solo alcuni dei primari interessi del minore che devono assolutamente essere tutelati e garantiti.
Di fronte a questi comportamenti volontari e ripetuti nel tempo, il genitore che si vede limitato nel suo diritto di visita al figlio può però ricorrere in Tribunale. Il Giudice dovrà accertare la violazione degli accordi stabiliti per l’affidamento e la gestione della prole e potrà adottare i provvedimenti che ritiene più opportuni: potrebbe anche modificare gli originari provvedimenti, dal semplice aggiustamento o integrazione per risolvere il contrasto o le incertezze tra i genitori, alla vera e propria revisione nei casi più gravi. Il Giudice potrebbe inoltre procedere all’ammonizione del genitore inadempiente, indicando: quale sia il comportamento che il genitore deve tenere e richiamandolo ad evitare ulteriori inottemperanze, pena l’irrogazione di misure più severe. L’ammonizione fatta dal Giudice ha, quindi, una importante funzione preventiva e di deterrente psicologico.
In base al danno che risulterà dalle violazioni compiute, il Giudice potrà stabilire se procedere con la sola ammonizione o addirittura definire un risarcimento danni sia nei confronti del genitore che procede che nei confronti dei figli, lesi nel loro diritto ad una sana bigenitorialità.
Quando s’impedisce o si ostacola il rapporto del figlio con l’altro genitore, infatti, si va a ledere un diritto personale costituzionalmente garantito, che può dare luogo a danni risarcibili, si pensi, per esempio, al dolore di un genitore che viene escluso dalla vita del suo bambino. Naturalmente, perché il risarcimento venga riconosciuto è necessario dimostrare che non siano stati rispettati gli accordi, in particolare che sia stato commesso un grave inadempimento, ripetuto in modo sistematico e consapevole dall’altro genitore. In linea di massima, quindi, non sarà rilevante se in qualche occasione venisse spostato il giorno di visita o annullato, perché dovrà essere provata una situazione di una certa serietà e gravità, e che non sia altrimenti giustificabile.
La maggiore età non è la data di scadenza per il mantenimento dei figli
Negli ultimi anni, complici la dura crisi economica e l’alto tasso di disoccupazione giovanile, non sono stati usati mezzi termini per definire i giovani. Su di loro è stato detto di tutto: che sono dei “bamboccioni”, che sono “choosy” (cioè schizzinosi) e perfino che sono dei “fannulloni” e “sfaticati”. Ma per un giovane asseritamente sfaticato, ce ne sono tantissimi altri che provano a cercare la propria strada. Non sempre però l’impegno e la fatica vengono ripagati a dovere, così in molti si ritrovano a svolgere impieghi saltuari che rendono impossibile, nella pratica, il raggiungimento di un’indipendenza economica dai genitori.
Immaginiamo il caso di un giovane neolaureato che ha sempre svolto lavori part-time, per evitare di pesare eccessivamente sulle spalle dei suoi genitori, divorziati. All’indomani della laurea, il ragazzo inizia immediatamente a cercare lavoro, ma le uniche offerte che riceve sono proposte di stage, senza possibilità di assunzione. Pur di fare esperienza, il ragazzo decide di accettare. La retribuzione che percepisce, però, è appena sufficiente a coprire le spese e l’orario full-time non gli consente di arrotondare svolgendo una seconda attività. Appare evidente che il giovane necessiti di aiuto ed, in questi casi, i genitori dovranno continuare a dargli una mano per integrare.
L’assegno periodico al figlio maggiorenne
Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne cessa solo nel momento in cui questi abbia raggiunto l’indipendenza economica. Il contributo al mantenimento può essere versato al genitore con cui il figlio vive stabilmente oppure direttamente al figlio stesso, specialmente se questi, nel frattempo, non vive più all’interno della stessa casa del genitore collocatario, avendo preso altro domicilio, ad esempio, per ragioni di studio.
L’obbligo di contribuzione al mantenimento potrebbe essere evitato dal genitore nel caso in cui il figlio sia direttamente responsabile della sua posizione di dipendenza economica. Se il figlio potesse rendersi autonomo in presenza di occasioni lavorative e decidesse di non coglierle per mancanza di volontà, potrebbe perdere il suo diritto al mantenimento. Il figlio dovrà quindi darsi da fare e attivarsi per cercare un lavoro, consultando ad esempio gli annunci su giornali e sui siti internet specializzati, dovrà recarsi presso le società di lavoro interinale e al Centro dell’Impiego, dovrà inviare il c.v. e sostenere i colloqui. Anche qualora volesse svolgere un lavoro indipendente o una professione autonoma o volesse diventare un imprenditore dovrà attivarsi fattivamente. Un atteggiamento passivo e parassitario alle spalle dei genitori non potrà essere premiato. Si ricordi però che, se è previsto un assegno di mantenimento, il genitore obbligato non potrà decidere autonomamente di non versarlo più, ma dovrà prima rivolgersi al Tribunale per chiedere, a seconda dei casi: o la cessazione totale o il pagamento di un importo più basso.
Il caso del giovane neolaureato che abbiamo in precedenza visto, però, è ben diverso. Il ragazzo, per motivazioni a lui estranee, non è ancora riuscito a ottenere quell’autonomia economica che gli consentirebbe di non pesare più sulle spalle dei genitori e, quindi, avrà ancora diritto. Il giovane in caso di non collaborazione da parte dei genitori potrebbe perfino iniziare una causa contro gli stessi affinché questi gli corrispondano, finché sarà necessario, un contributo di mantenimento.
Né il raggiungimento della maggiore età né il conseguimento del titolo di laurea, quindi, rappresentano eventi che fanno decadere l’obbligo del genitore di mantenere il figlio. Lo stesso vale, ma in certi casi assai limitati, per le nozze: la costituzione di una nuova famiglia da parte del figlio maggiorenne infatti non coincide in modo assoluto con il raggiungimento di quell’indipendenza economica che fa cessare il suo diritto a essere mantenuto, quantomeno temporaneamente.
La separazione che fa dividere la casa familiare
Separarsi significa in primo luogo lasciare la casa in cui si ha convissuto per anni e dove, probabilmente, sono nati e cresciuti i figli. Concretamente questo implica la ricerca di un’altra sistemazione, il trasferimento delle proprie cose in uno spazio nuovo, il contendersi con l’ex quegli oggetti che hanno segnato la storia comune, magari oggetti privi di un valore economico, ma carichi di un significato simbolico e di un valore affettivo. Lasciare l’abitazione coniugale si rivela perciò un passaggio duro, amaro, che diventa ancora più complesso se insieme alla casa si devono lasciare anche i figli e se le risorse economiche di cui si dispone sono scarse, tanto da rischiare di non potersi permettere neppure l’affitto di una nuova abitazione.
La casa coniugale: i principi di assegnazione
E’ bene fare una premessa per chiarire il concetto di “casa coniugale”. Con questa definizione s’intende l’habitat domestico, cioé il luogo degli affetti, quello in cui tutti i membri della famiglia hanno convissuto e si sono relazionati fino al momento della separazione. Va da sè, quindi, che l’eventuale seconda casa al mare non potrà rientrare in questa definizione, né potrà essere soggetta agli stessi criteri di assegnazione.
E’ previsto che, in caso di separazione, la casa familiare venga assegnata al coniuge collocatario, cioé il genitore con il quale vivranno prevalentemente i figli, sia che siano minorenni sia che siano maggiorenni ma non ancora autonomi dal punto di vista economico o portatori di handicap. A “ispirare” la norma, infatti, è l’interesse dei figli e la volontà di assicurare loro la possibilità di crescere nel luogo che da sempre conoscono e riconoscono come casa.
Una “pazza idea” in tempo di crisi
Ultimamente in certe situazioni hanno trovato accoglimento soluzioni singolari che possono consentire, di fatto, una condivisione degli spazi abitativi per i due coniugi: l’assegnazione parziale o il frazionamento dell’immobile familiare. Si tratta di ipotesi percorribili solo nei casi in cui siano riscontrabili determinate condizioni. Innanzitutto, l’abitazione deve essere sufficientemente grande da consentire la divisione della struttura in due unità abitative indipendenti; le parti devono versare effettivamente in condizioni economiche precarie tali da rendere non sostenibili le spese di mantenimento personali e dei figli con il reperimento di un’altra abitazione. Altra condizione determinante è che i coniugi non vivano una profonda conflittualità per non trasformare il rapporto di “particolare vicinato” in un prevedibile inferno. Se lo scopo primario, infatti, è venire incontro agli eventuali problemi economici dei coniugi, il fine che deve sempre essere raggiunto è quello della serenità dei figli permettendo loro di mantenere rapporti continuativi con entrambi i genitori. Va da sè che, se tra i due separati, vi è una conflittualità permanente, la possibilità di un’assegnazione parziale della casa familiare viene scartata dal Giudice.
La separazione consensuale ed i limiti all’autonomia dei coniugi
Fortunatamente, non tutte le separazioni sono accompagnate da fragorosi momenti di conflittualità tra le parti. Spesso accade che, per i più svariati motivi, i coniugi decidono di comune accordo di separarsi, nel rispetto del sentimento e dell’affetto che li ha uniti fino ad allora. In molti casi marito e moglie, quindi, concordano le condizioni della separazione, non solo per quel che riguarda l’affidamento e il mantenimento degli eventuali figli, ma anche per quel che concerne gli aspetti patrimoniali. Potrebbero dunque stabilire di risolvere la questione economica definendo una somma di denaro da versare in un’unica soluzione e concordando il passaggio di proprietà di alcuni immobili dal marito alla moglie.
La separazione consensuale
La separazione consensuale prevede un procedimento molto più breve rispetto alla separazione giudiziale. Dopo aver depositato congiuntamente il ricorso, che riporta le concordate condizioni, è prevista un’unica udienza presidenziale, durante la quale il Presidente del Tribunale tenta la conciliazione. Se il tentativo di conciliazione fallisce, viene valutata la legittimità degli accordi che, in caso positivo, vengono omologati dal Tribunale..
Il Tribunale deve valutare se le condizioni stabilite dai coniugi siano legittime sia nell’interesse degli eventuali figli che nel rispetto dell’uguaglianza tra i coniugi ed i loro diritti. Se l’accordo non passa il vaglio, i due coniugi vengono invitati ad adottare opportune modifiche. Marito e moglie potranno decidere se seguire o meno le indicazioni ricevute, ma in ogni caso il Tribunale non modificherà d’ufficio l’accordo di separazione. Tutt’al più potrà decidere di non omologarlo: senza omologazione la separazione non avrà effetto.
I trasferimenti immobiliari e l’assegno in unica soluzione in sede di separazione
Negli ultimi tempi, per lasciare più autonomia ai coniugi, è concessa la possibilità di accordarsi su trasferimenti immobiliari o patrimoniali in unica soluzione, in alternativa all’assegno di mantenimento periodico. E’ però bene sottolineare che questi non rappresentano un’opzione “conveniente” da percorrere in sede di separazione perché non possiedono la caratteristica di immodificabilità tipica delle pattuizioni in sede di divorzio. L’una tantum divorzile, infatti, si contraddistingue per non essere modificabile e per estromettere il coniuge beneficiario da tutti gli altri diritti economici.
In fase di separazione, invece, entrambi i coniugi potrebbero in ogni momento procedere con una modifica delle condizioni laddove in futuro si verificasse qualche cambiamento significativo.
La solidarietà coniugale “in ricchezza e in povertà” continua anche da separati
Due coppie, entrambe sposate, residenti nella stessa città, ma con diversissime capacità economiche. La prima abita in un bilocale di un quartiere periferico ed è la classica famiglia monoreddito: la moglie è casalinga, il marito è l’unico ad avere un impiego. Il suo però è uno stipendio piuttosto esiguo, tant’è che la somma che percepisce a malapena risulta sufficiente per coprire tutte le spese. La seconda, invece, vive in un attico nel pieno centro storico. Entrambi i coniugi provengono da famiglie abbienti. La moglie, che non lavora, si occupa dell’amministrazione e della gestione delle proprietà immobiliari in affitto sue e del marito, che invece è un affermato manager.
In caso di separazione, le due mogli – entrambe inoccupate – potrebbero chiedere un assegno di mantenimento e, con molte probabilità, entrambe potrebbero vederselo riconosciuto.
L’indipendenza dell’assegno di mantenimento dallo status economico
L’assegno di mantenimento si fonda sul principio di solidarietà coniugale e ha natura prettamente assistenziale. Il suo scopo infatti è riequilibrare l’eventuale sbilanciamento economico che potrebbe venirsi a creare conseguentemente alla separazione. Con questo scopo, l’ordinamento italiano prevede che la parte economicamente più forte della coppia supporti quella più debole, perché questa possa essere in grado di godere del tenore di vita avuto durante la convivenza matrimoniale.
Appare quindi con molta chiarezza come l’eventuale riconoscimento di un assegno di mantenimento dipenda da un principio “universale” di assistenza che non ha diretti legami col fattore reddituale o economico della coppia. Naturalmente, quando viene determinato l’ammontare dell’assegno, la valutazione delle risorse economiche e patrimoniali ha il suo peso; tuttavia, non è in funzione di quelle risorse che il Giudice stabilisce a priori se un coniuge abbia o meno il diritto a ricevere l’assegno.
L’esigua capacità economica del marito appartenente alla prima coppia, o la ricchezza dei coniugi della seconda, quindi, non sempre rappresentano un fattore determinante in fase di riconoscimento dell’assegno di mantenimento.
Nel primo caso, infatti, il Giudice potrebbe comunque individuare un soggetto più debole nella figura della moglie e imporre quindi al marito il versamento di un contributo, seppur minimo, per far fronte alle esigenze primarie di vita.
Nel secondo, viceversa, il tenore di vita della coppia durante la convivenza coniugale potrebbe risultare talmente elevato, da non essere sostenibile da parte del coniuge in posizione di svantaggio con i suoi soli mezzi. In altre parole, la moglie, per quanto abbiente, potrebbe ottenere comunque l’assegno di mantenimento, perché tutte le sue disponibilità potrebbero non bastare per garantirle lo stile di vita fino a quel momento goduto.