Sentenze equitative non sempre censurabili
(Cassazione S. U. Civili 716/99)
Le pronunce del Giudice di Pace “secondo equità” sono censurabili in Cassazione solo per violazione di norme (costituzionali o comunitarie) di rango superiore a quelle ordinarie. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha respinto perché “inammissibile” – per motivi procedurali – il ricorso dell’ENEL contro la sentenza del Giudice di Pace di Roma che, nel gennaio 1997, l’aveva condannato a rimborsare ai consumatori, difesi dal Codacons, per le somme pagate dal 1994 al giugno 1996 nelle bollette elettriche e relative alle “quote prezzo”. Si tratta della voce legata alla maggiorazione tariffaria concessa all’ENEL nel 1987 per recuperare un taglio operato dalla Finanziaria di quell’anno sul fondo di dotazione della società (pari a 6200 miliardi). Il Codacons sosteneva che agli utenti l’ENEL avrebbe continuato ad applicare illecitamente tali aggravi nonostante la cifra da recuperare fosse stata raggiunta alla fine del’93. Il Giudice di Pace di Roma gli diede ragione. Altri giudici di pace in modo difforme si occuparono della vicenda, alcuni accogliendo ed altri rigettando le domande di rimborso. L’ENEL ricorse in Cassazione contro gli accoglimenti. Ora le Sezioni Unite, respingendo il ricorso dell’ente per censure non riconducibili al proprio sindacato di legittimità, risolvono il contrasto giurisprudenziale sull’impugnabilità delle sentenze del giudice di pace in Cassazione stabilendone i limiti. In particolare, le Sezioni Unite ricordano che, quando il Giudice di Pace (l’ex “Conciliatore”) decide “secondo equità” non è vincolato al rispetto dei “principi regolatori della materia” contenuti nelle norme ordinarie ma solo al rispetto dei superiori principi contenuti nella Costituzione e nelle norme comunitarie, tutte gerarchicamente sovraordinate alle norme ordinarie. Pertanto, le sentenze c.d. “equitative” sono censurabili in Cassazione per violazione dei principi “superiori” (costituzionali e comunitari), restando per il resto la pronuncia secondo equità insindacabile in Cassazione, salvo quando “l’enunciazione del criterio di equità adottato sia inficiato da un vizio che, attenendo ad un punto decisivo della controversia, si risolva in un’ipotesi di mera apparenza o di radicale ed insanabile contradditorietà della motivazione”. (5 novembre 1999)
Sentenza della Suprema Corte di cassazione
sezioni unite civili 716/99
La Corte suprema di cassazione sezioni unite civili
ha pronunciato la seguente
sentenza
sul ricorso proposto da:
ENEL S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassidoro 19, presso lo studio dell’avvocato Luigi Janari, che lo difende unitamente all’avvocato Nicola Picardi, giusta procura speciale del Notaio dott. Alberto Vladimiro Capasso, depositata in data 10.04.1997, in atti;
– ricorrente –
contro
(….)., elettivamente domiciliati in Roma, Via delle Milizie, 9 presso lo studio dell’avvocato Canestrelli che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Rienzi, giusta delega a margine del controricorso:
– controricorrenti –
nonché contro
(……)
– intimati –
avverso la sentenza n. 235/97 del Giudice di Pace di Roma, depositata il 15.01.1997;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Alfio Finocchiaro il 26.03.99;
Udito l’avvocato Nicola Picardi, per il ricorrente;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. Paolo Dettori che ha concluso in via principale per la inammissibilità del ricorso, in via subordinata per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Mirella Bucci ed altri convenivano in giudizio la società ENEL innanzi al giudice di pace di Roma al quale chiedevano di “condannare l’ENEL S.p.A. a pagare agli attori quanto indebitamente riscosso dai medesimi a titolo di aumento della tariffa base (c.d. quota di prezzo) previsto dal provvedimento CIP n. 32/86 (pari a £ 22 per kwh per i consumi annui fino a 1800 kwh e £ 33 fino a 2700 kwh) a far tempo dal gennaio 1994 (fatte salve comunque ulteriori richieste per il periodo precedente); somme, risultanti dalle bollette che saranno allegate, la cui quantificazione avrà luogo in corso di causa; condannare altresì l’ENEL al risarcimento dei danni subiti dagli utenti oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi di legge per avere preteso indebitamente somme superiori a quelle dovute in virtù di validi ed operanti provvedimenti amministrativi”.
A sostegno della pretesa gli attori precisavano:
– che detta autorizzazione di sovrapprezzo termico era stata istituita e limitata sino al raggiungimento del recupero di 6.200 miliardi a favore del Fondo di dotazione dell’ENEL (legge n. 41/86) con addebito alle sole utenze domestiche;
– che la cassa conguaglio per il settore elettrico aveva comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al ministero del Tesoro che alla fine dell’anno 1983 l’importo predetto di 6.200 miliardi era stato integralmente corrisposto, per quanto già versato dalle predette utenze;
– che era indebito l’incasso del sovrapprezzo per essere il titolo e la stessa operatività del prelievo scaduti.
Nel costituirsi l’ENEL eccepiva carenza di interesse ad agire, difetto di giurisdizione, incompetenza e infondatezza delle pretese.
Con particolare riguardo all’incompetenza per valore l’ENEL deduceva testualmente: “La domanda di parte attrice, ove intesa ad ottenere sentenza accertativa del fatto che l’ENEL non avrebbe diritto a pretendere (e conseguentemente fatturare) il pagamento di somme relative alle cosi dette quote di prezzo, previste dal provvedimento CIP 32/86, a far data dal 28.2.1994, ha – per definizione – carattere di indeterminatezza ed appartiene pertanto alla competenza per valore del Tribunale (art. 9 c.p.c.)”.
Con sentenza del 15 gennaio 1997 il giudice adito, mentre rigettava le domande proposte da alcuni attori (Gianfranco Matteotti, Luigi De Sanctis, Francesco Borrino e Maria Neri), per essere risultati consumi inferiori a 900 kW e quindi non maggiorati dalla quota prezzo, accoglieva le domande proposte dagli altri ricorrenti e, per l’effetto, condannava l’ENEL alla restituzione delle somme indebitamente richieste e incassate a titolo di incremento per sovrapprezzo termico per gli anni 1994-1995, al risarcimento del danno ed al rimborso delle spese di giudizio.
A sostegno della pronuncia il giudice osservava:
– che era infondata l’eccezione di difetto assoluto di interesse degli attori per l’avvenuta riassegnazione delle quote-prezzo al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato, ai sensi della legge n. 549 del 1995, dal momento che l’art. 3, comma 240, della citata legge limita l’applicazione delle disposizioni. a far data dall’1 gennaio 1996, lasciando quindi nella disponibilità delle parti e senza alcuna riassegnazione il periodo 1994-1995;
– che parimenti infondata era l’eccezione di difetto di giurisdizione, sulla base di una presunta legificazione del provvedimento del Cip n. 15/93 e dell’art. 3, comma 240 della legge n. 549 del 1995, dal momento che nella specie si trattava del semplice recupero di somme indebitamente riscosse dall’ENEL e la relativa domanda rientrava nella giurisdizione dell’a.g.o.;
– che infondata era anche l’eccezione di incompetenza per valore dal momento che, contrariamente all’assunto della convenuta, gli attori non avevano proposto una domanda di contenuto indeterminato, ma una domanda diretta ad ottenere in concreto la condanna alla restituzione di somme indebitamente richieste e pagate;
– che non era contestata la circostanza dell’avvenuto incasso dei 6.200 miliardi e, quindi, del verificarsi, in concreto, della cessazione della legittimità dell’incremento del sovrapprezzo termico, come formalmente comunicato dalla Cassa conguaglio per il settore elettrico alla Presidenza del Consiglio e al Ministero del Tesoro per la scadenza dell’anno 1993;
– che non si poteva accordare alcun valore di retroattività all’art. 1, comma 1, del D.L. n. 473 del 1996, convertito in legge n. 577 del 1996;
– che non poteva condividersi la tesi prospettata dall’ENEL, secondo la quale gli obiettivi prefissati non sarebbero stati ancora raggiunti alla data predetta, in quanto il rientro dell’importo di £ 6.200 miliardi doveva considerarsi al netto di imposte e di interessi, e ciò per la mancanza di una espressa e positiva disposizione di legge in tale senso;
– che dall’accertamento giudiziale del fatto illecito prospettato, di natura, peraltro, certamente colposa, discendeva l’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., da liquidare, attesa l’oggettiva difficoltà di prova ed in considerazione della non elevata entità degli importi, con valutazione equitativa ed al valore, in misura pari, per ciascuno degli attori, allo stesso importo indebitamente richiesto.
Avverso questa sentenza l’ENEL S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione articolato su cinque motivi, illustrati da memoria, cui resistono con controricorso Luciano Baldoni, Fulvio Primo Biscotti, Marisa Bartocci, Alcide Raponi, Giulia Chirico e Ivano D’Ascenzo.
La causa, inizialmente assegnata alla III sezione civile è stata assegnata dal Primo Presidente a queste S.U. per la composizione del contrasto di giurisprudenza, verificatosi nell’ambito delle sezioni semplici, sui limiti d’impugnabilità delle sentenze del giudice di pace, pronunciate secondo equità.
L’ENEL ha depositato note di udienza ai sensi dell’art. 379 c.p.c.
MOTIVI DELIA DECISIONE
1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura a proporre il ricorso, contestandosi che l’ing. Danilo Severini avesse i poteri per promuovere il giudizio, che l’amministratore delegato avesse i poteri per nominare l’institore; che il Consiglio di amministrazione dell’ENEL abbia autorizzato la nomina dell’institore.
L’ENEL S.p.A. ha prodotto, ritualmente, nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., estratto dello statuto della società dal quale risulta che la rappresentanza legale della società spetta sia al presidente che all’amministratore delegato, con facoltà per gli stessi di conferire poteri di rappresentanza legale della società, pure in sede processuale, anche con facoltà di subdelega; copia conforme del verbale di adunanza del Consiglio di amministrazione dell’ENEL del 28 giugno 1996 di nomina di Francesco Tatò alla carica di amministratore delegato, con indicazione dei poteri allo stesso conferiti, copia della procura del 13 gennaio 1997, con la quale l’amministratore delegato ha nominato e costituito institori della società gli ingegneri Claudio Barbesino e Alfonso Della Cananea, in caso di impedimento del primo, attribuendo agli stessi, la rappresentanza legale della società anche in sede processuale, con possibilità di subdelegare tale potere a dirigenti della società, nonché copia del procura del 21 gennaio 1997, con la quale il Barbesino, nella qualità di institore ha costituito procuratore il dirigente dell’ENEL ingegnere Danilo Severini.
Sulla base degli anzidetti documenti deve ritenersi l’ammissibilità del ricorso proposto dall’ENEL, in persona dell’ingegnere Danilo Severini, in virtù dei poteri conferitigli e ciò è sufficiente per il rigetto dell’accezione.
2. 1. – Preliminare all’esame dei motivi di ricorso si presenta la risoluzione della questione per la quale la controversia è stata rimessa a queste sezioni Unite e cioè la determinazione dei limiti entro i quali è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le sentenza del giudice di pace pronunciate secondo equità e che presuppone, a sua volta – in presenza di particolari affermazioni contenute in varie pronunce – la soluzione del problema della stessa struttura del giudizio di equità.
Seppure, infatti, la causa immediata del contrasto é stata determinata dalla interpretazione della nuova formulazione del secondo comma dell’art. 113 c.p.c. per il quale “Il giudice di pace decide secondo equità la cause il cui valore non eccede lire due milioni” – che ha sostituito il testo introdotto dall’art. 3 della legge 30 luglio 1984 n. 399, il quale stabiliva che “Il conciliatore decide secondo equità osservando i principi regolatori dalla materia” – la soppressione del riferimento ai “principi regolatori della materia” ha dato spunto ad una rilettura della norma ed alla affermazione di principi fra loro in contrasto, ma che coprono le varie alternative possibili, anche con riferimento ai limiti dell’impugnazione per cassazione avverso le sentenze emesse dal giudice di pace su controversia di valore non superiori a lire due milioni.
Si rinvengono in proposito le seguenti letture:
A) Benché l’attuale testo dell’art. 113, comma 2, c.p.c. si limiti ad affermare che il giudice di pace decide secondo equità le cause di valore non eccedente i due milioni, senza specificamente prevedere – come accadeva invece nel precedente testo con riguardo alla pronuncia del conciliatore – l’osservanza dei principi regolatori della materia. tale osservanza resta comunque doverosa per il giudice di pace quando pronuncia sentenze secondo equità, in armonia col sistema che prevede per tali sentenze la (sola) ricorribilità in cassazione, senza esclusione del profilo di violazione o falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c. (Cass. S.U. 30 Ottobre 1998 n. 10904);
B) la soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia comporta solo la rimozione di tale limite ai poteri equitativi del giudice di pace, dovendo quest’ultimo pur sempre procedere alla qualificazione giuridica dei dati ed all’esame delle loro conseguenze giuridiche, pur potendo, peraltro, derogare, in riferimento a tutte tali operazioni, alla norme di diritto, in applicazione dei principi equitativi enucleabili da giudizi di valore conformi, secondo la sua interpretazione, al comune sentire, con la conseguenza che le sentenze di merito del giudice di pace pronunziate secondo equità sono ricorribili in relazione ai vizi previsti dall’art. 360 n. 1, 2, 3, 4, 5 c.p.c., ma in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. sono ricorribili unicamente per le violazioni della Costituzione, del diritto comunitario, dei principi generali dell’ordinamento e della legge processuale, mentre in relazione al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sono ricorribili per vizi motivazionali in relazione agli accertamenti di fatto posti a base dei giudizio di equità (Cass. 28 agosto 1998 n. 8569);
C) il giudizio di equità si snoda attraverso due momenti. l’individuazione della regola di diritto applicabile alla fattispecie e l’attenuazione, motivata e consapevole, nel momento decisorio, della regola così individuata, in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali nelle quali si collocano gli interessi in gioco, con la conseguenza che l’erronea individuazione delle norme astrattamente applicabili è censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., mentre, l’operazione successiva di temperamento, nella qualificazione della fattispecie e nell’adozione delle richieste pronunzie, non potrà essere sottoposta ad alcun controllo di esaustività, logicità e completezza (proprio in ragione della natura della regola dell’equità), neanche per la supposta incongruità dell’apprezzamento dei dati economici e sociali sui quali si è fondata, salvo che la motivazione offerta in ordine al criterio di equità sia mancante, incomprensibile o perplessa, con l’ulteriore conseguenza che il giudice è tenuto a dar conto della regola equitativa applicata solo in sede di motivazione, ma non a previamente enunciarla (Cass. 2 aprile 1998 n. 3397; Cass. 24 agosto 1998 n. 8397);
D) A norma dell’art.113 c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 21 l. n. 374 del 1991) la pronuncia secondo equità resa dal giudice di pace è vincolata al rispetto della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento, ma non è più soggetta all’osservanza delle norme che esprimono i principi regolatori della materia oggetto del giudizio (per tali dovendosi intendere quelli regolanti gli istituti giuridici relativi al rapporto dedotto), con la conseguenza che, non essendo più necessaria l’individuazione dei suddetti principi regolatori (e perciò la qualificazione del rapporto secondo diritto), il potere decisionale equitativo del giudice di pace investe non solo la determinazione delle conseguenze giuridiche, ma altresì la qualificazione stessa del fatto controverso, ed, esprimendo un’equità cosiddetta “formativa” (o sostitutiva), non “correttiva” (o integrativa), si fonda su di un giudizio di tipo intuitivo (ancorché fondato sui valori oggettivi preesistenti nella realtà sociale) e non di tipo sillogistico, perciò non richiedente la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto e prescindente da ogni indagine relazionale tra tale norma e i suddetti valori oggettivi emergenti dalla realtà sociale, la sentenza pronunciata secondo equità dal giudica di pace è, pertanto, ricorribile in cassazione (oltre che per violazione delle norme processuali e di quelle sostanziali cui esse rinviano) solo per violazione della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento, non anche per inosservanza dei principi regolatori della materia, né per violazione della norme sostanziali eventualmente applicate perché (implicitamente o esplicitamente) ritenute conformi a equità, e neppure per violazione o falsa applicazione delle norme astrattamente applicabili al caso concreto (la cui individuazione non è neanche richiesta), inoltre, essendo il giudizio di equità per sua natura un giudizio di merito, è altresì insindacabile in cassazione l’individuazione del criterio su cui fonda il giudizio equitativo e la conformità di esso ai valori direttamente emergenti dalla realtà sociale, restando soggetta al sindacato di legittimità la motivazione in ordine al criterio di equità adottato solo nelle ipotesi di assoluta mancanza di essa o nei casi in cui il vizio motivazionale relativo a punti decisivi della controversia si risolva in motivazione apparente, ovvero insanabilmente contraddittoria (Cass. 20 febbraio 1998 n. 1794; Cass. 1 ottobre 1998 n. 9754; nonché, sostanzialmente nello stesso senso: Cass. 25 novembre 1998 n. 11970; Cass. 16 dicembre 1998 n. 12611 e 12612; Cass. 18 dicembre 1998 n. 12691);
E) La sentenza del giudice di pace resa in una controversia del valore non eccedente i due milioni è sempre pronunciata secondo equità (art. 113, comma 2, c.p.c. nel testo sostituito, con decorrenza 1 maggio 1995, dall’art. 21 della L. n. 374 del 1991), anche se il giudicante abbia applicato una norma di legge riconosciuta corrispondente all’equità, ovvero abbia espressamente menzionato norme di diritto senza alcun riferimento all’equità, dovendosi, in tale ultima ipotesi, presumere implicita la corrispondenza, sic et simpliciter, della norma giuridica applicata alla regola di equità (senza la ulteriore limitazione dei “principi regolatori della materia”, vincolanti, in passato, il giudica conciliatore). Ne consegue che la sentenza del giudice di pace, pronunciata a norma del ricordato art. 113, comma 2, c.p.c., è impugnabile con ricorso per cassazione soltanto con riferimento agli errores in procedendo, e non anche a quelli in iudicando, atteso che il giudizio di equità, per sua stessa natura, sfugge ad ogni rivalutazione da parte del giudice superiore (Cass. 11 giugno 1998 n. 5794).
2. 2. – L’individuazione dei limiti entro i quali è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le sentenze di equità del giudice di pace presuppone l’accertamento dell’ambito del giudizio di equità.
Come risulta dalla precedente esposizione le posizioni della giurisprudenza sono particolarmente divaricate, passandosi da quella sub A, per la quale la modifica legislativa non esclude l’applicabilità, anche per quanto riguarda il giudice di pace, dell’applicazione del vincolo costituito dai principi regolatori della materia, a quella sub B, che, preso atto della disposta soppressione, impone al giudice di procedere alla qualificazione giuridica dei dati ed all’esame delle loro conseguenze giuridiche, pur potendo, peraltro, derogare, in riferimento a tutte tali operazioni, alle norme di diritto, in applicazione dei principi equitativi enucleabili da giudizi di valore conformi, secondo la sua interpretazione, al comune sentire, a quella sub C, che prevede l’individuazione della regola di diritto applicabile alla fattispecie e l’attenuazione, motivata e consapevole, nel momento decisorio, della regola cosi individuata, in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali nelle quali si collocano gli interessi in gioco, a quella sub D, secondo cui la soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia esclude per il giudice la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto imponendogli di applicare una equità formativa e non correttiva, a quella sub C, che, dalla soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia, ritiene che devono applicarsi i principi consolidati in giurisprudenza in relazione all’originaria formulazione dell’art. 113 (ante riforma del 1984).
2. 3. – Allo scopo di giungere alla soluzione del contrasto si deve innanzitutto prendere posizione sulla questione relativa alla soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia, che vede contrapposta la posizione sub A) a tutte le altre.
Non ignora il Collegio che la soluzione prospettata sub A, assolutamente minoritaria e del tutto immotivata nella decisione che la sostiene, trova ampi riscontri in orientamenti dottrinali manifestati subito dopo la riforma e per i quali la cancellazione dell’obbligo di rispettare i principi regolatori della materia è più formale che sostanziale, con la conseguenza che gli stessi devono continuare ad essere applicati.
Tale indirizzo non può essere seguito, dovendosi convenire con altra dottrina per la quale la soppressione dell’obbligo di osservanza dei principi regolatori della materia libera il giudizio equitativo dal riferimento ai principi che sovrintendono al rapporto giuridico sottoposto all’esame del giudicante.
Questa conclusione, però, per essere accettabile deve essere integrata da ulteriori precisazioni (su cui infra), che superino i sospetti di illegittimità costituzionale formulati in rapporto all’art. 24 cost.
2, 4. – Le altre soluzioni indicate, seppure tutte nel senso della inoperatività del criterio della conformità della decisione ai principi regolatori della materia, pongono il problema della necessità o meno della individuazione della norma, di diritto applicabile prima di procedere all’applicazione dei principi equitativi al caso concreto.
Il punto di partenza per la soluzione della questione è costituito dall’esame dei risultati cui sono giunti queste S.U. con la fondamentale sentenza 15 giugno 1991 n. 6794 emessa in tema d’impugnazione delle decisioni del conciliatore e sulla base del testo, all’epoca vigente, dell’art. 113, comma 2, c.p.c., che prevedeva il rispetto dei principi regolatori della materia.
Questa decisione, dopo avere aderito a quell’orientamento secondo cui il giudizio di equità del conciliatore non può prescindere dalla normale qualificazione giuridica dei fatti e dalla valutazione giuridica delle loro conseguenze – perché al giudice conciliatore vengono prospettate controversie giuridiche, e cioè domande attinenti ad un rapporto giuridico in forza del quale l’attore pretende il riconoscimento di un proprio diritto nei confronti del convenuto che lo ha contestato o non l’ha soddisfatto – riteneva non giustificata l’esclusione del giudizio equitativo dal momento della qualificazione, perché anche con riguardo a tale momento può esservi spazio per un giudizio equitativo, basato su un valore che già è emerso nel contesto sociale di cui si tratta, ma non ancora è stato tradotto in termini di legge scritta, giungendo a tali conclusioni sulla base di due premesse; a) la non necessaria contrapposizione fra diritto scritto ed equità; b) l’obbligo dell’osservanza dei principi regolatori della materia, con la conseguenza che se detti principi sono osservati, anche la qualificazione della fattispecie vuole essere improntata a criteri equitativi, non realizzandosi la temuta incompatibilità tra l’esigenza della tutela di un rapporto giuridico portato alla cognizione del conciliatore ed il giudizio emesso dal giudice.
Orbene, se già in presenza di una norma, quale quella ora sostituita, si ammetteva il giudizio equitativo fin dal momento della qualificazione della domanda a maggior ragione tale giudizio deve ammettersi allo stato attuale della legislazione che non prevede l’osservanza dei principi regolatori della materia.
E’ bensì vero che la decisione delle S.U. del 1991 giungeva a tali conclusioni, proprio per l’esistenza del riferimento ora espunto, ma non da ciò può farsi derivare la conseguenza, allora disattesa, e che trova sufficiente giustificazione nella non necessaria contrapposizione fra diritto scritto ed equità.
A ciò bisogna poi aggiungere che se il giudizio di equità non è soggetto all’osservanza dei principi regolatori della materia non è più necessaria l’individuazione di tale principi e, quindi, l’individuazione della norma astrattamente applicabile e, perciò, la qualificazione giuridica del rapporto dedotto.
L’equità non opera cioè in via vicaria della norma di diritto astrattamente disciplinante la fattispecie, applicandosi solo quando quest’ultima non sia adeguata al caso concreto in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali nelle quali si collocano gli interessi in gioco, secondo la tesi esposta sopra sub C, ma costituisce la regola della decisione in riferimento a controversie di un determinato modesto valore devolute, sulla base di una valutazione tipica compiuta dal legislatore, alla competenza del giudice di pace, con la conseguenza che, in tali controversie, il giudice non è tenuto a compiere un previo accertamento della norma di diritto applicabile al caso concreto, ma deve senz’altro giudicarlo facendo applicazione delle norme di equità.
In presenza di una norma espressa, con la quale si stabilisce che il giudice di pace decide secondo equità determinate controversie, non vi è assolutamente spazio per pretendere la previa individuazione, ad opera dello stesso giudice, della norma di diritto applicabile alla fattispecie, da ciò facendo derivare la censurabilità, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., della violazione di tale individuazione: non essendo configurabile alcun obbligo in proposito non é ammissibile un ricorso per cassazione al sensi della richiamata disposizione.
Queste conclusioni comportano altresì, per le stesse ragioni, l’inaccoglibilità della tesi sub n.2.
2.5. – Da quanto detto nel numero precedente deriva altresì – secondo quanto esattamente rilevato nella tesi sub D – che il potere decisionale equitativo del giudice di pace investe non solo la determinazione delle conseguenze giuridiche, ma altresì la qualificazione stessa del fatto controverso, ed, esprimendo un’equità cosiddetta “formativa” (o sostitutiva) non “correttiva” (o integrativa), si fonda su di un giudizio di tipo intuitivo (ancorché fondato sui valori oggettivi preesistenti nella realtà sociale) e non di tipo sillogistica, perciò non richiedente la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto e prescindente da ogni indagine relazionale tra tale norma e i suddetti valori oggettivi emergenti dalla realtà sociale.
2.6. – Così precisati i limiti del giudizio di equità ed il modo di operare dello stesso, vanno individuati i limiti entro i quali è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le pronunce del giudice di pace, dovendosi in proposito distinguere tra violazione di norme processuali e violazione di norme sostanziali.
2.7. – Per quanto attiene alle prime, il disposto dell’art.311 c.p.c. secondo cui il procedimento innanzi al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel titolo II del libro II del codice di rito o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative nel procedimento davanti al tribunale, in quanto applicabili e tenuto presente che l’equità attiene al solo piano delle regole sostanziali del giudizio, utilizzabili in funzione della decisione di merito, e non anche a questioni di ordine processuale, atteso che il nuovo testo dell’art. 113 c.p.c. non ha “deformalizzato” il giudizio di equità, ne deriva – come assolutamente pacifico in sede di legittimità – che le sentenze del giudice di pace, in controversie di valore inferiore a lire due milioni, sono ricorribili per cassazione, ogniqualvolta si denunzi la violazione di norme processuali (tra le più recenti in tale senso, Cass. 1 ottobre 1998 n. 9754; Cass. 23 novembre 1998 n.11869; Cass. 8 gennaio 1999 n. 109, Cass. 12 gennaio 1999 n. 227; Cass. 29 gennaio 1999 n. 807; Cass. 5 febbraio 1999 n. 1007; Cass. 20 marzo 1999 n. 2599), specie quelle del contraddittorio e della difesa (Cass, 18 dicembre 1998 n. 12691), e ciò anche nell’ipotesi in cui la regola del giudizio è contenuta in una norma di procedura che rinvia ad una norma sostanziale (Cass. S.U. 15 giugno 1991 n. 6794).
L’equità trova, infatti, posto soltanto nella decisione del merito della causa, e soltanto per quanto attiene alla regola sostanziale da applicare alla domanda di attribuzione del bene della vita proposta dalla parte.
2.8. – Passando alla decisione del merito ed ai limiti del ricorso per cassazione avverso la stessa, la compiuta disamina (cfr. supra n. 2.l.) evidenzia posizioni estremamente differenziate; da quella dell’ammissione del ricorso ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. per tutto quanto concerne gli errores in iudicando (tesi sub A) a quella della inammissibilità totale di tale ricorso (tesi sub E), passando attraverso tesi intermedie che consentono il ricorso per cassazione per violazione della Costituzione, del diritto comunitario e dei principi generali dell’ordinamento.
Le due tesi estreme non possono seguirsi.
Non la prima, per non essere il giudizio di equità sottoponibile a controllo di conformità alla norma scritta, sotto pena di vanificazione dell’equità, sarebbe, infatti, intimamente contraddittorio – nel momento stesso in cui si legittima il ricorso all’equità, che può anche divergere dalla norma scritta – sanzionare come violazione di legge la decisione di merito in quanto difforme da tale norma.
Non la seconda, perché, rendere intangibile un giudizio per il solo fatto che in esso si è fatta applicazione di un principio equitativo, finirebbe per legittimare l’arbitrio dei giudice e giustificherebbe quella censura di incostituzionalità alla quale si è in precedenza fatto cenno (supra n. 2.2.).
In realtà – come è stato esattamente osservato da queste S.U. con la richiamata sentenza del n. 6794 del 1991 – il giudice di pace, nell’esercizio del potere equitativo, deve osservare la Costituzione, sia nel senso che – ovviamente – è uno dei giudici che può sollevare la questione di costituzionalità di una norma, sia nel senso che fra due interpretazioni di una norma dovrà privilegiare quella conforme alla Costituzione.
Tale limite della soggezione alla costituzione non è espresso nell’art. 113, comma 2, c.p.c., perché già derivante in via generale dalla stessa Costituzione (art. 54 e 101 Cost.), nonché dal principio di gerarchia delle fonti.
Proprio quest’ultimo principio impone l’osservanza delle norme comunitarie, di valore superiore alle norme ordinarie.
Il più volte citato art. 113, comma 2, c.p.c., nella parte in cui consente la sostituzione dell’equità alla norma ordinaria, non ha il potere di consentire il superamento delle norme comunitarie, impedito proprio dal richiamato principio della gerarchia delle fonti.
La soggezione della pronuncia secondo equità alle norme costituzionali, nonché alle norme comunitarie, con il correlativo potere di censurarne la violazione con il ricorso per cassazione, esclude i sospetti di incostituzionalità del novellato art.113, comma 2, c.p.c., per l’eliminazione del riferimento ai principi regolatori della materia.
La soppressione di qualsiasi censura per violazione di norme di diritto che non siano di rango costituzionale o comunque sovraordinate a quelle ordinarie, esclude altresì di ritenere applicabile l’ulteriore limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento.
Questi ultimi (cfr. art.12, comma 2, preleggi), malgrado apparentemente sembrino preesistenti e di rango superiore alle norme scritte, in realtà, derivano, attraverso successive astrazioni, dalla ratio di un complesso omogeneo di norme, tanto vero che è la modifica di queste ultime a determinare un mutamento dei primi e non viceversa.
Ciò comporta che non può ritenersi assoggettabile a controllo di legittimità il mancato rispetto da parte della sentenza emessa secondo equità di tali principi generali, perché, dal momento che gli stessi altro non sono che norma di diritto, in siffatto modo, si finirebbe per legittimare una censura per violazione di legge di carattere sostanziale, esclusa sulla base delle precedenti osservazioni.
E’ bensì vero che tale rispetto è stato ritenuto necessario dalla sentenza delle S.U. del n. 6794 del 1991, ma questa decisione è intervenuta in un contesto legislativo diverso, ove era imposta l’osservanza dei principi regolatori della materia, che costituivano un minus rispetto ai principi generali del l’ordinamento.
Venuto meno il rispetto dei primi deriva il venire meno del rispetto dei secondi, nella misura in cui non siano espressione di norme costituzionali.
2.9. – Le precedenti conclusioni trovano applicazione – per pacifica giurisprudenza – in tutte le ipotesi in cui il giudice di pace abbia deciso: 1) richiamandosi espressamente all’equità;
2) applicando norme di diritto, dichiarando che tali norme corrispondono all’equità;
3) applicando norme di diritto, senza nulla esprimere in ordine all’equità della decisione.
E’ stato infatti esattamente osservato da Cass. S.U. n. 6794 del 1991 – sia pure con riferimento al conciliatore, ma le relative conclusioni sono applicabili anche al giudice di pace, poiché è evidente la legittimità dell’ipotesi sub 2) (posto che fra diritto ed equità può non sussistere contrapposizione, e che il giudizio su tale aderenza dell’equità alla soluzione in diritto della vertenza appartiene al conciliatore) e poiché, quindi, la suddetta ipotesi si deve in tutto parificare a quella sub 1), l’eventuale violazione o falsa applicazione della norma di legge (coincidente con quella di equità) non può essere deducibile in Cassazione, perché – per quanto errata sia l’interpretazione datane – essa si presenta caratterizzata dai connotati di insindacabilità del giudizio di equità: il conciliatore ha ritenuto equa la norma nella lettura che ne ha dato e quindi tale lettura non può essere sottoposta al controllo della Cassazione. Il terzo caso per coerenza, deve risolversi allo stesso modo. Esiste il potere-dovere del conciliatore di giudicare secondo equità, ma non si può ritenere che incorra in eccesso di potere (deducibile come error in procedendo e cioè come violazione dell’ambito della potestas judicandi) il giudice che abbia deciso secondo norme di diritto in ragione della già postulata natura del giudizio di equità, come giudizio giuridico (data la necessità del riferimento alla fattispecie normativa e della comparazione fra norma di legge ed eventuale criterio equitativo prescelto, il quale può operare solo se sia giustificata obiettivamente una diversità di trattamento rispetto a quello risultante dalla legge). In tal caso, lungi dal commettere un eccesso di potere, (denunciabile come tale, cioè come error in procedendo ai sensi dell’art.360 n. 4) il conciliatore implicitamente ha ritenuto coincidenti i due ordinamenti, quello positivo e quello fondato sui valori obiettivi e sociali di equità e non deve esporre alcuna ragione per dimostrare che la decisione è conforme all’equità. Pertanto, mentre sarà inammissibile una censura limitata a lamentare che il conciliatore non abbia espresso le ragioni di equità della decisione, il ricorso ex art.360 n. 3 incontrerà i limiti già detti.
La stessa sentenza, poi, così prosegue – e le relative conclusioni Il Collegio interamente condivide -“la peculiarità del giudizio di equità consiste nel suo esaurirsi nel merito, perché (sia che il giudice ritenga l’equità realizzata nell’ordinamento positivo – le cui norme applica – sia che ritenga sussistente quella ragione di deroga o mitigazione del diritto positivo, applicando una regola equitativa più adatta al caso concreto) la regola applicata non può prescindere dalla fattispecie peculiare, di guisa che non è possibile formulare quei criteri generali, in cui dovrebbe consistere il compito della Cassazione, neppure astraendo dal singolo caso. Invero, se la Cassazione ha le funzioni di cui all’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, e quelle di cui all’art. 111 Cost. e 360 c.p.c., è evidente che i suoi giudizi dovranno essere esclusivamente giuridici, ancorati al diritto positivo, e quindi non potrà dare mai giudizi di equità, neppure formulati per massime astratte, ipoteticamente valide come criteri generali per una serie indefinita di fattispecie che vi rientrerebbero. Fra l’altro, nel giudizio equitativo è connaturato un procedimento logico intuitivo e comunque non sillogistico, la regola applicata è collegata direttamente al giudizio particolare; è un criterio regolatore del fatto singolo e fa tutt’uno con esso. Come la Suprema Corte possa enunciare quell’insieme di “deroghe” allo stretto diritto in che consistono i criteri equitativi via via applicati dai vari giudici, non e dato comprendere. E ciò neppure se il conciliatore abbia ritenuto coincidente l’equità con la norma positiva applicata, perché non vi è luogo ad un esame della Cassazione in diritto”.
2. 10. – ultimo problema da esaminare è quello della censurabilità in cassazione della motivazione della sentenza di equità ed in relazione a tale profilo è da tenere presente che – come è stato esattamente rilevato da Cass. S.U. n. 6794 del 1991- per adempiere all’obbligo della motivazione è sufficiente dar conto, in modo succinto, del processo logico-giuridico seguito, di guisa che non sono sufficienti affermazioni apodittiche, senza alcun richiamo al criterio seguito, mentre l’omessa esposizione dei motivi di equità non rileva, quando esistono le ragioni giuridiche della decisione, mentre se queste non sono enunciate, la decisione si riduce a puro arbitrio, al pari di quando il giudice dia una motivazione solo apparente, perché manca del minimo indispensabile a far capire perché sia stata accolta o respinta la domanda, dal momento che anche la decisione di equità deve obbedire ad esigenze di logica e razionalità, di guisa che risulti da essa la ratio decidendi, l’assoluta mancanza della quale (intesa anche come apparenza di una motivazione in realtà inesistente) comporta la nullità della sentenza, per mancanza dei requisiti formali indispensabili.
Sulla base di queste premesse ritiene il collegio che si debba confermare la costante giurisprudenza (ex plurimis: Cass. 2 aprile 1998 n. 3397, Cass. 28 aprile 1998 n. 4033; Cass. 7 ottobre 1998 n. 9917; Cass. 25 novembre 1998 n, 11970; Cass. 16 dicembre 1998 n. 12611 e 12612) secondo la quale:
1) il vizio di motivazione in diritto è irrilevante, salvo che non si traduca in inesistenza della motivazione (o motivazione apparente, o contrasto irriducibili fra affermazioni inconciliabili, tale da precludere l’identificazione della ratio decidendi; o motivazione perplessa, quando non sia possibile stabilire quale qualificazione giuridica del rapporto sia stata posta a base della motivazione);
2) la motivazione sul criterio di equità adottato non può mai rientrare nel sindacato della Suprema Corte, salva l’assenza di motivazione, nel senso già visto;
3) il vizio di cui al n. 5 dell’art.360, è ammissibile, ma esso riguarda non la motivazione in diritto, ma solo quella sui punti di fatto decisivi rilevanti ai fini del giudizio di equità, laddove punto decisivo è quello che è in rapporto di causalità logica rispetto alla soluzione giuridica data alla controversia, di guisa che esso ha carattere decisivo soltanto se coordinato con gli aspetti di quella soluzione che sono censurabili ex art. 360 n. 3.
2. 11. Il contrasto di giurisprudenza va, quindi, composto sulla base delle seguenti conclusioni.”A seguito della nuova formulazione dell’art.113, comma 2, c.p.c., nella decisione di controversia di valore non superiore a lire due milioni, il giudice di pace non deve procedere alla previa individuazione della norma di diritto applicabile alla fattispecie, ma deve giudicarla facendo immediata applicazione della equità c.d. formativa (o sostitutiva), non correttiva (o integrativa), fondata su un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico, con osservanza, ai sensi dell’art.311 c.p.c., delle norme processuali, nonché di quelle in cui la regola del giudizio è contenuta in una norma di procedura che rinvia ad una norma sostanziale, senza obbligo di rispetto dei principi regolatori della materia e dei principi generali dell’ordinamento, ma osservando le norme costituzionali nonché quelle comunitarie, quando siano di rango superiore a quelle ordinarie, Pertanto il ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza costituisce impugnazione di sentenza di equità, abbia il giudice dichiarato di avere applicato una norma equitativa o una norma di legge perché rispondente ad equità o si sia limitato ad applicare una norma di legge ed è ammissibile per violazione di norme processuali, nel senso esposto (art. 360, comma 1, n. 1, 2 e 4, laddove la censura di violazione di legge, attinente alla decisione di merito, è consentita per violazione di norme costituzionali e di norme comunitarie, di rango superiore alla norma ordinaria e tale interpretazione non contrasta con l’art.24 Cost. mentre la pronunzia secondo equità non esclude poi la configurabilità di censure ai sensi dell’art.360 n. 4 c.p.c. nei casi di inesistenza della motivazione, ovvero ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., allorché l’enunciazione del criterio di equità adottato sia inficiato da un vizio che, attenendo ad un punto decisivo della controversia, si risolva in un’ipotesi di mera apparenza o di radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione”.
3. – Tanto premesso, può procedersi all’esame dei motivi di ricorso.
4. – Con il primo motivo si deduce violazione degli art.9 e 34 c.p.c., in riferimento all’art.360 n. 2 c.p.c. e si censura la decisione impugnata deducendo l’incompetenza per valore del giudice adito e sostenendo che l’accertamento del suo diritto ad applicare le tariffe previste dal provvedimento CIP 32/86 nei confronti degli utenti, assumendo valore indeterminato, rientrava nella competenza del tribunale, avendo essa società prospettato in tali termini già al giudice di merito l’eccezione di incompetenza, ponendo una questione pregiudiziale, chiedendone la decisione con efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 34 c.p.c.
Secondo la ricorrente sarebbe stato chiesto al giudice di merito di accertare con efficacia di giudicato il diritto dell’ENEL ad applicare le tariffe previste dalla delibera n. 32/86, questione pregiudiziale rispetto alle azioni di ripetizione di indebito e di risarcimento, e da ritenersi di valore indeterminato in quanto riferentesi anche a pagamenti diversi da quelli richiesti in causa.
A tale motivo i controricorrenti oppongono la novità della questione sollevata con lo stesso, dal momento che, nel giudizio innanzi al giudice di pace l’ENEL. si era limitata ad eccepire l’indeterminatezza della domanda, senza formulare in alcun modo una domanda pregiudiziale riconvenzionale da decidere con efficacia di giudicato.
Con il secondo motivo si deduce violazione degli art. 9, 10, 11 e 113 c.p.c. in relazione all’art.360 n. 2 c.p.c., si insiste per l’incompetenza per valore dei giudice di pace, per il fatto che, anche ad ammettere la mancata richiesta di decisione con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale relativa alla sussistenza del diritto dell’ENEL ad applicare le tariffe de quibus, il giudice non aveva tenuto conto del fatto che per l’ente il valore della causa è dato dalla somma della domanda spiegate dagli attori (e anzi da un importo ancora maggiore, se si pensa ai diversi milioni di utenze domestiche esistenti su tutto il territorio nazionale), onde la competenza andava determinata tenendo conto della somma delle domande spiegate in giudizio, attesa l’unicità dell’obbligazione dell’ENEL.
Secondo la ricorrente a tale risultato si può giungere attraverso una interpretazione degli artt.10 e 11 c.p.c., adeguatrice delle suddette norme, giacché, diversamente opinando, si profilerebbe una lesione del diritto di difesa ed una evidente disparità di trattamento tra soggetti titolari dei medesimi, rilevanti interessi economici.
Anche in relazione a tale motivo i controricorrenti oppongono la novità della deduzione e comunque l’infondatezza della censura.
Con il terzo motivo si deduce violazione degli art.10 e 14 c.p.c. in relazione all’art.360 n. 2 c.p.c. sulla base del rilievo che l’azione restitutoria relativa alla ripetizione d’indebito e l’azione risarcitoria vanno sommate ai fini della determinazione della competenza per valore e poiché quella risarcitoria, non precisata nel quantum, deve presumersi di valore uguale al limite massimo della competenza del giudice adito, ne deriva di conseguenza, sotto quest’altro pro filo, l’incompetenza per valore del giudice di pace.
I primi tre motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, seppure astrattamente proponibili sulla base delle raggiunte conclusioni, sono inammissibili.
Il novellato art. 38 c.p.c. consente alla parte di sollevare l’eccezione d’incompetenza per valore non oltre la prima udienza di trattazione.
Da quanto precede deriva che la parte la quale ha dedotto, in primo grado, tempestivamente, l’eccezione di incompetenza per valore, in riferimento ad un determinato profilo della domanda, può, con il ricorso per cassazione, censurare la decisione impugnata in relazione all’eccezione prospettata, ma non formulare profili di censura nuovi, che, se proposti, vanno dichiarati inammissibili, non essendo l’eccezione di incompetenza per valore – neppure sotto il vigore del testo originario dell’art. 38 c.p.c. – rilevabile in ogni stato e grado di giudizio.
Dall’esame diretto degli atti di causa – che questa Corte può sempre compiere quando venga dedotto un error in procedendo – emerge che l’ENEL ha proposto una eccezione di incompetenza per valore formulata in primo grado, nella comparsa di risposta, di indeterminatezza della domanda, perché tendente ad ottenere una sentenza di accertamento negativo, e che il giudice di pace tale indeterminatezza ha escluso per essere la richiesta di condanna quantificata ritualmente e non limitata all’accertamento dell’an debeatur.
Con il ricorso per cassazione, l’ENEL, lungi dal censurare tale pronuncia, ha prospettato, con i primi tre motivi di ricorso, eccezione nuova e ciò è sufficiente per l’inammissibilità degli stessi.
5. – Con il quarto motivo si deduce violazione dei principi fondamentali in tema di ripetizione d’indebito applicabili, nei limiti fissati da Cass. S.U. n. 6794 del 1991, malgrado l’eliminazione del vincolo a seguito della modifica dell’art.113, comma 2, c.p.c. per non avere il giudice di pace tenuto conto che, nella specie, esisteva una legittima causa di pagamento e per avere violato il principio fondamentale in materia di indebito, secondo cui si può richiedere la restituzione del pagamento solo quando non esista la causa debendi.
Secondo la ricorrente, la causa giustificativa dei pagamenti effettuati dagli utenti era rappresentata da provvedimenti CIP disponenti tariffe non derogabili in alcun modo dall’ENEL, tariffe la cui efficacia ed operatività sarebbe stata ribadita, tra l’altro, dal D.L. n. 371/1996 (poi reiterato dal D.L. n. 473/1996, convertito in legge n. 577 del 1996) che, disponendo che gli effetti del provvedimento CIP n. 32/1986 cessavano a decorrere dal 30 giugno 1996, aveva consolidato, fino a quella data la vigenza del suddetto provvedimento, vigenza che non era mai cessata, essendo stata confermata da vari altri provvedimenti legislativi succedutisi medio tempore.
Con il quinto motivo si deduce, infine, violazione dei principi fondamentali in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 e/o 1218 e 1224 c.c. (art.360 n. 3 c.p.c.); violazione della regola dell’onere della prova ex art.2697 c.c. (art. 360 n. 3 e 4 c.p.c.); nonché difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere il giudice di pace pronunciato condanna al risarcimento del danno senza avere accertato né la responsabilità della società, né la stessa esistenza del danno.
In particolare il giudice di pace avrebbe identificato l’esistenza dei due suddetti elementi nel mero fatto dell’indebito pagamento, dimenticando che l’azione restitutoria e quella risarcitoria sono azioni distinte, caratterizzate da diversi presupposti e che, anche ove fosse stata provata l’indebita percezione, doveva escludersi ogni responsabilità dell’ENEL, per avere la società applicato tariffe previste da provvedimenti CIP, che non erano in alcun modo derogabili da parte dell’ente.
Secondo la società, infine, non solo non risulterebbe provata l’esistenza del danno, ma essa dovrebbe anzi ritenersi esclusa, tenuto conto sia dell’esiguità delle somme, sia del tasso d’interesse applicabile, che è del 10%, ossia superiore sia al tasso d’inflazione, sia al rendimento che sarebbe in grado di offrire una qualsiasi forma di investimento del modestissimo importo oggetto di restituzione.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili in quanto denunciano violazioni dell’art.360, comma 1, n. 3 e 5, c.p.c. non prospettabili in sede di ricorso per cassazione avverso sentenze emesse secondo equità dal giudice di pace.
Ed infatti, sulla base delle conclusioni in precedenza raggiunte (cfr. supra n. 2):
– la violazione dei principi generali in tema di ripetizione d’indebito nonché di quelli in materia di risarcimento del danno denunciata, rispettivamente, con il quarto ed il quinto motivo sono inammissibili a seguito della novellata formulazione dell’art.113, comma 2, c.p.c.;
– la violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c., con riferimento e vizio di motivazione non è prospettabile non essendo ravvisabile l’inesistenza della motivazione nel senso in precedenza esposto;
– la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per avere il giudice di pace riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in misura pari alle somme indebitamente versate non può avere ingresso in questa sede non avendo la stessa quel carattere decisivo che può riconoscersi soltanto se coordinato con gli aspetti di quella soluzione che sono censurabili ex art.360 n. 3 c.p.c., laddove invece, con il profilo di ricorso, per il tramite strumentale del vizio di motivazione, si denuncia una violazione di norme di diritto (riconoscimento del risarcimento del danno per indebito pagamento e sua concreta determinazione) non censurabile in questa sede.
6. – Con le note di udienza l’ENEL ha rassegnato brevi considerazioni limitate ad un profilo della causa che non aveva formato oggetto di trattazione scritta, rilevando, nella sentenza impugnata, la violazione degli art.3 e 43 Cost.
Le proposte considerazioni sono inammissibili in quanto introducono nella controversia un thema decidendi non trattato, per espressa ammissione della ricorrente, con il ricorso, in contrasto con il disposto dell’art.379 c.p.c.
7. – Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.
L’esistenza del contrasto di giurisprudenza ora composto, giustifica la compensazione fra le parti delle spese di questo giudizio;
P.Q.M.
La Corte di cassazione, a sezioni unite, dichiara inammissibile il ricorso e compensa fra le parti le spese di questa fase di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il giorno 26 marzo 1999.
Depositato in cancelleria il 15 ottobre 1999
Le pronunce del Giudice di Pace “secondo equità” sono censurabili in Cassazione solo per violazione di norme (costituzionali o comunitarie) di rango superiore a quelle ordinarie, e per violazioni di procedura.
Sentenze equitative non sempre censurabili
(Cassazione S. U. Civili 716/99)
Le pronunce del Giudice di Pace “secondo equità” sono censurabili in Cassazione solo per violazione di norme (costituzionali o comunitarie) di rango superiore a quelle ordinarie. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha respinto perché “inammissibile” – per motivi procedurali – il ricorso dell’ENEL contro la sentenza del Giudice di Pace di Roma che, nel gennaio 1997, l’aveva condannato a rimborsare ai consumatori, difesi dal Codacons, per le somme pagate dal 1994 al giugno 1996 nelle bollette elettriche e relative alle “quote prezzo”. Si tratta della voce legata alla maggiorazione tariffaria concessa all’ENEL nel 1987 per recuperare un taglio operato dalla Finanziaria di quell’anno sul fondo di dotazione della società (pari a 6200 miliardi). Il Codacons sosteneva che agli utenti l’ENEL avrebbe continuato ad applicare illecitamente tali aggravi nonostante la cifra da recuperare fosse stata raggiunta alla fine del’93. Il Giudice di Pace di Roma gli diede ragione. Altri giudici di pace in modo difforme si occuparono della vicenda, alcuni accogliendo ed altri rigettando le domande di rimborso. L’ENEL ricorse in Cassazione contro gli accoglimenti. Ora le Sezioni Unite, respingendo il ricorso dell’ente per censure non riconducibili al proprio sindacato di legittimità, risolvono il contrasto giurisprudenziale sull’impugnabilità delle sentenze del giudice di pace in Cassazione stabilendone i limiti. In particolare, le Sezioni Unite ricordano che, quando il Giudice di Pace (l’ex “Conciliatore”) decide “secondo equità” non è vincolato al rispetto dei “principi regolatori della materia” contenuti nelle norme ordinarie ma solo al rispetto dei superiori principi contenuti nella Costituzione e nelle norme comunitarie, tutte gerarchicamente sovraordinate alle norme ordinarie. Pertanto, le sentenze c.d. “equitative” sono censurabili in Cassazione per violazione dei principi “superiori” (costituzionali e comunitari), restando per il resto la pronuncia secondo equità insindacabile in Cassazione, salvo quando “l’enunciazione del criterio di equità adottato sia inficiato da un vizio che, attenendo ad un punto decisivo della controversia, si risolva in un’ipotesi di mera apparenza o di radicale ed insanabile contradditorietà della motivazione”. (5 novembre 1999)
Sentenza della Suprema Corte di cassazione
sezioni unite civili 716/99
La Corte suprema di cassazione sezioni unite civili
ha pronunciato la seguente
sentenza
sul ricorso proposto da:
ENEL S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassidoro 19, presso lo studio dell’avvocato Luigi Janari, che lo difende unitamente all’avvocato Nicola Picardi, giusta procura speciale del Notaio dott. Alberto Vladimiro Capasso, depositata in data 10.04.1997, in atti;
– ricorrente –
contro
(….)., elettivamente domiciliati in Roma, Via delle Milizie, 9 presso lo studio dell’avvocato Canestrelli che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Rienzi, giusta delega a margine del controricorso:
– controricorrenti –
nonché contro
(……)
– intimati –
avverso la sentenza n. 235/97 del Giudice di Pace di Roma, depositata il 15.01.1997;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Alfio Finocchiaro il 26.03.99;
Udito l’avvocato Nicola Picardi, per il ricorrente;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. Paolo Dettori che ha concluso in via principale per la inammissibilità del ricorso, in via subordinata per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Mirella Bucci ed altri convenivano in giudizio la società ENEL innanzi al giudice di pace di Roma al quale chiedevano di “condannare l’ENEL S.p.A. a pagare agli attori quanto indebitamente riscosso dai medesimi a titolo di aumento della tariffa base (c.d. quota di prezzo) previsto dal provvedimento CIP n. 32/86 (pari a £ 22 per kwh per i consumi annui fino a 1800 kwh e £ 33 fino a 2700 kwh) a far tempo dal gennaio 1994 (fatte salve comunque ulteriori richieste per il periodo precedente); somme, risultanti dalle bollette che saranno allegate, la cui quantificazione avrà luogo in corso di causa; condannare altresì l’ENEL al risarcimento dei danni subiti dagli utenti oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi di legge per avere preteso indebitamente somme superiori a quelle dovute in virtù di validi ed operanti provvedimenti amministrativi”.
A sostegno della pretesa gli attori precisavano:
– che detta autorizzazione di sovrapprezzo termico era stata istituita e limitata sino al raggiungimento del recupero di 6.200 miliardi a favore del Fondo di dotazione dell’ENEL (legge n. 41/86) con addebito alle sole utenze domestiche;
– che la cassa conguaglio per il settore elettrico aveva comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al ministero del Tesoro che alla fine dell’anno 1983 l’importo predetto di 6.200 miliardi era stato integralmente corrisposto, per quanto già versato dalle predette utenze;
– che era indebito l’incasso del sovrapprezzo per essere il titolo e la stessa operatività del prelievo scaduti.
Nel costituirsi l’ENEL eccepiva carenza di interesse ad agire, difetto di giurisdizione, incompetenza e infondatezza delle pretese.
Con particolare riguardo all’incompetenza per valore l’ENEL deduceva testualmente: “La domanda di parte attrice, ove intesa ad ottenere sentenza accertativa del fatto che l’ENEL non avrebbe diritto a pretendere (e conseguentemente fatturare) il pagamento di somme relative alle cosi dette quote di prezzo, previste dal provvedimento CIP 32/86, a far data dal 28.2.1994, ha – per definizione – carattere di indeterminatezza ed appartiene pertanto alla competenza per valore del Tribunale (art. 9 c.p.c.)”.
Con sentenza del 15 gennaio 1997 il giudice adito, mentre rigettava le domande proposte da alcuni attori (Gianfranco Matteotti, Luigi De Sanctis, Francesco Borrino e Maria Neri), per essere risultati consumi inferiori a 900 kW e quindi non maggiorati dalla quota prezzo, accoglieva le domande proposte dagli altri ricorrenti e, per l’effetto, condannava l’ENEL alla restituzione delle somme indebitamente richieste e incassate a titolo di incremento per sovrapprezzo termico per gli anni 1994-1995, al risarcimento del danno ed al rimborso delle spese di giudizio.
A sostegno della pronuncia il giudice osservava:
– che era infondata l’eccezione di difetto assoluto di interesse degli attori per l’avvenuta riassegnazione delle quote-prezzo al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato, ai sensi della legge n. 549 del 1995, dal momento che l’art. 3, comma 240, della citata legge limita l’applicazione delle disposizioni. a far data dall’1 gennaio 1996, lasciando quindi nella disponibilità delle parti e senza alcuna riassegnazione il periodo 1994-1995;
– che parimenti infondata era l’eccezione di difetto di giurisdizione, sulla base di una presunta legificazione del provvedimento del Cip n. 15/93 e dell’art. 3, comma 240 della legge n. 549 del 1995, dal momento che nella specie si trattava del semplice recupero di somme indebitamente riscosse dall’ENEL e la relativa domanda rientrava nella giurisdizione dell’a.g.o.;
– che infondata era anche l’eccezione di incompetenza per valore dal momento che, contrariamente all’assunto della convenuta, gli attori non avevano proposto una domanda di contenuto indeterminato, ma una domanda diretta ad ottenere in concreto la condanna alla restituzione di somme indebitamente richieste e pagate;
– che non era contestata la circostanza dell’avvenuto incasso dei 6.200 miliardi e, quindi, del verificarsi, in concreto, della cessazione della legittimità dell’incremento del sovrapprezzo termico, come formalmente comunicato dalla Cassa conguaglio per il settore elettrico alla Presidenza del Consiglio e al Ministero del Tesoro per la scadenza dell’anno 1993;
– che non si poteva accordare alcun valore di retroattività all’art. 1, comma 1, del D.L. n. 473 del 1996, convertito in legge n. 577 del 1996;
– che non poteva condividersi la tesi prospettata dall’ENEL, secondo la quale gli obiettivi prefissati non sarebbero stati ancora raggiunti alla data predetta, in quanto il rientro dell’importo di £ 6.200 miliardi doveva considerarsi al netto di imposte e di interessi, e ciò per la mancanza di una espressa e positiva disposizione di legge in tale senso;
– che dall’accertamento giudiziale del fatto illecito prospettato, di natura, peraltro, certamente colposa, discendeva l’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., da liquidare, attesa l’oggettiva difficoltà di prova ed in considerazione della non elevata entità degli importi, con valutazione equitativa ed al valore, in misura pari, per ciascuno degli attori, allo stesso importo indebitamente richiesto.
Avverso questa sentenza l’ENEL S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione articolato su cinque motivi, illustrati da memoria, cui resistono con controricorso Luciano Baldoni, Fulvio Primo Biscotti, Marisa Bartocci, Alcide Raponi, Giulia Chirico e Ivano D’Ascenzo.
La causa, inizialmente assegnata alla III sezione civile è stata assegnata dal Primo Presidente a queste S.U. per la composizione del contrasto di giurisprudenza, verificatosi nell’ambito delle sezioni semplici, sui limiti d’impugnabilità delle sentenze del giudice di pace, pronunciate secondo equità.
L’ENEL ha depositato note di udienza ai sensi dell’art. 379 c.p.c.
MOTIVI DELIA DECISIONE
1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura a proporre il ricorso, contestandosi che l’ing. Danilo Severini avesse i poteri per promuovere il giudizio, che l’amministratore delegato avesse i poteri per nominare l’institore; che il Consiglio di amministrazione dell’ENEL abbia autorizzato la nomina dell’institore.
L’ENEL S.p.A. ha prodotto, ritualmente, nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., estratto dello statuto della società dal quale risulta che la rappresentanza legale della società spetta sia al presidente che all’amministratore delegato, con facoltà per gli stessi di conferire poteri di rappresentanza legale della società, pure in sede processuale, anche con facoltà di subdelega; copia conforme del verbale di adunanza del Consiglio di amministrazione dell’ENEL del 28 giugno 1996 di nomina di Francesco Tatò alla carica di amministratore delegato, con indicazione dei poteri allo stesso conferiti, copia della procura del 13 gennaio 1997, con la quale l’amministratore delegato ha nominato e costituito institori della società gli ingegneri Claudio Barbesino e Alfonso Della Cananea, in caso di impedimento del primo, attribuendo agli stessi, la rappresentanza legale della società anche in sede processuale, con possibilità di subdelegare tale potere a dirigenti della società, nonché copia del procura del 21 gennaio 1997, con la quale il Barbesino, nella qualità di institore ha costituito procuratore il dirigente dell’ENEL ingegnere Danilo Severini.
Sulla base degli anzidetti documenti deve ritenersi l’ammissibilità del ricorso proposto dall’ENEL, in persona dell’ingegnere Danilo Severini, in virtù dei poteri conferitigli e ciò è sufficiente per il rigetto dell’accezione.
2. 1. – Preliminare all’esame dei motivi di ricorso si presenta la risoluzione della questione per la quale la controversia è stata rimessa a queste sezioni Unite e cioè la determinazione dei limiti entro i quali è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le sentenza del giudice di pace pronunciate secondo equità e che presuppone, a sua volta – in presenza di particolari affermazioni contenute in varie pronunce – la soluzione del problema della stessa struttura del giudizio di equità.
Seppure, infatti, la causa immediata del contrasto é stata determinata dalla interpretazione della nuova formulazione del secondo comma dell’art. 113 c.p.c. per il quale “Il giudice di pace decide secondo equità la cause il cui valore non eccede lire due milioni” – che ha sostituito il testo introdotto dall’art. 3 della legge 30 luglio 1984 n. 399, il quale stabiliva che “Il conciliatore decide secondo equità osservando i principi regolatori dalla materia” – la soppressione del riferimento ai “principi regolatori della materia” ha dato spunto ad una rilettura della norma ed alla affermazione di principi fra loro in contrasto, ma che coprono le varie alternative possibili, anche con riferimento ai limiti dell’impugnazione per cassazione avverso le sentenze emesse dal giudice di pace su controversia di valore non superiori a lire due milioni.
Si rinvengono in proposito le seguenti letture:
A) Benché l’attuale testo dell’art. 113, comma 2, c.p.c. si limiti ad affermare che il giudice di pace decide secondo equità le cause di valore non eccedente i due milioni, senza specificamente prevedere – come accadeva invece nel precedente testo con riguardo alla pronuncia del conciliatore – l’osservanza dei principi regolatori della materia. tale osservanza resta comunque doverosa per il giudice di pace quando pronuncia sentenze secondo equità, in armonia col sistema che prevede per tali sentenze la (sola) ricorribilità in cassazione, senza esclusione del profilo di violazione o falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c. (Cass. S.U. 30 Ottobre 1998 n. 10904);
B) la soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia comporta solo la rimozione di tale limite ai poteri equitativi del giudice di pace, dovendo quest’ultimo pur sempre procedere alla qualificazione giuridica dei dati ed all’esame delle loro conseguenze giuridiche, pur potendo, peraltro, derogare, in riferimento a tutte tali operazioni, alla norme di diritto, in applicazione dei principi equitativi enucleabili da giudizi di valore conformi, secondo la sua interpretazione, al comune sentire, con la conseguenza che le sentenze di merito del giudice di pace pronunziate secondo equità sono ricorribili in relazione ai vizi previsti dall’art. 360 n. 1, 2, 3, 4, 5 c.p.c., ma in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. sono ricorribili unicamente per le violazioni della Costituzione, del diritto comunitario, dei principi generali dell’ordinamento e della legge processuale, mentre in relazione al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. sono ricorribili per vizi motivazionali in relazione agli accertamenti di fatto posti a base dei giudizio di equità (Cass. 28 agosto 1998 n. 8569);
C) il giudizio di equità si snoda attraverso due momenti. l’individuazione della regola di diritto applicabile alla fattispecie e l’attenuazione, motivata e consapevole, nel momento decisorio, della regola così individuata, in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali nelle quali si collocano gli interessi in gioco, con la conseguenza che l’erronea individuazione delle norme astrattamente applicabili è censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., mentre, l’operazione successiva di temperamento, nella qualificazione della fattispecie e nell’adozione delle richieste pronunzie, non potrà essere sottoposta ad alcun controllo di esaustività, logicità e completezza (proprio in ragione della natura della regola dell’equità), neanche per la supposta incongruità dell’apprezzamento dei dati economici e sociali sui quali si è fondata, salvo che la motivazione offerta in ordine al criterio di equità sia mancante, incomprensibile o perplessa, con l’ulteriore conseguenza che il giudice è tenuto a dar conto della regola equitativa applicata solo in sede di motivazione, ma non a previamente enunciarla (Cass. 2 aprile 1998 n. 3397; Cass. 24 agosto 1998 n. 8397);
D) A norma dell’art.113 c.p.c. (nel testo modificato dall’art. 21 l. n. 374 del 1991) la pronuncia secondo equità resa dal giudice di pace è vincolata al rispetto della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento, ma non è più soggetta all’osservanza delle norme che esprimono i principi regolatori della materia oggetto del giudizio (per tali dovendosi intendere quelli regolanti gli istituti giuridici relativi al rapporto dedotto), con la conseguenza che, non essendo più necessaria l’individuazione dei suddetti principi regolatori (e perciò la qualificazione del rapporto secondo diritto), il potere decisionale equitativo del giudice di pace investe non solo la determinazione delle conseguenze giuridiche, ma altresì la qualificazione stessa del fatto controverso, ed, esprimendo un’equità cosiddetta “formativa” (o sostitutiva), non “correttiva” (o integrativa), si fonda su di un giudizio di tipo intuitivo (ancorché fondato sui valori oggettivi preesistenti nella realtà sociale) e non di tipo sillogistico, perciò non richiedente la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto e prescindente da ogni indagine relazionale tra tale norma e i suddetti valori oggettivi emergenti dalla realtà sociale, la sentenza pronunciata secondo equità dal giudica di pace è, pertanto, ricorribile in cassazione (oltre che per violazione delle norme processuali e di quelle sostanziali cui esse rinviano) solo per violazione della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento, non anche per inosservanza dei principi regolatori della materia, né per violazione della norme sostanziali eventualmente applicate perché (implicitamente o esplicitamente) ritenute conformi a equità, e neppure per violazione o falsa applicazione delle norme astrattamente applicabili al caso concreto (la cui individuazione non è neanche richiesta), inoltre, essendo il giudizio di equità per sua natura un giudizio di merito, è altresì insindacabile in cassazione l’individuazione del criterio su cui fonda il giudizio equitativo e la conformità di esso ai valori direttamente emergenti dalla realtà sociale, restando soggetta al sindacato di legittimità la motivazione in ordine al criterio di equità adottato solo nelle ipotesi di assoluta mancanza di essa o nei casi in cui il vizio motivazionale relativo a punti decisivi della controversia si risolva in motivazione apparente, ovvero insanabilmente contraddittoria (Cass. 20 febbraio 1998 n. 1794; Cass. 1 ottobre 1998 n. 9754; nonché, sostanzialmente nello stesso senso: Cass. 25 novembre 1998 n. 11970; Cass. 16 dicembre 1998 n. 12611 e 12612; Cass. 18 dicembre 1998 n. 12691);
E) La sentenza del giudice di pace resa in una controversia del valore non eccedente i due milioni è sempre pronunciata secondo equità (art. 113, comma 2, c.p.c. nel testo sostituito, con decorrenza 1 maggio 1995, dall’art. 21 della L. n. 374 del 1991), anche se il giudicante abbia applicato una norma di legge riconosciuta corrispondente all’equità, ovvero abbia espressamente menzionato norme di diritto senza alcun riferimento all’equità, dovendosi, in tale ultima ipotesi, presumere implicita la corrispondenza, sic et simpliciter, della norma giuridica applicata alla regola di equità (senza la ulteriore limitazione dei “principi regolatori della materia”, vincolanti, in passato, il giudica conciliatore). Ne consegue che la sentenza del giudice di pace, pronunciata a norma del ricordato art. 113, comma 2, c.p.c., è impugnabile con ricorso per cassazione soltanto con riferimento agli errores in procedendo, e non anche a quelli in iudicando, atteso che il giudizio di equità, per sua stessa natura, sfugge ad ogni rivalutazione da parte del giudice superiore (Cass. 11 giugno 1998 n. 5794).
2. 2. – L’individuazione dei limiti entro i quali è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le sentenze di equità del giudice di pace presuppone l’accertamento dell’ambito del giudizio di equità.
Come risulta dalla precedente esposizione le posizioni della giurisprudenza sono particolarmente divaricate, passandosi da quella sub A, per la quale la modifica legislativa non esclude l’applicabilità, anche per quanto riguarda il giudice di pace, dell’applicazione del vincolo costituito dai principi regolatori della materia, a quella sub B, che, preso atto della disposta soppressione, impone al giudice di procedere alla qualificazione giuridica dei dati ed all’esame delle loro conseguenze giuridiche, pur potendo, peraltro, derogare, in riferimento a tutte tali operazioni, alle norme di diritto, in applicazione dei principi equitativi enucleabili da giudizi di valore conformi, secondo la sua interpretazione, al comune sentire, a quella sub C, che prevede l’individuazione della regola di diritto applicabile alla fattispecie e l’attenuazione, motivata e consapevole, nel momento decisorio, della regola cosi individuata, in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali nelle quali si collocano gli interessi in gioco, a quella sub D, secondo cui la soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia esclude per il giudice la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto imponendogli di applicare una equità formativa e non correttiva, a quella sub C, che, dalla soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia, ritiene che devono applicarsi i principi consolidati in giurisprudenza in relazione all’originaria formulazione dell’art. 113 (ante riforma del 1984).
2. 3. – Allo scopo di giungere alla soluzione del contrasto si deve innanzitutto prendere posizione sulla questione relativa alla soppressione del riferimento ai principi regolatori della materia, che vede contrapposta la posizione sub A) a tutte le altre.
Non ignora il Collegio che la soluzione prospettata sub A, assolutamente minoritaria e del tutto immotivata nella decisione che la sostiene, trova ampi riscontri in orientamenti dottrinali manifestati subito dopo la riforma e per i quali la cancellazione dell’obbligo di rispettare i principi regolatori della materia è più formale che sostanziale, con la conseguenza che gli stessi devono continuare ad essere applicati.
Tale indirizzo non può essere seguito, dovendosi convenire con altra dottrina per la quale la soppressione dell’obbligo di osservanza dei principi regolatori della materia libera il giudizio equitativo dal riferimento ai principi che sovrintendono al rapporto giuridico sottoposto all’esame del giudicante.
Questa conclusione, però, per essere accettabile deve essere integrata da ulteriori precisazioni (su cui infra), che superino i sospetti di illegittimità costituzionale formulati in rapporto all’art. 24 cost.
2, 4. – Le altre soluzioni indicate, seppure tutte nel senso della inoperatività del criterio della conformità della decisione ai principi regolatori della materia, pongono il problema della necessità o meno della individuazione della norma, di diritto applicabile prima di procedere all’applicazione dei principi equitativi al caso concreto.
Il punto di partenza per la soluzione della questione è costituito dall’esame dei risultati cui sono giunti queste S.U. con la fondamentale sentenza 15 giugno 1991 n. 6794 emessa in tema d’impugnazione delle decisioni del conciliatore e sulla base del testo, all’epoca vigente, dell’art. 113, comma 2, c.p.c., che prevedeva il rispetto dei principi regolatori della materia.
Questa decisione, dopo avere aderito a quell’orientamento secondo cui il giudizio di equità del conciliatore non può prescindere dalla normale qualificazione giuridica dei fatti e dalla valutazione giuridica delle loro conseguenze – perché al giudice conciliatore vengono prospettate controversie giuridiche, e cioè domande attinenti ad un rapporto giuridico in forza del quale l’attore pretende il riconoscimento di un proprio diritto nei confronti del convenuto che lo ha contestato o non l’ha soddisfatto – riteneva non giustificata l’esclusione del giudizio equitativo dal momento della qualificazione, perché anche con riguardo a tale momento può esservi spazio per un giudizio equitativo, basato su un valore che già è emerso nel contesto sociale di cui si tratta, ma non ancora è stato tradotto in termini di legge scritta, giungendo a tali conclusioni sulla base di due premesse; a) la non necessaria contrapposizione fra diritto scritto ed equità; b) l’obbligo dell’osservanza dei principi regolatori della materia, con la conseguenza che se detti principi sono osservati, anche la qualificazione della fattispecie vuole essere improntata a criteri equitativi, non realizzandosi la temuta incompatibilità tra l’esigenza della tutela di un rapporto giuridico portato alla cognizione del conciliatore ed il giudizio emesso dal giudice.
Orbene, se già in presenza di una norma, quale quella ora sostituita, si ammetteva il giudizio equitativo fin dal momento della qualificazione della domanda a maggior ragione tale giudizio deve ammettersi allo stato attuale della legislazione che non prevede l’osservanza dei principi regolatori della materia.
E’ bensì vero che la decisione delle S.U. del 1991 giungeva a tali conclusioni, proprio per l’esistenza del riferimento ora espunto, ma non da ciò può farsi derivare la conseguenza, allora disattesa, e che trova sufficiente giustificazione nella non necessaria contrapposizione fra diritto scritto ed equità.
A ciò bisogna poi aggiungere che se il giudizio di equità non è soggetto all’osservanza dei principi regolatori della materia non è più necessaria l’individuazione di tale principi e, quindi, l’individuazione della norma astrattamente applicabile e, perciò, la qualificazione giuridica del rapporto dedotto.
L’equità non opera cioè in via vicaria della norma di diritto astrattamente disciplinante la fattispecie, applicandosi solo quando quest’ultima non sia adeguata al caso concreto in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali nelle quali si collocano gli interessi in gioco, secondo la tesi esposta sopra sub C, ma costituisce la regola della decisione in riferimento a controversie di un determinato modesto valore devolute, sulla base di una valutazione tipica compiuta dal legislatore, alla competenza del giudice di pace, con la conseguenza che, in tali controversie, il giudice non è tenuto a compiere un previo accertamento della norma di diritto applicabile al caso concreto, ma deve senz’altro giudicarlo facendo applicazione delle norme di equità.
In presenza di una norma espressa, con la quale si stabilisce che il giudice di pace decide secondo equità determinate controversie, non vi è assolutamente spazio per pretendere la previa individuazione, ad opera dello stesso giudice, della norma di diritto applicabile alla fattispecie, da ciò facendo derivare la censurabilità, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., della violazione di tale individuazione: non essendo configurabile alcun obbligo in proposito non é ammissibile un ricorso per cassazione al sensi della richiamata disposizione.
Queste conclusioni comportano altresì, per le stesse ragioni, l’inaccoglibilità della tesi sub n.2.
2.5. – Da quanto detto nel numero precedente deriva altresì – secondo quanto esattamente rilevato nella tesi sub D – che il potere decisionale equitativo del giudice di pace investe non solo la determinazione delle conseguenze giuridiche, ma altresì la qualificazione stessa del fatto controverso, ed, esprimendo un’equità cosiddetta “formativa” (o sostitutiva) non “correttiva” (o integrativa), si fonda su di un giudizio di tipo intuitivo (ancorché fondato sui valori oggettivi preesistenti nella realtà sociale) e non di tipo sillogistica, perciò non richiedente la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto e prescindente da ogni indagine relazionale tra tale norma e i suddetti valori oggettivi emergenti dalla realtà sociale.
2.6. – Così precisati i limiti del giudizio di equità ed il modo di operare dello stesso, vanno individuati i limiti entro i quali è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le pronunce del giudice di pace, dovendosi in proposito distinguere tra violazione di norme processuali e violazione di norme sostanziali.
2.7. – Per quanto attiene alle prime, il disposto dell’art.311 c.p.c. secondo cui il procedimento innanzi al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel titolo II del libro II del codice di rito o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative nel procedimento davanti al tribunale, in quanto applicabili e tenuto presente che l’equità attiene al solo piano delle regole sostanziali del giudizio, utilizzabili in funzione della decisione di merito, e non anche a questioni di ordine processuale, atteso che il nuovo testo dell’art. 113 c.p.c. non ha “deformalizzato” il giudizio di equità, ne deriva – come assolutamente pacifico in sede di legittimità – che le sentenze del giudice di pace, in controversie di valore inferiore a lire due milioni, sono ricorribili per cassazione, ogniqualvolta si denunzi la violazione di norme processuali (tra le più recenti in tale senso, Cass. 1 ottobre 1998 n. 9754; Cass. 23 novembre 1998 n.11869; Cass. 8 gennaio 1999 n. 109, Cass. 12 gennaio 1999 n. 227; Cass. 29 gennaio 1999 n. 807; Cass. 5 febbraio 1999 n. 1007; Cass. 20 marzo 1999 n. 2599), specie quelle del contraddittorio e della difesa (Cass, 18 dicembre 1998 n. 12691), e ciò anche nell’ipotesi in cui la regola del giudizio è contenuta in una norma di procedura che rinvia ad una norma sostanziale (Cass. S.U. 15 giugno 1991 n. 6794).
L’equità trova, infatti, posto soltanto nella decisione del merito della causa, e soltanto per quanto attiene alla regola sostanziale da applicare alla domanda di attribuzione del bene della vita proposta dalla parte.
2.8. – Passando alla decisione del merito ed ai limiti del ricorso per cassazione avverso la stessa, la compiuta disamina (cfr. supra n. 2.l.) evidenzia posizioni estremamente differenziate; da quella dell’ammissione del ricorso ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. per tutto quanto concerne gli errores in iudicando (tesi sub A) a quella della inammissibilità totale di tale ricorso (tesi sub E), passando attraverso tesi intermedie che consentono il ricorso per cassazione per violazione della Costituzione, del diritto comunitario e dei principi generali dell’ordinamento.
Le due tesi estreme non possono seguirsi.
Non la prima, per non essere il giudizio di equità sottoponibile a controllo di conformità alla norma scritta, sotto pena di vanificazione dell’equità, sarebbe, infatti, intimamente contraddittorio – nel momento stesso in cui si legittima il ricorso all’equità, che può anche divergere dalla norma scritta – sanzionare come violazione di legge la decisione di merito in quanto difforme da tale norma.
Non la seconda, perché, rendere intangibile un giudizio per il solo fatto che in esso si è fatta applicazione di un principio equitativo, finirebbe per legittimare l’arbitrio dei giudice e giustificherebbe quella censura di incostituzionalità alla quale si è in precedenza fatto cenno (supra n. 2.2.).
In realtà – come è stato esattamente osservato da queste S.U. con la richiamata sentenza del n. 6794 del 1991 – il giudice di pace, nell’esercizio del potere equitativo, deve osservare la Costituzione, sia nel senso che – ovviamente – è uno dei giudici che può sollevare la questione di costituzionalità di una norma, sia nel senso che fra due interpretazioni di una norma dovrà privilegiare quella conforme alla Costituzione.
Tale limite della soggezione alla costituzione non è espresso nell’art. 113, comma 2, c.p.c., perché già derivante in via generale dalla stessa Costituzione (art. 54 e 101 Cost.), nonché dal principio di gerarchia delle fonti.
Proprio quest’ultimo principio impone l’osservanza delle norme comunitarie, di valore superiore alle norme ordinarie.
Il più volte citato art. 113, comma 2, c.p.c., nella parte in cui consente la sostituzione dell’equità alla norma ordinaria, non ha il potere di consentire il superamento delle norme comunitarie, impedito proprio dal richiamato principio della gerarchia delle fonti.
La soggezione della pronuncia secondo equità alle norme costituzionali, nonché alle norme comunitarie, con il correlativo potere di censurarne la violazione con il ricorso per cassazione, esclude i sospetti di incostituzionalità del novellato art.113, comma 2, c.p.c., per l’eliminazione del riferimento ai principi regolatori della materia.
La soppressione di qualsiasi censura per violazione di norme di diritto che non siano di rango costituzionale o comunque sovraordinate a quelle ordinarie, esclude altresì di ritenere applicabile l’ulteriore limite del rispetto dei principi generali dell’ordinamento.
Questi ultimi (cfr. art.12, comma 2, preleggi), malgrado apparentemente sembrino preesistenti e di rango superiore alle norme scritte, in realtà, derivano, attraverso successive astrazioni, dalla ratio di un complesso omogeneo di norme, tanto vero che è la modifica di queste ultime a determinare un mutamento dei primi e non viceversa.
Ciò comporta che non può ritenersi assoggettabile a controllo di legittimità il mancato rispetto da parte della sentenza emessa secondo equità di tali principi generali, perché, dal momento che gli stessi altro non sono che norma di diritto, in siffatto modo, si finirebbe per legittimare una censura per violazione di legge di carattere sostanziale, esclusa sulla base delle precedenti osservazioni.
E’ bensì vero che tale rispetto è stato ritenuto necessario dalla sentenza delle S.U. del n. 6794 del 1991, ma questa decisione è intervenuta in un contesto legislativo diverso, ove era imposta l’osservanza dei principi regolatori della materia, che costituivano un minus rispetto ai principi generali del l’ordinamento.
Venuto meno il rispetto dei primi deriva il venire meno del rispetto dei secondi, nella misura in cui non siano espressione di norme costituzionali.
2.9. – Le precedenti conclusioni trovano applicazione – per pacifica giurisprudenza – in tutte le ipotesi in cui il giudice di pace abbia deciso: 1) richiamandosi espressamente all’equità;
2) applicando norme di diritto, dichiarando che tali norme corrispondono all’equità;
3) applicando norme di diritto, senza nulla esprimere in ordine all’equità della decisione.
E’ stato infatti esattamente osservato da Cass. S.U. n. 6794 del 1991 – sia pure con riferimento al conciliatore, ma le relative conclusioni sono applicabili anche al giudice di pace, poiché è evidente la legittimità dell’ipotesi sub 2) (posto che fra diritto ed equità può non sussistere contrapposizione, e che il giudizio su tale aderenza dell’equità alla soluzione in diritto della vertenza appartiene al conciliatore) e poiché, quindi, la suddetta ipotesi si deve in tutto parificare a quella sub 1), l’eventuale violazione o falsa applicazione della norma di legge (coincidente con quella di equità) non può essere deducibile in Cassazione, perché – per quanto errata sia l’interpretazione datane – essa si presenta caratterizzata dai connotati di insindacabilità del giudizio di equità: il conciliatore ha ritenuto equa la norma nella lettura che ne ha dato e quindi tale lettura non può essere sottoposta al controllo della Cassazione. Il terzo caso per coerenza, deve risolversi allo stesso modo. Esiste il potere-dovere del conciliatore di giudicare secondo equità, ma non si può ritenere che incorra in eccesso di potere (deducibile come error in procedendo e cioè come violazione dell’ambito della potestas judicandi) il giudice che abbia deciso secondo norme di diritto in ragione della già postulata natura del giudizio di equità, come giudizio giuridico (data la necessità del riferimento alla fattispecie normativa e della comparazione fra norma di legge ed eventuale criterio equitativo prescelto, il quale può operare solo se sia giustificata obiettivamente una diversità di trattamento rispetto a quello risultante dalla legge). In tal caso, lungi dal commettere un eccesso di potere, (denunciabile come tale, cioè come error in procedendo ai sensi dell’art.360 n. 4) il conciliatore implicitamente ha ritenuto coincidenti i due ordinamenti, quello positivo e quello fondato sui valori obiettivi e sociali di equità e non deve esporre alcuna ragione per dimostrare che la decisione è conforme all’equità. Pertanto, mentre sarà inammissibile una censura limitata a lamentare che il conciliatore non abbia espresso le ragioni di equità della decisione, il ricorso ex art.360 n. 3 incontrerà i limiti già detti.
La stessa sentenza, poi, così prosegue – e le relative conclusioni Il Collegio interamente condivide -“la peculiarità del giudizio di equità consiste nel suo esaurirsi nel merito, perché (sia che il giudice ritenga l’equità realizzata nell’ordinamento positivo – le cui norme applica – sia che ritenga sussistente quella ragione di deroga o mitigazione del diritto positivo, applicando una regola equitativa più adatta al caso concreto) la regola applicata non può prescindere dalla fattispecie peculiare, di guisa che non è possibile formulare quei criteri generali, in cui dovrebbe consistere il compito della Cassazione, neppure astraendo dal singolo caso. Invero, se la Cassazione ha le funzioni di cui all’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, e quelle di cui all’art. 111 Cost. e 360 c.p.c., è evidente che i suoi giudizi dovranno essere esclusivamente giuridici, ancorati al diritto positivo, e quindi non potrà dare mai giudizi di equità, neppure formulati per massime astratte, ipoteticamente valide come criteri generali per una serie indefinita di fattispecie che vi rientrerebbero. Fra l’altro, nel giudizio equitativo è connaturato un procedimento logico intuitivo e comunque non sillogistico, la regola applicata è collegata direttamente al giudizio particolare; è un criterio regolatore del fatto singolo e fa tutt’uno con esso. Come la Suprema Corte possa enunciare quell’insieme di “deroghe” allo stretto diritto in che consistono i criteri equitativi via via applicati dai vari giudici, non e dato comprendere. E ciò neppure se il conciliatore abbia ritenuto coincidente l’equità con la norma positiva applicata, perché non vi è luogo ad un esame della Cassazione in diritto”.
2. 10. – ultimo problema da esaminare è quello della censurabilità in cassazione della motivazione della sentenza di equità ed in relazione a tale profilo è da tenere presente che – come è stato esattamente rilevato da Cass. S.U. n. 6794 del 1991- per adempiere all’obbligo della motivazione è sufficiente dar conto, in modo succinto, del processo logico-giuridico seguito, di guisa che non sono sufficienti affermazioni apodittiche, senza alcun richiamo al criterio seguito, mentre l’omessa esposizione dei motivi di equità non rileva, quando esistono le ragioni giuridiche della decisione, mentre se queste non sono enunciate, la decisione si riduce a puro arbitrio, al pari di quando il giudice dia una motivazione solo apparente, perché manca del minimo indispensabile a far capire perché sia stata accolta o respinta la domanda, dal momento che anche la decisione di equità deve obbedire ad esigenze di logica e razionalità, di guisa che risulti da essa la ratio decidendi, l’assoluta mancanza della quale (intesa anche come apparenza di una motivazione in realtà inesistente) comporta la nullità della sentenza, per mancanza dei requisiti formali indispensabili.
Sulla base di queste premesse ritiene il collegio che si debba confermare la costante giurisprudenza (ex plurimis: Cass. 2 aprile 1998 n. 3397, Cass. 28 aprile 1998 n. 4033; Cass. 7 ottobre 1998 n. 9917; Cass. 25 novembre 1998 n, 11970; Cass. 16 dicembre 1998 n. 12611 e 12612) secondo la quale:
1) il vizio di motivazione in diritto è irrilevante, salvo che non si traduca in inesistenza della motivazione (o motivazione apparente, o contrasto irriducibili fra affermazioni inconciliabili, tale da precludere l’identificazione della ratio decidendi; o motivazione perplessa, quando non sia possibile stabilire quale qualificazione giuridica del rapporto sia stata posta a base della motivazione);
2) la motivazione sul criterio di equità adottato non può mai rientrare nel sindacato della Suprema Corte, salva l’assenza di motivazione, nel senso già visto;
3) il vizio di cui al n. 5 dell’art.360, è ammissibile, ma esso riguarda non la motivazione in diritto, ma solo quella sui punti di fatto decisivi rilevanti ai fini del giudizio di equità, laddove punto decisivo è quello che è in rapporto di causalità logica rispetto alla soluzione giuridica data alla controversia, di guisa che esso ha carattere decisivo soltanto se coordinato con gli aspetti di quella soluzione che sono censurabili ex art. 360 n. 3.
2. 11. Il contrasto di giurisprudenza va, quindi, composto sulla base delle seguenti conclusioni.”A seguito della nuova formulazione dell’art.113, comma 2, c.p.c., nella decisione di controversia di valore non superiore a lire due milioni, il giudice di pace non deve procedere alla previa individuazione della norma di diritto applicabile alla fattispecie, ma deve giudicarla facendo immediata applicazione della equità c.d. formativa (o sostitutiva), non correttiva (o integrativa), fondata su un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico, con osservanza, ai sensi dell’art.311 c.p.c., delle norme processuali, nonché di quelle in cui la regola del giudizio è contenuta in una norma di procedura che rinvia ad una norma sostanziale, senza obbligo di rispetto dei principi regolatori della materia e dei principi generali dell’ordinamento, ma osservando le norme costituzionali nonché quelle comunitarie, quando siano di rango superiore a quelle ordinarie, Pertanto il ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza costituisce impugnazione di sentenza di equità, abbia il giudice dichiarato di avere applicato una norma equitativa o una norma di legge perché rispondente ad equità o si sia limitato ad applicare una norma di legge ed è ammissibile per violazione di norme processuali, nel senso esposto (art. 360, comma 1, n. 1, 2 e 4, laddove la censura di violazione di legge, attinente alla decisione di merito, è consentita per violazione di norme costituzionali e di norme comunitarie, di rango superiore alla norma ordinaria e tale interpretazione non contrasta con l’art.24 Cost. mentre la pronunzia secondo equità non esclude poi la configurabilità di censure ai sensi dell’art.360 n. 4 c.p.c. nei casi di inesistenza della motivazione, ovvero ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., allorché l’enunciazione del criterio di equità adottato sia inficiato da un vizio che, attenendo ad un punto decisivo della controversia, si risolva in un’ipotesi di mera apparenza o di radicale ed insanabile contraddittorietà della motivazione”.
3. – Tanto premesso, può procedersi all’esame dei motivi di ricorso.
4. – Con il primo motivo si deduce violazione degli art.9 e 34 c.p.c., in riferimento all’art.360 n. 2 c.p.c. e si censura la decisione impugnata deducendo l’incompetenza per valore del giudice adito e sostenendo che l’accertamento del suo diritto ad applicare le tariffe previste dal provvedimento CIP 32/86 nei confronti degli utenti, assumendo valore indeterminato, rientrava nella competenza del tribunale, avendo essa società prospettato in tali termini già al giudice di merito l’eccezione di incompetenza, ponendo una questione pregiudiziale, chiedendone la decisione con efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 34 c.p.c.
Secondo la ricorrente sarebbe stato chiesto al giudice di merito di accertare con efficacia di giudicato il diritto dell’ENEL ad applicare le tariffe previste dalla delibera n. 32/86, questione pregiudiziale rispetto alle azioni di ripetizione di indebito e di risarcimento, e da ritenersi di valore indeterminato in quanto riferentesi anche a pagamenti diversi da quelli richiesti in causa.
A tale motivo i controricorrenti oppongono la novità della questione sollevata con lo stesso, dal momento che, nel giudizio innanzi al giudice di pace l’ENEL. si era limitata ad eccepire l’indeterminatezza della domanda, senza formulare in alcun modo una domanda pregiudiziale riconvenzionale da decidere con efficacia di giudicato.
Con il secondo motivo si deduce violazione degli art. 9, 10, 11 e 113 c.p.c. in relazione all’art.360 n. 2 c.p.c., si insiste per l’incompetenza per valore dei giudice di pace, per il fatto che, anche ad ammettere la mancata richiesta di decisione con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale relativa alla sussistenza del diritto dell’ENEL ad applicare le tariffe de quibus, il giudice non aveva tenuto conto del fatto che per l’ente il valore della causa è dato dalla somma della domanda spiegate dagli attori (e anzi da un importo ancora maggiore, se si pensa ai diversi milioni di utenze domestiche esistenti su tutto il territorio nazionale), onde la competenza andava determinata tenendo conto della somma delle domande spiegate in giudizio, attesa l’unicità dell’obbligazione dell’ENEL.
Secondo la ricorrente a tale risultato si può giungere attraverso una interpretazione degli artt.10 e 11 c.p.c., adeguatrice delle suddette norme, giacché, diversamente opinando, si profilerebbe una lesione del diritto di difesa ed una evidente disparità di trattamento tra soggetti titolari dei medesimi, rilevanti interessi economici.
Anche in relazione a tale motivo i controricorrenti oppongono la novità della deduzione e comunque l’infondatezza della censura.
Con il terzo motivo si deduce violazione degli art.10 e 14 c.p.c. in relazione all’art.360 n. 2 c.p.c. sulla base del rilievo che l’azione restitutoria relativa alla ripetizione d’indebito e l’azione risarcitoria vanno sommate ai fini della determinazione della competenza per valore e poiché quella risarcitoria, non precisata nel quantum, deve presumersi di valore uguale al limite massimo della competenza del giudice adito, ne deriva di conseguenza, sotto quest’altro pro filo, l’incompetenza per valore del giudice di pace.
I primi tre motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, seppure astrattamente proponibili sulla base delle raggiunte conclusioni, sono inammissibili.
Il novellato art. 38 c.p.c. consente alla parte di sollevare l’eccezione d’incompetenza per valore non oltre la prima udienza di trattazione.
Da quanto precede deriva che la parte la quale ha dedotto, in primo grado, tempestivamente, l’eccezione di incompetenza per valore, in riferimento ad un determinato profilo della domanda, può, con il ricorso per cassazione, censurare la decisione impugnata in relazione all’eccezione prospettata, ma non formulare profili di censura nuovi, che, se proposti, vanno dichiarati inammissibili, non essendo l’eccezione di incompetenza per valore – neppure sotto il vigore del testo originario dell’art. 38 c.p.c. – rilevabile in ogni stato e grado di giudizio.
Dall’esame diretto degli atti di causa – che questa Corte può sempre compiere quando venga dedotto un error in procedendo – emerge che l’ENEL ha proposto una eccezione di incompetenza per valore formulata in primo grado, nella comparsa di risposta, di indeterminatezza della domanda, perché tendente ad ottenere una sentenza di accertamento negativo, e che il giudice di pace tale indeterminatezza ha escluso per essere la richiesta di condanna quantificata ritualmente e non limitata all’accertamento dell’an debeatur.
Con il ricorso per cassazione, l’ENEL, lungi dal censurare tale pronuncia, ha prospettato, con i primi tre motivi di ricorso, eccezione nuova e ciò è sufficiente per l’inammissibilità degli stessi.
5. – Con il quarto motivo si deduce violazione dei principi fondamentali in tema di ripetizione d’indebito applicabili, nei limiti fissati da Cass. S.U. n. 6794 del 1991, malgrado l’eliminazione del vincolo a seguito della modifica dell’art.113, comma 2, c.p.c. per non avere il giudice di pace tenuto conto che, nella specie, esisteva una legittima causa di pagamento e per avere violato il principio fondamentale in materia di indebito, secondo cui si può richiedere la restituzione del pagamento solo quando non esista la causa debendi.
Secondo la ricorrente, la causa giustificativa dei pagamenti effettuati dagli utenti era rappresentata da provvedimenti CIP disponenti tariffe non derogabili in alcun modo dall’ENEL, tariffe la cui efficacia ed operatività sarebbe stata ribadita, tra l’altro, dal D.L. n. 371/1996 (poi reiterato dal D.L. n. 473/1996, convertito in legge n. 577 del 1996) che, disponendo che gli effetti del provvedimento CIP n. 32/1986 cessavano a decorrere dal 30 giugno 1996, aveva consolidato, fino a quella data la vigenza del suddetto provvedimento, vigenza che non era mai cessata, essendo stata confermata da vari altri provvedimenti legislativi succedutisi medio tempore.
Con il quinto motivo si deduce, infine, violazione dei principi fondamentali in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 e/o 1218 e 1224 c.c. (art.360 n. 3 c.p.c.); violazione della regola dell’onere della prova ex art.2697 c.c. (art. 360 n. 3 e 4 c.p.c.); nonché difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia, per avere il giudice di pace pronunciato condanna al risarcimento del danno senza avere accertato né la responsabilità della società, né la stessa esistenza del danno.
In particolare il giudice di pace avrebbe identificato l’esistenza dei due suddetti elementi nel mero fatto dell’indebito pagamento, dimenticando che l’azione restitutoria e quella risarcitoria sono azioni distinte, caratterizzate da diversi presupposti e che, anche ove fosse stata provata l’indebita percezione, doveva escludersi ogni responsabilità dell’ENEL, per avere la società applicato tariffe previste da provvedimenti CIP, che non erano in alcun modo derogabili da parte dell’ente.
Secondo la società, infine, non solo non risulterebbe provata l’esistenza del danno, ma essa dovrebbe anzi ritenersi esclusa, tenuto conto sia dell’esiguità delle somme, sia del tasso d’interesse applicabile, che è del 10%, ossia superiore sia al tasso d’inflazione, sia al rendimento che sarebbe in grado di offrire una qualsiasi forma di investimento del modestissimo importo oggetto di restituzione.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili in quanto denunciano violazioni dell’art.360, comma 1, n. 3 e 5, c.p.c. non prospettabili in sede di ricorso per cassazione avverso sentenze emesse secondo equità dal giudice di pace.
Ed infatti, sulla base delle conclusioni in precedenza raggiunte (cfr. supra n. 2):
– la violazione dei principi generali in tema di ripetizione d’indebito nonché di quelli in materia di risarcimento del danno denunciata, rispettivamente, con il quarto ed il quinto motivo sono inammissibili a seguito della novellata formulazione dell’art.113, comma 2, c.p.c.;
– la violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c., con riferimento e vizio di motivazione non è prospettabile non essendo ravvisabile l’inesistenza della motivazione nel senso in precedenza esposto;
– la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per avere il giudice di pace riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in misura pari alle somme indebitamente versate non può avere ingresso in questa sede non avendo la stessa quel carattere decisivo che può riconoscersi soltanto se coordinato con gli aspetti di quella soluzione che sono censurabili ex art.360 n. 3 c.p.c., laddove invece, con il profilo di ricorso, per il tramite strumentale del vizio di motivazione, si denuncia una violazione di norme di diritto (riconoscimento del risarcimento del danno per indebito pagamento e sua concreta determinazione) non censurabile in questa sede.
6. – Con le note di udienza l’ENEL ha rassegnato brevi considerazioni limitate ad un profilo della causa che non aveva formato oggetto di trattazione scritta, rilevando, nella sentenza impugnata, la violazione degli art.3 e 43 Cost.
Le proposte considerazioni sono inammissibili in quanto introducono nella controversia un thema decidendi non trattato, per espressa ammissione della ricorrente, con il ricorso, in contrasto con il disposto dell’art.379 c.p.c.
7. – Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.
L’esistenza del contrasto di giurisprudenza ora composto, giustifica la compensazione fra le parti delle spese di questo giudizio;
P.Q.M.
La Corte di cassazione, a sezioni unite, dichiara inammissibile il ricorso e compensa fra le parti le spese di questa fase di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il giorno 26 marzo 1999.
Depositato in cancelleria il 15 ottobre 1999
Da non mantenere il figlio maggiorenne che guadagna poco (Cassazione 26259/2005).
Un giovane con capacità ed esperienza lavorativa può cambiare facilmente attività
Da non mantenere figlio che guadagna poco
(Cassazione 26259/2005)
I figli maggiorenni con un lavoro non hanno diritto al mantenimento, anche se svolgano una attività non redditizia. Lo ha stabilito la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione confermando una sentenza della Corte di Appello di Genova che aveva dato ragione all’ex marito che si era rifiutato di mantenere il figlio che, ormai maggiorenne, era da alcuni anni a capo di una attività commerciale, nonostante gli affari non andassero bene. Per la Suprema Corte, infatti, pur essendo vero che il figlio non aveva l’indipendenza economica, la soluzione preferibile sarebbe stata quella di cambiare lavoro, cosa non difficile per chi sia in possesso di capacità ed esperienze lavorative, piuttosto che insistere nel mantenimento di una attività non redditizia. (12 gennaio 2005)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, sentenza n.26259/2005 (Presidente: M. G. Luccioli; Relatore: P. Giuliani)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso in data 12/13.5/1995, A.M. B. chiedeva al Tribunale di Savona di pronunciare la separazione personale dal marito, G. T., affidandole il figlio M., all’epoca minore, assegnandole la casa familiare di proprietà comune, fissando a carico del coniuge un assegno a titolo di mantenimento del figlio stesso [1], nonché condannando la parte avversa alla rifusione delle somme sborsate per far fronte ai mutui contratti in costanza di matrimonio per le necessità domestiche.
Si costituiva il convenuto, non opponendosi alla separazione, ma chiedendo la divisione del patrimonio mobiliare ed immobiliare appartenente alla coppia.
Il Giudice adito, con sentenza n. 409 del 2002, pronunciava la separazione dei coniugi, assegnava l’abitazione anzidetta alla moglie, senza peraltro riconoscere un conseguente corrispettivo al marito per l’uso della quota di comproprietà, respingeva, per difetto di prova, le domande, spiegate dalla B., rispettivamente intese ad ottenere la determinazione di un contributo al mantenimento del figlio (divenuto maggiorenne ormai, ma, secondo l’istante, non autonomo economicamente) ed il rimborso dei ratei di mutuo pagati anche per conto del T. quale debitore comune e solidale, dichiarava, infine, inammissibile la domanda, avanzata da quest’ultimo, volta a conseguire la divisione dl patrimonio comune.
Avverso la decisione, proponeva appello la stessa B., quanto alla mancata determinazione, a carico del coniuge, dell’assegno per il figlio ed al mancato accoglimento dell’istanza di rifusione delle somme corrisposte nell’interesse di entrambi.
Resisteva nel grado l’appellato, chiedendo il rigetto del gravame e spiegando, a propria volta, appello incidentale mediante il quale insisteva affinché si provvedesse alla divisione dei beni comuni ed al riconoscimento in suo favore di un indennizzo per il godimento della casa familiare attribuito alla moglie.
La Corte territoriale di Genova, con sentenza in data 8.23/11/2002, parzialmente riformando la pronuncia impugnata, dichiarava inammissibile la domanda della B. volta ad ottenere la rifusione della metà delle somme erogate per il soddisfacimento dei mutui contratti dai coniugi in costanza di convivenza, condannava la stessa B. a corrispondere al marito, a titolo di corrispettivo del godimento dell’alloggio di comune proprietà assegnatole, respingendo i capi di appello ulteriori.
Assumeva, per quanto qui interessa, detto Giudice: che il T. avesse dimostrato per tabulas che il figlio, da sei anni ormai, gestiva un’attività commerciale, non rilevando, in contrario, il preteso andamento negativo dei relativi affari; che il passaggio in giudicato della pronuncia di separazione dovesse preesistere al momento della proposizione della domanda di scioglimento della comunione in primo grado, onde, essendo tale situazione divenuta irrevocabile solo dopo la decisione del Tribunale, la divisione del patrimonio comune non poteva essere richiesta che in separato giudizio; che la domanda del T. volta ad ottenere, a carico della controparte, l’attribuzione di una somma a titolo di corrispettivo per il godimento della casa, fosse ammissibile ed accoglibile, giacché, rispettivamente, per un verso atteneva alla regolamentazione di una circostanza (come, appunto, l’utilizzo dell’immobile) sicuramente capace di rientrare nella materia tipica del giudizio di separazione, mentre, per altro verso, l’equivalenza delle situazioni reddituali imponeva il riequilibrio delle posizioni a beneficio del coniuge il dell’alloggio era rimasto privo e che aveva dovuto necessariamente affrontare il problema della sistemazione abitativa, sostenendo esborsi non trascurabili, documentati nella specie dall’appellato.
Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione la B., deducendo tre motivi di gravame ai quali resiste con controricorso il T., il quale, a propria volta, spiega ricorso incidentale condizionato affidato ad un solo motivo, illustrando l’uno e l’altro con memoria, depositata, peraltro, il 7 settembre 2005, ovvero fuori del termine previsto dall’art. 378 c.p.c., cui trova applicazione la sospensione nel periodo feriale (Cass. 19 maggio 1990, n. 4524), il quale, quindi, è venuto a scadere,, nella specie, il 30 luglio 2005.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve, innanzi tutto, essere ordinata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 e 335 c.p.c., la riunione di entrambi i ricorsi, relativi ad altrettante impugnazioni separatamente proposte contro la stessa sentenza.
Con il primo motivo di gravame, lamenta la ricorrente principale violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3, c.p.c., assumendo: che non si comprende su quale base giuridica la Corte territoriale abbia potuto accogliere la domanda ex adverso formulata in ordine alla condanna di essa ricorrente al pagamento dell’indennità di occupazione dell’appartamento di cui è assegnataria, visto che su tale domanda la difesa della medesima ricorrente aveva dichiarato di non accettare il contraddittorio, trattandosi di una domanda nuova, avanzata tardivamente e, quindi, inammissibile; che di tale domanda non si trova traccia alcuna negli scritti difensivi del T. redatti anteriormente alla precisazione delle conclusioni davanti al Giudice di prime cure; che lo stesso T., infatti, solo in tale ultima sede aveva chiesto che il Tribunale condannasse la moglie alla corresponsione dell’indennità di occupazione della casa coniugale; che detto Giudice non accoglieva la domanda di cui sopra, trattandosi di domanda irritale, tardiva ed inammissibile, sulla quale la ricorrente non aveva accettato il contraddittorio; che l’assunto della B., se è stato condiviso dal primo Giudice, non è stato neppure preso in considerazione dalla Corte territoriale, benché nell’atto di appello e nella memoria istruttoria autorizzata il difensore della medesima ricorrente avesse rivolto esplicito richiamo all’eccezione per cui è controversia ed avesse contestualmente reiterato tutte le difese agli atti, dichiarando di non avere accettato e di non accettare il contraddittorio su domande ed eccezioni nuove, tra le quali la domanda di indennizzo per l’occupazione ex adverso formulata in sede di precisazione delle conclusioni, onde, nella specie, l’atteggiamento processuale della B. è stato immediatamente e tempestivamente oppositivo; che, in definitiva, la Corte territoriale avrebbe dovuto confermare la sentenza di primo grado, dichiarando irritale, inammissibile, tardiva e non suscettibile di accoglimento la domanda formulata dal T,. per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni, così da non accoglierla la dove ribadita da controparte in grado di appello.
Con il secondo motivo di gravame, del cui congiunto esame con il precedente si palesa l’opportunità involgendo ambedue le trattazioni di questioni strettamente connesse, lamenta la ricorrente principale vizio in procedendo, ex art. 360, n. 4, c.p.c., deducendo: che la sentenza impugnata si presenta illegittima anche sotto il profilo dell’errata valutazione degli elementi processuali da parte dell’Autorità giudicante, la quale ha omesso di valutare gli atti nella loro completezza ontologica e, soprattutto, di tenere conto delle eccezioni sollevate in tema di contraddittorio dalla difesa della B., secondo quanto sopra esposto; che la Corte territoriale è incorsa, nell’ipotesi di specie, in un vizio in procedendo, su cui ha facoltà e competenza a giudicare ed a provvedere la Corte di Cassazione, nel senso che l’accertamento in ordine alla novità o meno della domanda, formulata in sede di precisazione delle conclusioni, rientra nei poteri del Supremo Collegio, tenuto ad esaminare direttamente gli atti processuali nel caso di denuncia appunto di un vizio in procedendo; che la B. ha eccepito tempestivamente, nella sede anzidetta, la tardività e l’irritualità della domanda nuova ex adverso avanzata in quella medesima sede, si che tale istanza veniva respinta dal Giudice di prime cure, onde analoga condotta avrebbe dovuto osservare, sotto il profilo processuale, il secondo Giudice relativamente all’identica domanda proposta con appello incidentale, sulla quale sin dal giudizio di primo grado la difesa della B. aveva dichiarato di non accettare il contraddittorio.
I due motivi non sono ammissibili.
La Corte territoriale, infatti, nell’impugnata sentenza, ha affermato che la domanda del T., di attribuzione a carico ella controparte di una somma a titolo di corrispettivo per il godimento della casa, è ammissibile, fondata ed accoglibile, ritenendola in particolare ammissibile giacché attiene alla regolamentazione di una circostanza (utilizzo della casa coniugale) che rientra pacificamente nella materia tipica del giudizio di separazione.
appare, dunque, palese come detta Corte, così argomentando ed, in particolare, espressamente riconoscendo l’ammissibilità della domanda in questione, ne abbia, per implicito, escluso la novità, fondando un simile apprezzamento sopra l’esplicita considerazione secondo cui tale domanda attiene alla regolamentazione di una circostanza (utilizzo della casa coniugale) che rientra pacificamente nella materia tipica del giudizio di separazione.
Orbene, l’odierna ricorrente principale, attraverso i due motivi in esame, si è limitata a censurare la sentenza impugnata esclusivamente sotto il profilo della denunciata novità della domanda medesima a causa della sua proposizione in sede di precisazione delle conclusioni, senza, tuttavia, minimamente censurare l’esplicito assunto, come sopra riportato e consistente (lo si ripete) nel fatto che tale domanda attiene alla regolamentazione di un circostanza (utilizzo della casa coniugale) che rientra pacificamente nella materia tipica del giudizio di separazione, posto dal Giudice di merito a base dell’implicita affermazione circa la mancanza della lamentata novità in capo alla domanda anzidetta, onde, in questo senso, la ratio decidendi sottesa alla statuizione di ammissibilità non risulta specificamente (ed integralmente) colta attraverso le relative doglianze della stessa ricorrente.
Con il terzo motivo di gravame, quest’ultima lamenta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione relativamente al rigetto dell’istanza di riconoscimento dell’assegno di mantenimento del figlio, ex art. 360, n. 5, c.p.c., deducendo: che la Corte territoriale non ha completamente valutato i documenti in atti e non ha confermato il provvedimento presidenziale riguardo all’assegno di mantenimento da corrispondere al figlio M.; che nessuna prova ha offerto il padre, malgrado l’onere relativo gravasse su di lui, circa il raggiungimento della sopravvenuta sufficienza economica da parte del figlio medesimo, non risultando esso indipendente e non rilevando la visura camerale tardivamente ed irritualmente prodotta dal T.; che la pretesa azienda del giovane ha subito, tra l’altro, ingenti danni da alluvione con notevoli perdite economiche; che la Corte territoriale, anziché verificare con perizia contabile la situazione di fatto, lamentata dalla B., relativamente all’incapacità lavorativa del figlio ed alla sua mancata indipendenza, ha ritenuto attendibile e fondata la sola versione resa dal T., offrendo un giudizio basato su presunzioni ed assolutamente non tecnico; che detto Giudice, infatti, pur avendo ritenuto oggettiva la riferita situazione e pur avendo accertato che il figlio medesimo non è economicamente autosufficiente, ha preferito suggerirgli di cambiare lavoro, respingendo la domanda relativa all’assegno di mantenimento sulla base della presunzione che il giovane abbia acquisito l’indipendenza perché da alcuni anni lavora in un negozio che, come provato documentalmente, risulta privo di utile, ovvero non reca alcun guadagno ai titolari.
Il motivo non è fondato.
La Corte territoriale, invero, dopo aver espressamente dato conto del fatto che l’onere di dimostrare il raggiungimento dell’autonomia economica della prole grava sul genitore il quale chiede di esserne sollevato, ha, con apprezzamento di per se incensurato, altresì dato conto del fatto che, nel caso di specie, il T. ha comprovato per tabulas che il figlio da sei anni ormai gestisce un’attività commerciale, essendo legale rappresentante di una società esercente commercio al minuto di articoli di cancelleria, libri, bigiotteria e giocattoli (Mariser s.a.s. di T.M. e C.).
La medesima Corte ha, quindi, considerato privo di rilevanza il dato, allegato dalla difesa B. a sostegno della asserita insufficiente capacità reddituale del figlio, della negatività dell’andamento degli affari, desunto dal contenuto delle dichiarazioni dei redditi, oltrechè da una relazione peritale di parte, atteso che la negatività dell’andamento dell’attività, che si protrae da sei anni e che, secondo la consulente, deriverebbe dalla posizione decentrata del punto vendita, evidentemente non depone per una incapacità reddituale del soggetto che la conduce ma sembra derivare da fattori obiettivi a fronte dei quali, ove rispondenti a verità, il titolare è tenuto ad attivarsi, assumendo iniziative adeguate, se del caso modificando l’ubicazione dell’attività, senza che ciò possa costituire presupposto per il permanere, o la reviviscenza, dell’obbligo contributivo a carico del genitore, onde il conclusivo rilievo della Corte territoriale secondo cui l’appellato (ha) idoneamente dimostrato che il figlio ha esperienza e capacità lavorative, in senso contrario non rilevando l’asserita inadeguatezza delle entrate dichiarate a fini fiscali del medesimo.
Un simile apprezzamento, indipendentemente dalle ragioni a fondamento della negatività dell’andamento dell’attività, che la Corte territoriale, come si è detto, ha ravvisato (ove rispondente a verità) nella posizione decentrata del punto vendita, ovvero in fattori obiettivi a fronte dei quali… il titolare è tenuto ad attivarsi, assumendo iniziative adeguate, se del caso modificando la ubicazione dell’attività, si sottrae comunque a censura quanto alla decisiva affermazione secondo cui tale negatività dell’andamento dell’attività non depone per una incapacità reddituale del soggetto che la conduce e che ciò non può costituire presupposto per il permanere, o la riviviscenza, dell’obbligo contributivo a carico del genitore, essendo rimasto dimostrato che il figlio ha esperienza e capacità lavorative, in senso contrario non rilevando l’asserita inadeguatezza delle entrate…
Tale affermazione, infatti, risulta conforme al principio in forza del quale il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest’ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia dimostrato il raggiungimento di una adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento ad opera del genitore, senza che possa aver rilievo il sopravvento di circostanze ulteriori (come, ad esempio, lo stesso abbandono dell’attività lavorativa da parte del figlio, o come, per restare al caso di specie, la negatività dell’andamento dell’attività) le quali, se pur determinano l’effetto di renderlo privo di sostentamento economico, non possono far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già venuti meno (Cass. 5 agosto 1997, n. 7195; Cass. 7 luglio 2004, n. 12477), nel senso esattamente che il fondamento del diritto del coniuge convivente a percepire l’assegno de quo risiede, oltre che nell’elemento oggettivo della convivenza (il quale lascia presumere il perdurare dell’onere del mantenimento), nel dovere dell’altro coniuge di assicurare al figlio un’istruzione ed una formazione professionale rapportate alla capacità di quest’ultimo (oltrechè alle condizioni economiche e sociali dei genitori), così da consentire al medesimo un propria autonomia economica, onde tale dovere cessa, con l’inizio appunto dell’attività lavorativa da parte di quello (Cass. 4 marzo 1998, n. 2392).
Il ricorso principale, pertanto, deve essere rigettato.
Resta, di conseguenza, assorbito il ricorso incidentale, così condizionato, proposto dal T. in via del tutto subordinata e solo per il caso (e nella denegata ipotesi) di accoglimento del ricorso principale anzidetto.
La natura e la dubbiezza delle questioni affrontate giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Roma, 19 sett. 2005.
Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2005.
Requisiti della casa familiare perché possa essere assegnata al coniuge affidatario della prole
IN CASO DI SEPARAZIONE L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE E’ DISPOSTA IN FUNZIONE DELL’INTERESSE DEI FIGLI
Perché conservino il loro “habitat” domestico
(Cassazione Sezione Prima Civile n. 6706 del 23 maggio 2000, Pres. Rocchi, Rel. Spagna Musso).
In caso di separazione dei coniugi l’art. 155 cod. civ. stabilisce che l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al coniuge cui vengano affidati i figli. L’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde all’esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento alla conservazione del loro habitat domestico, inteso come “centro di vita e di affetti”; ne consegue che l’assegnazione in questione non ha più ragione d’essere solo qualora, per vicende sopravvenute, tale casa non svolga più la sua essenziale funzione di consentire il consuetudinario modus vivendi agli stessi figli.
La Corte di Cassazione precisa nuovamente il concetto di infedeltà coniugale. Cass. 7566/99
La Corte di Cassazione aggiorna il concetto di infedeltà ed esclude che si possa parlare di tradimento – con violazione dei doveri di fedeltà e relativo addebito della colpa – per quei coniugi che, ottenuta la separazione temporanea, intrecciano relazioni con altre persone. Le nuove relazioni, anche se intrattenute nella casa coniugale, provvisoriamente assegnata ad uno dei due, non possono essere usate come colpevole prova della addebitabilità della rottura matrimoniale e non costituiscono un comportamento ingiurioso
Sentenza della Prima Sezione Civile n.7566 depositata il 17 luglio 1999
La Corte suprema di Cassazione
Ha pronunciato la seguente sentenza
Sul ricorso presentato
da N.E., – ricorrente
contro
V.A. – Intimato
E sul 2° ricorso presentato da V.A. – Controricorrente e ricorrente incidentale
Contro N.E. – Intimata
Avverso la sentenza n. 2789/96 della Corte d’Appello di Napoli, depositata il 25/11/96 (…)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Napoli, con sentenza del 4 novembre 1995, pronunziava la separazione dei coniugi A. V. ed E. N., con addebito ad entrambi; assegnava alla moglie la casa coniugale; condannava il marito al pagamento di un assegno mensile di lire 1.200.000, quale contributo al mantenimento del figlio A..
Le impugnazioni principale ed incidentale, rispettivamente proposta dalla N. e dal V., venivano rigettate dalla Corte d’Appello di Napoli con sentenza del 25 novembre 1996.
Premesso che, in regime di separazione temporanea ex artt. 146 c.c. e 708 c.p.c., i coniugi sono tenuti al reciproco rispetto e che la violazione dell’obbligo di fedeltà da parte di uno dei coniugi è rilevante ai fini addebitabilità, quando si sia estrinsecata in comportamenti tali da offendere il decoro e la dignità dell’altro, la Corte territoriale ha osservato che nel caso di specie era pacifico che la N. aveva convissuto con altro uomo nella casa coniugale assegnatale provvisoriamente dal presidente del tribunale: quand’anche fosse stato vero – secondo l’assunto della stessa N. – che la relazione era iniziata dopo l’adozione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, si era comunque manifestata pubblicamente in modo intollerabile per il marito, caratterizzandosi per la sua obiettiva carica ingiuriosa.
La Corte napoletana, inoltre, affermava che i primi giudici avevano correttamente compensato le spese di lite, in considerazione del suo esito: era infondato, quindi, anche l’appello incidentale del V..
Per la cassazione di tale sentenza la N. ha proposto ricorso con due motivi. Resiste il V. con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale, affidato a due motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, i ricorsi principale ed incidentale vanno riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 151, comma 2, cod. civ., la ricorrente principale ecusura la sentenza impugnata per aver addebitato la separazione ad essa N., sebbene la relazione con altro uomo fosse iniziata dopo circa un anno dall’adozione del provvedimento temporaneo presidenziale e non potesse avere, quindi, alcuna incidenza nella rottura del rapporto coniugale, tanto più che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito, non era pacifico che vi fosse stata convivenza con tale persona nella casa coniugale.
Con il secondo motivo, si denunzia contraddittorietà di motivazione sullo stesso punto, rilevando che una relazione, iniziata durante il periodo di separazione provvisoria, non può mai costituire offesa od ingiuria per l’altro coniuge.
Le ecusure, che possono essere esaminate congiuntamente per l’evidente connessione, sono fondate.
Premesso che il giudice di merito, pur esprimendosi in forma perplessa, tuttavia ha fondato il proprio ragionamento sul presupposto di fatto che la relazione della N. con altro uomo era iniziata dopo che il presidente del tribunale aveva autorizzato i coniugi a vivere temporaneamente separati, va ribadito, in via di principio, che la riforma del 1975 ha eliminato la concezione di sanzione basata sulla “colpa”, introducendo un rimedio alla situazione di intollerabilità della convivenza – o di grave pregiudizio all’educazione della prole – anche indipendentemente dalla volontà dei coniugi: l’art. 151 c.c., quindi, costruisce un modello unitario di separazione, fondato sull’accertamento di fatti tali da integrare detta situazione di intollerabilità della convivenza, rispetto alla quale l’addebitabilità ad uno od entrambi i coniugi si pone come dichiarazione eventuale, da pronunciare nel contesto della separazione, onde non possono più assumere rilievo, una volta cessata di fatto la convivenza, comportamenti successivi, atteso che l’addebito trova collocazione esclusivamente nel quadro della separazione, come responsabilità causativa o concausativa dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (ex plurimis, Cass. 6566/97 e 13201/95).
Poiché il giudice non può fondare la pronuncia di addebito nella mera osservanza dei dover di cui all’art. 143 c.c., ma deve verificare l’effettiva incidenza delle relative violazioni nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà può determinare l’addebitabilità della separazione solo quando risulti che a tale violazione sia riconducibile – in tutto o in parte – la crisi dell’unione, mentre il comportamento infedele, se successivo al verificarsi di una situazione d’intollerabilità della convivenza, non è, di per se stesso, rilevante e non può, quindi, giustificare una pronuncia di addebito della separazione quando non sia qualificabile come causa concorrente della rottura del rapporto (da ultimo, Cass. 10742/98).
In particolare, questa Corte ha affermato che, allorquando i coniugi vivano separatamente, perché a ciò autorizzati dal presidente del tribunale dopo la domanda di separazione, l’accertamento che, anteriormente a tale autorizzazione, si sia verificata la causa dell’intollerabilità della convivenza rende irrilevante, ai fini dell’addebito, il comportamento tenuto dai coniugi nella fase di separazione temporanea (Cass. 1394/96: v. anche Cass. 12381/98, che va salva l’ipotesi – tuttavia, infrequentemente configurabile in cui il comportamento successivo al provvedimento presidenziale abbia autonomo e concreto rilievo causale in ordine alla produzione dell’effetto dell’improseguibilità del rapporto coniugale).
Tali principi non sono stati applicati, nel caso di specie, dal giudice di merito, il quale, richiamando precedenti pronunzie di questa Corte (peraltro, superate dal successivo orientamento, soprattutto in tema di mutamento del titolo della separazione), si è limitato ad affermare che la “pacifica” convivenza della N. con altro uomo nella casa coniugale assegnatale con i provvedimenti presidenziali, pur iniziata dopo questi ultimi, si era comunque estrinsecata in manifestazioni pubbliche intollerabili per il marito, caratterizzandosi per la sua carica ingiuriosa. Così statuendo, la Corte napoletana ha, per un verso, chiaramente disatteso il significato di addebito della separazione, rifacendosi ad un concetto non più attuale, e, per altro verso, omesso di considerare che la violazione dell’obbligo di fedeltà intanto può avere rilevanza, in quanto incida sulla prosecuzione della convivenza, rendendola intollerabile. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione e falsa applicazione delle norme in tema di prove, lamentando il mal governo di queste da parte della Corte di merito che avrebbe dovuto addebitare la separazione solo alla moglie, tenendo conto che esso V. aveva sì avviato una relazione extraconiugale, ma giustificata dal fatto che la moglie gli negava da tempo ogni rapporto sessuale. Con il secondo motivo, si denuncia omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, il giudice del gravame avendo erroneamente ritenuto che l’appello incidentale fosse circoscritto al regolamento delle spese processuali, mentre riguardava soprattutto l’addebitabilità della separazione. Tale secondo motivo, il cui scrutinio è naturalmente pregiudiziale rispetto al primo, risulta fondato.
Dallo stesso ricorso principale (v. pag. 3) risulta che il V., con la comparsa di costituzione e risposta in data 30 ottobre 1996, ha proposto appello incidentale, chiedendo che la separazione fosse addebitata esclusivamente alla moglie: ciò trova conferma in detta comparsa (il cui esame è consentito a questa Corte dalla natura del vizio denunciato), con la quale il V. ha proposto appello incidentale avverso la sentenza del tribunale soprattutto in tema di addebitabilità della separazione, mentre la statuizione dei primi giudici circa le spese processuali è stata ecusurata solo come logico riflesso della richiesta di riforma della sentenza in punto di addebito. La Corte d’Appello, invece, si è limitata a decidere sulle spese ritenendo ed affermando – come emerge dalla premessa espositiva dello svolgimento del processo – che l’appello incidentale era circoscritto a tale capo della decisione impugnata: pertanto, ha omesso ogni pronunzia in ordine alla questione principale posta con il gravame del V.
In conclusione, vanno accolti il ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale, con assorbimento del primo motivo di quest’ultimo, riguardante la valutazione delle prove circa l’addebitabilità della separazione. Ne deriva la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altro giudice, designato in diversa Sezione della Corte d’Appello di Napoli, che procederà a nuovo esame della controversia, conformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo comunque presente che, ai fini della dichiarazione di addebitabilità della separazione, occorre procedere ad una valutazione globale e comparativa dei comportamenti di ciascuno dei coniugi, per verificare se il comportamento dell’uno non possa trovare piena giustificazione nelle provocazioni insite in quello dell’altro.
A1 giudice di rinvio è demandato anche di provvedere sulle spese della presente fase di legittimatà.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso principale, nonché il secondo motivo del ricorso incidentale, dichiarando assorbito il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Napoli.
Così deciso in Roma, il 2 marzo 1999.
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 1999
Sentenza Corte Cassazione in ordine alla rilevanza penale dell’allontanamento del coniuge dal domicilio per unirsi ad altro partner
L’ALLONTANAMENTO DEL CONIUGE DAL DOMICILIO, PER UNIRSI A UN ALTRO PARTNER, PUO’ CONFIGURARE IL REATO DI VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA
Anche se l’infedeltà non è punibile
(Cassazione Sezione Sesta Penale n. 9440 del 5 settembre 2000, Pres. Troiani, Rel. Leonasi).
S.A. è stata sottoposta a processo penale per avere abbandonato il domicilio coniugale allo scopo di unirsi con un collega di lavoro, al quale si era legata sentimentalmente. Le è stato contestato l’art. 570 primo comma, del codice penale, che punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire 200 mila a 2 milioni chiunque, abbandonando il domicilio domestico, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge.
Sia il Pretore di Pistoia che, in grado di appello, la Corte di Firenze l’hanno ritenuta responsabile del reato attribuitole.
Ella ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, che la violazione dell’obbligo di fedeltà o il semplice allontanamento dal domicilio non implicano di sé il reato previsto dall’art. 570 cod. pen. La Suprema Corte (Sezione Sesta Penale n. 9440 del 5 settembre 2000, Pres. Troiani, Rel. Leonasi) ha rigettato il ricorso, ricordando che l’art. 146 del codice civile autorizza un coniuge ad allontanarsi dalla residenza familiare solo quando sia stata proposta domanda giudiziale di separazione, annullamento o scioglimento del matrimonio.
La Corte ha peraltro richiamato la sua giurisprudenza secondo cui l’allontanamento deve ritenersi giustificato e, quindi, non costituisce reato, anche quando ci si trovi in presenza di un comportamento dell’altro coniuge così ingiurioso o iniquo da rendere all’altro impossibile o gravemente penosa la convivenza.
Nel caso in esame – ha osservato la Corte – non è stato accertato che il marito abbia tenuto un qualsiasi comportamento contrario ai suoi obblighi coniugali o alla corretta conduzione della vita familiare.
Si è anzi stabilito che la sig.ra S.A. si allontanò dalla casa coniugale al solo fine di coltivare la sua nuova relazione sentimentale senza impacci di sorta. Tale comportamento – ha affermato la Corte – é penalmente rilevante, anche se l’astensione da contatti sessuali con altre persone non è, in sé, parte degli obblighi di assistenza familiare, con la conseguenza che il semplice fatto di adulterio non coinvolgente la partecipazione di un coniuge alla vita dell’altro (sul piano morale, intellettuale ed affettivo, oltre che fisico) non integra il reato previsto dall’art. 570 cod. pen.
Sentenza Corte Cassazione in ordine alla rilevanza dell’infedeltà per la pronuncia dell’addebito nella separazione tra coniugi.
L’OBBLIGO DI FEDELTA’ CONIUGALE COSTITUISCE UNA REGOLA DI CONDOTTA IMPERATIVA, OLTRECHE’ UNA DIRETTIVA MORALE DI PARTICOLARE VALORE SOCIALE
La sua violazione può essere eccezionalmente giustificata solo se in precedenza si sia determinata una crisi del rapporto coniugale (Cassazione Sezione Prima Civile n. 7859 del 9 giugno 2000, Pres. Reale, Rel. Panebianco).
La separazione coniugale può essere addebitata al coniuge che abbia violato l’obbligo di fedeltà senza che in precedenza il rapporto coniugale sia entrato in crisi.
In linea di principio deve ritenersi comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio la violazione, in assenza di una consolidata separazione di fatto, dell’obbligo della fedeltà coniugale, che costituisce una regola di condotta imperativa (art. 143 comma 2 cod. civ.), oltre che una direttiva morale di particolare valore sociale, e che assume una gravità ancora maggiore allorché venga attuata in maniera reiterata o, addirittura, attraverso una stabile relazione extraconiugale.
Determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, essa deve ritenersi, di regola, causa della separazione e ne giustifica pertanto l’addebito, potendosi presumere che abbia esercitato in tale direzione un ruolo decisivo, secondo il criterio dell’“id quod plerumque accidit”.
Solo eccezionalmente, qualora risulti, attraverso un’indagine rigorosa e penetrante ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, l’irrilevanza di una tale violazione per mancanza di un nesso di causalità con la crisi coniugale, irrimediabilmente già in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale, può escludersi l’addebitabilità, trattandosi in tal caso di comportamenti successivi al determinarsi di tale situazione.
Sentenza Corte Cassazione per la quale per esercitare stabilmente la professione di avvocato in Italia il legale di un altro paese comunitario deve superare una prova attitudinale.
PER ESERCITARE STABILMENTE LA PROFESSIONE DI AVVOCATO IN ITALIA IL LEGALE DI ALTRO PAESE COMUNITARIO DEVE SUPERARE UNA PROVA ATTITUDINALE
Ciò non è necessario in caso di attività a carattere temporaneo (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 146 del 18 marzo 1999, Pres. Favara, Rel. Giannantonio)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA Dl CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Francesco FAVARA – Primo Presidente F.F. .
Dott. Antonio SENSALE – Presidente di Sezione
Dott. Francesco AMIRANTE – Presidente di Sezione
Dott. Giovanni OLLA – Consigliere
Dott. Antonio VELLA – Consigliere
Dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere
Dott. Giovanni PAOLINI – Consigliere
Dott. Roberto PREDEN – Consigliere
Dott. Ettore GIANNANTONIO – Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GEBHARD REINHARD, elettivamente domiciliata in ROMA VIA COSSERIA 5, presso lo studio degli avvocati ENRICO ROMANELLI, GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che lo rappresentano e difendono unitamente all’avvocato MASSIMO BURGHIGNOLI, giusta delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI E PROCURATORI DI MILANO; PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE; CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;
– intimati –
avverso la decisione n. 44/97 del Consiglio nazionale forense di ROMA, depositata il 12/05/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/09/98 dal Consigliere Dott. Ettore GIANNANTONIO;
udito l’Avvocato Massimo BURGHIGNOLI per il ricorrente;
udito il P.M. in Persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Paolo DETTORI che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decisione in data 30 novembre 1992 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Milano infliggeva al legale di cittadinanza tedesca, Rechtsanwalt Reinhard Gebhard, iscritto nel registro di cui all’art. 12 della legge n. 31 del 1982 relativa alla “Libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini degli Stati membri della Comunità Europea”, la sanzione della sospensione per sei mesi dall’esercizio dell’attività professionale.
Il Consiglio riteneva che il dott. Gebhard fosse venuto meno agli obblighi posti dalla legge n. 31 del 1982 in quanto non si era limitato a prestare in Italia servizi legali in modo saltuario e occasionale, ma aveva svolto attività professionale in forma stabile, istituendo un proprio studio, usando il titolo italiano di avvocato e non quello tedesco di Rechtsanwalt e comparendo in giudizio da solo, senza avvalersi dell’assistenza di un collega italiano.
Avverso la decisione il Gebhard proponeva ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense. Chiedeva, in via principale, che fosse disapplicata la norma di cui all’art. 2 della legge n. 31 del 1982 nella parte in cui inibisce a un avvocato comunitario l’apertura in Italia di uno studio legale; in subordine, chiedeva che fosse adita la Corte di Giustizia Cee, in forza dell’art. 177 del Trattato, perché risolvesse la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 52 del Trattato possa legittimare gli stati membri a vietare all’avvocato di altro stato membro l’apertura di una sede principale o secondaria, nel periodo in cui le norme nazionali non abbiano ancora attuato le direttive sul riconoscimento reciproco dei diplomi e sulla integrazione delle conoscenze professionali attraverso la prova attitudinale”.
Il Consiglio Nazionale Forense, in accoglimento della richiesta del ricorrente e in applicazione dell’art. 177 del Trattato di Roma, chiedeva alla Corte di Giustizia del Lussemburgo una decisione su una duplice questione pregiudiziale e cioè: a) sul fatto se l’art. 2 della legge n. 31 del 9 febbraio 1982, secondo cui non è consentito “stabilire nel territorio della Repubblica uno studio, né una sede principale o secondaria”, sia compatibile con la Direttiva Cee 22 marzo 1977 nella quale non vi è cenno del fatto che la facoltà di aprire uno studio potrebbe essere interpretata come sintomo dell’intendimento del professionista di esercitare attività in forma non temporanea, né occasionale, bensì con carattere di continuità; b) sui criteri da seguire per valutare il carattere di temporaneità, in relazione alla costanza e alla ripetitività delle prestazioni da parte dell’avvocato che operi nel regime di cui alla menzionata direttiva 22 marzo 1977.
Con sentenza in data 30 novembre 1995 la Corte di Giustizia affermava:
1) Il carattere temporaneo della prestazione di servizi, previsto dall’art. 60, terzo comma, del Trattato CE, si deve valutare tenendo conto della durata, della frequenza, della periodicità e della continuità della prestazione stessa.
2) Il prestatore di servizi, ai sensi del Trattato, può dotarsi, nello Stato membro ospitante, dell’infrastruttura necessaria per il compimento della sua prestazione.
3) Un cittadino di uno Stato membro che, in maniera stabile e continua, esercita un’attività professionale in un altro Stato membro in cui, da un domicilio professionale, offre i propri servizi, tra l’altro, ai cittadini di questo Stato, è soggetto alle disposizioni del capo relativo al diritto di stabilimento e non a quelle del capo relativo ai servizi.
4) La possibilità, per un cittadino di uno Stato membro, di esercitare il diritto di stabilimento, e le condizioni dell’esercizio di questo diritto devono essere valutate in funzione delle attività che egli intende esercitare nel territorio dello Stato membro ospitante.
5) Allorchè l’accesso a un’attività specifica non è sottoposto ad alcuna disciplina nello Stato membro ospitante, il cittadino di qualsiasi altro Stato membro ha il diritto di stabilirsi nel territorio del primo Stato e di esercitarvi tale attività. Diversamente, allorchè l’accesso a un’attività specifica, o il suo esercizio, è subordinato, nello Stato membro ospitante, a determinate condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle.
6) I provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal trattato devono soddisfare quattro condizioni: essi devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi imperiosi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo.
7) Gli Stati membri hanno l’obbligo di tenere conto dell’equivalenza dei diplomi e, se del caso, procedere ad un raffronto tra le cognizioni e le qualifiche richieste dalle proprie norme nazionali e quelle dell’interessato.
Acquisita la sentenza della Corte, il Consiglio Nazionale Forense, in data 12 maggio 1996, emetteva una decisione con la quale confermava la decisione del Consiglio dell’ordine per quanto riguardava la responsabilità disciplinare del dott. Gebhard per avere violato le disposizioni della legge sulla libera prestazione dei servizi; riformava, invece, parzialmente la decisione del Consiglio dell’Ordine per quanto riguardava la misura della sanzione, riducendo la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei a due mesi.
In particolare il Consiglio ha ritenuto che la Corte di Giustizia abbia nella sua decisione fissato chiaramente la distinzione tra l’avvocato prestatore di servizi e l’avvocato stabilito in uno Stato diverso da quello di provenienza, indicando nel domicilio professionale, ossia nello studio organizzato e costantemente funzionante, anche in assenza del titolare, il centro nell’ambito del quale l’avvocato opera in regime di stabilimento; che è pacifico che il Gebhard ha prestato ai propri clienti continuativa assistenza giudiziale, senza il concerto con un collega iscritto agli albi locali e per di più facendo uso del titolo di avvocato, mentre avrebbe dovuto valersi esclusivamente di quello di Rechtsanwalt; che inoltre ha costituito una organizzazione permanente, funzionale all’esercizio continuativo della professione di avvocato, comportandosi di fatto come avvocato stabilito, in aperto contrasto con le norme che disciplinano la possibilità di effettivo e regolare stabilimento; che pertanto la responsabilità del Gebhard era indubbia; che tuttavia la sanzione inflittagli doveva essere considerata eccessiva in considerazione della obiettiva difficoltà della dizione dell’art. 2 della legge 9 febbraio 1982 n. 31 secondo il quale all’avvocato straniero si fa divieto di aprire una sede e quindi di avvalersi di una infrastruttura, sia pure minimale, della quale il professionista può avere necessità per svolgere la propria attività, anche in regime di prestazione di servizi.
Avverso la decisione del Consiglio Nazionale il Gebhard ha proposto ricorso articolato in nove motivi e illustrato con memoria e note di udienza e ha contestualmente chiesto la sospensione dell’esecuzione della impugnata decisione; sospensione che è stata già concessa da questa Corte a Sezioni Unite con ordinanza emessa nella camera di consiglio del 3 ottobre 1997.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denunzia l’incompetenza e il difetto di giurisdizione del Consiglio dell’Ordine e del Consiglio Nazionale Forense e la violazione degli artt. 1 e 11 della legge 9 febbraio 1982 n. 31, nonché il difetto di motivazione.
Assume che sia il Consiglio dell’Ordine, sia il Consiglio Nazionale non hanno considerato che chi non ha titolo per esercitare una professione non può essere soggetto alla potestà disciplinare del relativo organo di sorveglianza.
Con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, art. 17 e dei punti 5 e 6 del dispositivo della sentenza 30 novembre 1995 della Corte di Giustizia, nonché il difetto di eccesso di potere per assenza assoluta di motivazione e illogicità manifesta sulla qualificazione dell’attività esercitata.
Lamenta che il Consiglio Nazionale Forense non abbia considerato che l’attività prevalente- esercitata dal ricorrente in Italia riguarda l’applicazione del diritto tedesco e non è quindi riservata all’avvocato italiano.
Con il terzo motivo il ricorrente denunzia il vizio di eccesso di potere per assenza assoluta di motivazione e illogicità manifesta sulla colposità dell’addebito.
Lamenta che il Consiglio Nazionale Forense, pur riconoscendo che al momento della sua stabilizzazione in Italia nell’anno 1978, erano del tutto incerti i confini concreti fra libertà di circolazione e diritto di stabilimento e che la dizione dell’art. 2 della legge n. 31 del 1982 è obiettivamente difficile, abbia ritenuto che ciò comportasse una semplice riduzione della sanzione e non la giustificazione della condotta del Gebhard per assoluta mancanza di colpa.
Con il quarto motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 52 del Trattato di Roma e del punto 7 della sentenza 30 novembre 1995 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee sulla mancata ammissione del ricorrente al riconoscimento del proprio diploma; denunzia inoltre il vizio di assenza di motivazione e di contraddittorietà con il parere espresso dal Consiglio Nazionale Forense al Ministro di Grazia e Giustizia nell’istruttoria preparatoria del decreto 9 luglio 1996 di riconoscimento del titolo del ricorrente.
Lamenta che il Consiglio dell’Ordine e il Consiglio Nazionale Forense non abbiano considerato che il ricorrente, non appena ebbe a scadere il periodo di recepimento della direttiva Cee 21 dicembre 1988 n. 89/48 sul riconoscimento dei diplomi, presentò all’Ordine di Milano una domanda d’iscrizione basata sul tirocinio professionale ultradecennale in Italia; e che la domanda era stata respinta perché l’ltalia non aveva ancora attuato la direttiva.
Con il quinto motivo il ricorrente denunzia la violazione della direttiva Cee 22 marzo 1977 n. 249 e della legge 9 febbraio 1982 n. 31, nonché il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità manifesta sull’uso del titolo e l’esercizio della difesa in concerto. Assume che ogni addebito circa l’uso del titolo e l’esercizio della difesa in concerto con un avvocato italiano avrebbe dovuto essere considerato irrilevante in quanto queste prescrizioni riguardano l’avvocato migrante in esercizio temporaneo, e non un avvocato indebitamente stabilizzato.
Osserva inoltre che, nel caso in cui il C.N.F. abbia inteso queste norme come regolanti anche l’attività degli avvocati stabilizzati, il Consiglio avrebbe dovuto considerare che il titolo di avvocato non è mai stato utilizzato dal Gebhard isolatamente, ma sempre come traduzione del titolo tedesco di Rechtsanwalt; che un solo verbale prodotto reca la presenza in giudizio del ricorrente senza la compresenza di altro difensore italiano e che ciò non significa affatto mancanza di concerto.
Con il sesto motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 38 e 40 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, nonché il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità manifesta sulla sanzione applicata. Assume che il Consiglio dell’Ordine e il Consiglio Nazionale Forense non potevano sospenderlo dall’esercizio della professione e, cioè, dall’esercizio di un diritto che, secondo gli stessi Consigli, egli non aveva.
Con il settimo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578. Assume che il Consiglio Nazionale Forense non ha tenuto in alcun conto l’eccezione di prescrizione quinquennale intercorsa dal momento in cui ha stabilito la sede dello studio in Italia al momento della incolpazione.
Con l’ottavo motivo il ricorrente denunzia il vizio di eccesso e di sviamento di potere. Assume che con la decisione impugnata il Consiglio Nazionale Forense ha esercitato non una funzione giurisdizionale, ma una funzione corporativa.
Con il nono motivo il ricorrente propone istanza di sospensione della sentenza impugnata ex art. 56, quarto comma, del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578.
I motivi possono essere esaminati congiuntamente e debbono essere dichiarati infondati.
In Italia, come del resto negli altri Paesi della Comunità Europea, l’esercizio delle libere professioni non può essere svolto da chiunque, ma solo da coloro che presentano particolari requisiti. L’accertamento di tali requisiti è compito dei Consiglio dell’Ordine professionale (art. 2229, secondo comma cod. civ.) e risulta dalla iscrizione nell’Albo dell’Ordine. Solo coloro che sono iscritti nell’Albo sono abilitati ad esercitare una determinata professione.
I requisiti per l’iscrizione sono stabiliti dalla legge e possono essere diversi a seconda della professione: età, residenza, buona condotta, possesso di un’adeguata preparazione tecnico professionale risultante da un praticantato è dal superamento di un esame di Stato abilitante e, in generale, il possesso della cittadinanza italiana.
Il principio del requisito della cittadinanza italiana subisce tuttavia alcune deroghe sia in relazione ai cittadini extracomunitari sia, ancora più, in relazione ai cittadini comunitari.
Per quanto riguarda questi ultimi va osservato che il principio generale della libera circolazione delle persone, contenuto nel trattato di Roma, implica che coloro i quali desiderano prestare un servizio o stabilirsi in un qualsiasi Stato membro per esercitarvi la propria attività possono farlo alle stesse condizioni stabilite per i cittadini di quello Stato.
Ne consegue che quando l’attività in questione non è soggetta-ad alcuna disciplina in uno Stato della Comunità, di modo che un cittadino di questo Stato
non debba possedere alcun requisito speciale per esercitarle, il cittadino di un
qualsiasi altro Stato membro ha il diritto di stabilirsi nel territorio dello Stato ospitante e di esercitarvi la propria attività professionale. Quando, invece, l’accesso a una attività specifica, o l’esercizio di questa, è subordinato nello Stato ospitante a particolari condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività, deve di regola soddisfarle.
Difatti il principio di libera circolazione delle persone contenuto nel trattato comporta che, per quanto riguarda i cittadini comunitari, il Consiglio dell’Ordine non può rifiutare l’iscrizione all’Albo, quando risultino soddisfatti tutti i requisiti, per il solo difetto della cittadinanza.
In applicazione di tale principio la Corte di Giustizia, nel caso Reyners, ha affermato che il signor Reyners, cittadino olandese che aveva conseguito in Belgio il titolo “docteur en droit” e risiedeva in Belgio, aveva diritto ad ottenere l’iscrizione all’Albo degli avvocati belgi, nonostante che la legge belga ammettesse l’iscrizione all’Albo per i soli avvocati nazionali, ad esclusione degli stranieri. (Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza Reyners del 21 giugno 1974).
Non vi è dubbio pertanto che un cittadino tedesco che risieda in Italia, abbia conseguito in Italia la laurea in giurisprudenza, abbia superato l’esame di Stato e abbia tutti gli altri requisiti previsti dalla legge sull’ordinamento professionale, possa essere iscritto nell’Albo del Consiglio dell’Ordine come un qualsiasi altro cittadino italiano.
Il principio enunciato dalla Corte di Giustizia nel caso Reyners avrebbe tuttavia, in pratica, scarsa applicazione se fosse limitato ai soli casi in cui il cittadino comunitario abbia ottenuto il titolo di studio nel Paese in cui richiede l’iscrizione all’Albo.
Per ovviare a questo inconveniente il Consiglio ha emanato una serie di direttive settoriali per facilitare l’espletamento di attività professionale occasionale e saltuaria in tutta la Comunità da parte dei professionisti comunitari; inoltre, ha emanato una disciplina generale in materia di reciproco riconoscimento dei diplomi di laurea.
Per quanto riguarda la professione di avvocato, in particolare, ha adottato il 22 marzo 1977 una direttiva intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi (Direttiva 77/249/Cee).
La direttiva n. 77/249 è stata attuata in Italia con la legge n. 31/1982 il cui art. 2 recita: I cittadini degli Stati membri delle Comunità europee abilitati nello Stato membro di provenienza ad esercitare l’attività di avvocato) sono ammessi all’esercizio delle attività professionali dell’avvocato, in sede giudiziale e stragiudiziale, con carattere di temporaneità e secondo le modalità stabilite dal presente titolo.
Per l’esercizio delle attività professionali di cui al comma precedente, non è consentito stabilire nel territorio della Repubblica uno studio né una sede principale o secondaria.
La norma in sostanza abilitava gli avvocati degli altri Paesi membri della Comunità Europea a svolgere in Italia attività forense solo in forma temporanea e occasionale e senza carattere di continuità; ed era quindi vietato all’avvocato comunitario di stabilire la sede principale o secondaria del proprio studio.
Successivamente il Consiglio ha emanato la direttiva del 21 dicembre 1988 n. 48 (89/48/Cee) che contiene il principio del mutuo riconoscimento dei diplomi: uno Stato membro non può rifiutare al cittadino di un altro Stato membro l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio se il richiedente possiede il diploma che e prescritto in un altro Stato membro per l’accesso a quella stessa professione.
Il diverso ordinamento degli studi dei vari Stati membri potrebbe tuttavia comportare gravi inconvenienti dovuti alla equiparazione di titoli di valore sostanzialmente diverso, anche se formalmente identici. Per questo il principio è stato sottoposto ad alcuni limiti; esso riguarda solo i diplomi di istruzione superiore che sanciscano formazioni professionali della durata minima di tre anni e non esclude la possibilità per lo Stato di subordinare il riconoscimento a determinate misure di adattamento che possono consistere o in un periodo di tirocinio o in una prova attitudinale.
Nel nostro ordinamento la direttiva è stata attuata con il decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 115 che prevede il riconoscimento a favore del cittadino comunitario ai fini dell’esercizio in Italia, come lavoratore autonomo o dipendente, della professione corrispondente a quella cui è abilitato nel paese che ha rilasciato i titoli di formazione professionale (art. 1); e che, per quanto riguarda le professioni di procuratore legale, di avvocato, di commercialista e di consulente per la proprietà industriale subordina il riconoscimento al superamento di una prova attitudinale.
Attualmente pertanto i cittadini comunitari laureati in legge in uno Stato membro della Comunità Europea possono chiedere il riconoscimento del proprio titolo in Italia con una domanda diretta al Ministro di Grazia e Giustizia. Il Ministro dispone con decreto il riconoscimento del titolo subordinandolo all’espletamento della prova attitudinale; la prova si svolge dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.
Superata la prova con esito positivo il Consiglio ne dà certificazione all’interessato ai fini dell’iscrizione all’Albo. L’avvocato acquisisce così il diritto di accedere alla professione e di esercitarla, nel rispetto delle condizioni richieste dalla normativa vigente ai cittadini italiani diverse dal possesso della formazione e delle qualifiche professionali (art. 13, comma 1, d.lgs. n. 115 del 1992); l’equiparazione dei cittadini comunitari ai cittadini italiani ai fini dell’iscrizione negli Albi dei procuratori e degli avvocati è stato quindi sancito espressamente dall’art. 10 della legge 22 marzo 1994.
Attualmente, pertanto, l’avvocato comunitario che intenda svolgere la sua attività professionale in Italia o, quantomeno, anche in Italia, ha due possibilità: o chiedere al Consiglio dell’Ordine l’iscrizione nel registro di cui all’art. 12 della legge n. 31/1982, attuativa della direttiva Ce n. 77/249, per lo svolgimento della libera prestazione dei servizi; oppure richiedere l’iscrizione all’Albo, ai sensi della legge 27 gennaio 1992 n. 115, attuativa della direttiva Cee 1988 n. 48, previo il riconoscimento del proprio titolo di studio da parte del Ministro di Grazia e Giustizia e il superamento della prova attitudinale dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.
La distinzione tra le due ipotesi consiste nel carattere temporaneo o stabile dell’attività esercitata dall’avvocato nel Paese membro; e come ha affermato la Corte di Giustizia, il carattere temporaneo delle attività considerate deve essere valutato non soltanto in rapporto alla durata della prestazione, ma anche tenendo conto della frequenza, periodicità e continuità di questa. Il carattere temporaneo della prestazione non esclude la possibilità per il prestatore di servizi, ai sensi del Trattato, di dotarsi nello Stato membro ospitante di una determinata infrastruttura, compreso un ufficio o uno studio, se questa infrastruttura è necessaria al compimento della prestazione.
Tuttavia, come ha osservato la stessa Corte, diversa è la situazione di chi, come il sig. Gebhard, eserciti in maniera stabile e continuativa un’attività professionale in un altro Stato membro in un domicilio professionale in cui offre i suoi servizi, tra l’altro, ai cittadini di quest’ultimo Stato membro. In questo caso si rientra nella disposizione del capo relativo al diritto di stabilimento, non in quello relativo ai servizi.
In realtà non vi è dubbio che l’avv. Gebhard, nel periodo in cui era iscritto nel registro di cui alla legge 1982 n. 31, non si sia limitato a svolgere attività professionale in modo saltuario e occasionale e che abbia invece, svolto in Italia attività professionale in modo stabile e continuativo, usando il titolo di avvocato, partecipando personalmente alle udienze e istituendo un suo “studio legale Gebhard”. Egli ha in tal modo violato i limiti previsti dalla legge 1982 n. 31, ed è stato per questo ritenuto responsabile dal Consiglio dell’Ordine di Milano e dal Consiglio Nazionale Forense.
D’altra parte i rilievi sollevati dall’avv. Gebhard avverso la decisione del Consiglio Nazionale non possono essere accolti. Alcuni di essi, infatti, riguardano accertamenti di fatto come la natura dell’attività professionale svolta dal Gebhard (secondo motivo del ricorso), l’uso del titolo di avvocato e la partecipazione personale all’udienza (quinto motivo del ricorso) che non possono essere sindacati da questa Corte, ovvero riguardano la valutazione dell’illiceità disciplinare di fatti (terzo motivo del ricorso), anch’essa sottratta al sindacato di questa Corte.
Altri rilievi riguardano la competenza del Consiglio dell’Ordine a emettere provvedimenti disciplinari nei confronti degli avvocati iscritti (primo e sesto motivo del ricorso); essi peraltro appaiono manifestamente infondati in quanto in contrasto con il disposto dell’art. 11 della legge 1982 n. 31 in base al quale gli avvocati comunitari sono soggetti per ogni violazione della legge relativa alla libera prestazione dei servizi al potere disciplinare del Consiglio dell’Ordine competente per territorio.
Parimenti infondata e l’eccezione di prescrizione quinquennale (settimo motivo del ricorso) essendo pacifico che il comportamento illecito si è protratto senza interruzioni sino all’apertura del procedimento disciplinare e anche successivamente ed e stata sanata soltanto dall’iscrizione del Gebhard nell’Albo professionale, dopo il superamento della prova attitudinale.
Irrilevante, infine, è il fatto che l’avv. Gebhard abbia presentato all’Ordine di Milano una domanda di iscrizione non appena scaduto il termine di recepimento della direttiva Ce n. 89/48 (quarto motivo del ricorso); e che successivamente il Gebhard, attuata la direttiva in Italia con la legge n. 115 del 1992, abbia superato la prova attitudinale prevista e sia ormai iscritto nell’Albo degli Avvocati di Milano. Nessuno contesta, infatti, che Gebhard sia attualmente avvocato in Italia a tutti gli effetti e che, anzi, risulti un avvocato particolarmente corretto e preparato; rimane tuttavia il fatto che, sino al momento della iscrizione nell’Albo, egli ha esercitato l’attività professionale in violazione dei limiti previsti dalla legge sulla libera prestazione dei servizi; e che pertanto sotto questo aspetto ha commesso un illecito che il Consiglio ha ritenuto disciplinarmente rilevante in applicazione della disciplina allora vigente e senza alcuna spirito corporativo (ottavo motivo del ricorso).
D’altra parte irrilevante appare ancora il ritardo di attuazione della direttiva Europea sui riconoscimenti dei diplomi di laurea da parte del legislatore italiano; rimane il fatto che il Gebhard ha esercitato prima della legge di attuazione italiana, ed anzi prima dell’emanazione della direttiva europea sul reciproco riconoscimento dei diplomi, una attività che eccedeva dai limiti consentiti dalla legge sulla libera prestazione dei servizi.
L’ultimo motivo sulla richiesta di sospensione della sentenza impugnata deve essere considerato assorbito dall’accoglimento della richiesta da parte di questa Corte con provvedimento emesso da queste Sezioni Unite nella camera di consiglio del giorno 3 ottobre 1997; provvedimento che deve essere considerato revocato dal rigetto del ricorso.
Nulla deve essere pronunciato in merito alle spese di questo giudizio di Cassazione non essendosi costituite le parti resistenti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso il 24 settembre 1998
F.to Il Presidente
F.to Il Relatore
Depositato in Cancelleria il 18 marzo 1999
Sentenza Corte Costituzionale n. 154 sul trattamento fiscale della separazione legale
del 29 aprile-10 maggio 1999
Nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) – in relazione agli artt.1, 2 e 8, lettera f), della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro); art. 2, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (Disciplina dell’imposta di bollo) e art. 20 della tariffa allegata; artt. 2, 15 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (Istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili); 2 e 10 del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale), e artt. 1 e 5 della tariffa allegata, promossi con ordinanze emesse l’8 aprile 1997 della Commissione tributaria provinciale di Milano sul ricorso proposto da Bezzecchi Sergio ed altra contro Ufficio del Registro di Milano, iscritta al n. 503 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 1997 e il 30 gennaio 1998 dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste sul ricorso proposto da Ciliberti Maria Pia ed altro contro Direzione generale delle entrate Friuli-Venezia Giulia, iscritta al n. 431 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visto l’atto di costituzione di Bezzecchi Sergio;
udito nella udienza pubblica del 23 febbraio 1999 il Giudice relatore Fernanda Contri;
udito l’avvocato Giovanni Migliori per Bezzecchi Sergio.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso di un giudizio promosso da Barbara Loi e Sergio Bezzecchi contro l’Ufficio del registro di Milano – per chiedere la restituzione di somme che i ricorrenti assumono indebitamente riscosse – la Commissione tributaria provinciale di Milano, Sezione IV, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 31 e 53 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) – in relazione: all’art. 8, lettera f), della parte prima della tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro); all’art. 2, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (Disciplina dell’imposta di bollo); agli artt. 2, 15 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (Istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili); agli artt. 2 e 10 del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale), e art. 5 della tariffa allegata – nella parte in cui non comprende, nella esenzione dalle imposte di registro, bollo, ipotecarie e catastali, Invim, tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi.
Il collegio rimettente assume la rilevanza della questione anche nell’ipotesi in cui si acceda all’interpretazione più restrittiva della disposizione impugnata, che dichiara esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo la richiamata interpretazione restrittiva, che peraltro il giudice a quo ritiene errata, non rientrerebbero nell’esenzione – in quanto, a rigore, non riconducibili alla categoria giuridica delle tasse – le imposte ipotecarie, catastali e l’Invim. Ma anche alla stregua di questa interpretazione, la questione conserverebbe la sua rilevanza nel procedimento principale, avendo i ricorrenti convenuto l’Ufficio del registro per ottenere la restituzione anche delle imposte di registro e bollo.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, la Commissione tributaria, richiamando la sentenza di questa Corte n. 176 del 1992, invoca le profonde analogie e la complementarità funzionale dei procedimenti di separazione e divorzio.
Il giudice a quo argomenta l’irrazionalità della disciplina impugnata anche alla luce dell’evoluzione della normativa precedente l’introduzione della esenzione di cui all’art. 19 della legge n. 74 del 1987. Il Collegio rimettente ricorda, in particolare, la legge 10 marzo 1976, n. 260, la quale, nell’assoggettare le sentenze di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle di separazione personale (ancorché portanti condanne al pagamento di assegni o attribuzioni di beni patrimoniali) all’imposta di registro in misura fissa, avrebbe evidenziato – come riconosciuto dalle stesse circolari ministeriali citate nell’ordinanza di rimessione – che per i provvedimenti giurisdizionali di cui si tratta è esclusa, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, ogni valutazione della capacità contributiva dei soggetti interessati.
La Commissione tributaria provinciale di Milano ritiene di estendere la questione di legittimità costituzionale alla mancata esenzione da tutte le tasse ed imposte concernenti il provvedimento di separazione personale dei coniugi, interpretando l’impugnato art. 19 della legge n. 74 del 1987, assunto a tertium comparationis, con riferimento alle sentenze di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, come diretto ad esentare queste ultime da ogni tassa ed imposta, sulla scorta di un’interpretazione conforme sia alla lettera della disposizione sia al linguaggio comune, che l’impugnata disposizione avrebbe fatto proprio nell’impiegare il termine tassa come sinonimo di tributo, comprensivo di tasse ed imposte.
L’estensione dell’esenzione ad imposte diverse da quella di registro e bollo è, ad avviso del giudice a quo, coerente con la ratio della norma come desumibile dai lavori preparatori, preordinata alla riduzione dei costi necessari per ripristinare con il divorzio la libertà di stato o la revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge n. 898 del 1970.
Il Collegio rimettente sottolinea la natura, propria delle sentenze di separazione e divorzio, di atti incidenti sullo status personale dei coniugi rispetto ai quali l’attribuzione patrimoniale avrebbe carattere secondario ed eventuale.
2. – Nel giudizio davanti a questa Corte si sono costituite le parti ricorrenti nel giudizio a quo, per chiedere l’accoglimento della questione prospettata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano.
Le parti costituite affermano l’identità delle situazioni sostanziali dedotte nei procedimenti di separazione e divorzio, sia sotto il profilo della ratio delle attribuzioni patrimoniali, sia sotto il profilo della natura dell’assegno di mantenimento: si tratta di atti e provvedimenti che tendono a tutelare i medesimi interessi, anche se in momenti diversi … anzi, proprio per la persistenza del vincolo matrimoniale e per il peggioramento economico della famiglia e la incertezza … al momento della separazione, … questo piuttosto dovrebbe essere il momento più tutelato.
3. – Nel corso di un giudizio promosso da Fabio Foti e Maria Ciliberti contro la Direzione regionale delle entrate (DRE) per il Friuli-Venezia Giulia – per chiedere la restituzione di somme che i ricorrenti assumono indebitamente versate – la Commissione tributaria provinciale di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 31 della Costituzione, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 – in relazione: agli artt. 1 e 2 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), e 8, lettera f), della parte prima della tariffa allegata; agli artt. 10 del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale), e 1 della tariffa allegata; all’art. 15 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (Istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili); all’art. 20 della tariffa allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (Disciplina dell’imposta di bollo) – nella parte in cui non comprende nell’esenzione dalle imposte di registro, ipotecarie, catastali, Invim e bollo gli atti di trasferimento immobiliare e le attribuzioni patrimoniali disposte in sede di procedimento di separazione coniugale.
Affermata la rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel procedimento a quo, la Commissione tributaria rimettente motiva la non manifesta infondatezza della questione medesima avanzando argomenti sostanzialmente analoghi a quelli, poc’anzi riportati, addotti dalla Commissione tributaria provinciale di Milano.
In ordine al prospettato contrasto con l’art. 31 della Costituzione, il Collegio rimettente osserva che se l’agevolazione è stata predisposta per garantire una tutela economico-patrimoniale alla famiglia nel momento in cui si scioglie definitivamente, appare maggiormente doveroso estendere l’esenzione al procedimento di separazione, a seguito del quale il rapporto di coniugio si attenua ma non cessa del tutto.
Considerato in diritto
1. – La Commissione tributaria provinciale di Milano dubita, in riferimento agli artt. 3, 29, 31 e 53 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nella parte in cui non comprende nella esenzione da esso disposta (per tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio) tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi.
Il contrasto con gli invocati parametri costituzionali si profilerebbe in considerazione dell’omogeneità delle situazioni poste a raffronto, che non consentirebbe di differenziare ragionevolmente il trattamento fiscale degli atti relativi ai due procedimenti. Il contrasto con l’art. 53 della Costituzione deriverebbe, ad avviso del collegio rimettente, dalla circostanza che i presupposti delle imposte applicate agli atti del procedimento di separazione non sarebbero ragionevolmente indicativi di capacità contributiva.
La Commissione tributaria provinciale di Trieste ha ipotizzato solo la lesione degli artt. 3 e 31 della Costituzione sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, ed altresì sulla scorta del rilievo che, se l’agevolazione è stata predisposta per garantire una tutela economico-patrimoniale alla famiglia nel momento in cui si scioglie definitivamente, appare maggiormente doveroso estendere l’esenzione al procedimento di separazione, a seguito del quale il rapporto di coniugio si attenua ma non cessa del tutto.
Avendo i ricorrenti nei procedimenti principali promosso nei confronti dell’amministrazione finanziaria i due giudizi tributari a quibus per chiedere la restituzione di somme riscosse come imposte di registro, bollo, ipotecarie e catastali, e Invim su atti e provvedimenti relativi al procedimento di separazione, le Commissioni tributarie rimettenti sollevano questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, in relazione agli artt. 1 e 2 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro) e 8, lettera f), della parte prima della tariffa allegata; agli artt. 2, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (Disciplina dell’imposta di bollo) e 20 della tariffa allegata (Allegato A); agli artt. 2, 15 e 25 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 643 (Istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili); agli artt. 2 e 10 del decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti le imposte ipotecaria e catastale), 1 e 5 della tariffa allegata.
2. – Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni di legittimità costituzionale concernenti le stesse disposizioni legislative, in gran parte coincidenti. I relativi giudizi possono pertanto essere riuniti e decisi con unica sentenza.
3. – Le questioni sollevate dalle Commissioni tributarie provinciali di Milano e Trieste sono fondate.
Con la sentenza n. 176 del 1992, questa Corte ha già scrutinato la disposizione impugnata sotto il profilo della mancata estensione della esenzione (non già a tutti gli atti e documenti del giudizio di separazione personale dei coniugi, ma) al solo provvedimento di iscrizione di ipoteca a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge separato, pronunciandosi nei limiti dell’impugnazione.
Le stesse ragioni a suo tempo poste a fondamento del dispositivo di accoglimento – dichiarativo dell’incostituzionalità dell’impugnato art. 19, nella parte in cui non comprende nell’esenzione dal tributo anche le iscrizioni di ipoteca effettuate a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge nel giudizio di separazione – impongono di accogliere le questioni di legittimità costituzionale ora formulate dalle Commissioni tributarie rimettenti in termini più ampi, in relazione alla totalità dei tributi oggetto dell’esenzione.
Il parallelismo, le analogie e la complementarità funzionale dei procedimenti di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e del procedimento di separazione dei coniugi sotto i profili che rilevano ai presenti fini, già sottolineati da questa Corte nella decisione richiamata, portano anche in questo caso a concludere che il profilo tributario non può ragionevolmente riflettere un momento di diversificazione delle due procedure, atteso che l’esigenza di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale, che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del giudizio divorzile, è con ancor più accentuata evidenza presente nel giudizio di separazione: sia perché in quest’ultimo la situazione di contrasto tra i coniugi – ai quali occorre assicurare una se non più ampia, almeno pari tutela – presenta di solito una maggiore asprezza e drammaticità rispetto alla fase già stabilizzata dell’epilogo divorzile; sia in considerazione dell’esigenza di agevolare, e promuovere nel più breve tempo, una soluzione idonea a garantire l’adempimento delle obbligazioni che gravano, ad esempio, sul coniuge non affidatario della prole.
4. – L’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui non estende l’esenzione in essa prevista a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, non può pertanto ritenersi conforme all’art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo del principio di eguaglianza, sia sotto il profilo del principio di ragionevolezza, anche in riferimento agli artt. 29, 31 e 53 della Costituzione.
Per questi motivi la Corte Costituzionale
riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nella parte in cui non estende l’esenzione in esso prevista a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi.
Corruzione di minorenni – Nozione di atti sessuali o atti di libidine – Fattispecie di materiale pornografico mostrato ai minori.
(Cassazione – Sezione III Penale sent. n. 4264/99 – Presidente Tridico G. – Relatore Seluttino O.)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Trento sezione distaccata di Bolzano, ha confermato la sentenza del Pretore di Merano del 22-7-1994, appellata dall’imputato P. F., con la quale costui era stato condannato, con le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva e con la continuazione, alla pena di un anno di reclusione, per il reato di cui agli artt. 56 e 530 c.p., così modificata l’originaria imputazione ( artt. 81 cpv. e 530 c.p., “per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, indotto persone minori degli anni sedici a commettere atti di libidine; in particolare, per avere mostrato giornali e videocassette a contenuto pornografico a M. M. ed U. ( rispettivamente di anni 15 e 12), nonché a N. M., F. e H., inducendo le predette persone minori alla commissione di atti di libidine. In Scena (BZ), nel marzo-aprile 1992. Con la recidiva”.
Ricorre il Procuratore Generale presso la sezione distaccata della Corte di appello di Trento con sede in Bolzano per l’annullamento della sentenza, deducendo:
Violazione dell ‘art.491 co. 2 c.p.p., per l’abusivo inserimento nel fascicolo del dibattimento dell’informativa di reato dei Carabinieri (ved.ff.13-14), con conseguente danno per l’imputato a causa della ”descrizione estremamente negativa di lui, contenuta nell’informativa medesima, sulla quale, peraltro, non è stato sentito neppure il rapportante Rizzo G..
Violazione dell’art.15 co. 4 D.P.R. 574/88 e dell art.109 co. 2 e 3 cp.p., per mancato avviso ai testi di madrelingua tedesca della facoltà di usare nel rendere la testimonianza, la lingua tedesca, per la mancata nomina dell’interprete e per l’omessa doppia verbalizzazione, prevista a pena di nullità.
Violazione dell’art.56 c.p., per avere, la Corte di appello, ritenuto erroneamente realizzato, nella fattispecie, il tentativo di corruzione di minorenni, che, essendo reato di pericolo, non ammette la figura del tentativo, quanto meno nella realtà dei fatti accertati nel caso concreto.
Violazione dell’art. 192 co. 1 e 2 cp.p. e art. 120 c.p..
Con tale motivo il ricorrente denuncia, in buona sostanza, il vizio di cui all’art.606 co. 1 lett.e) c.p.p. (e, se mal non si comprende, anche quello di cui alla lettera c), per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, sia con riguardo alla ritenuta ed affermata responsabilità dell’imputato, nonostante la carenza di prove a suo carico, sia in relazione alla errata configurazione del reato in ordine al quale lo stesso è stato, poi, condannato, nonché alla procedibilità dell’azione penale, indicando dettagliatamente gli elementi e le circostanze di fatto e le emergenze processuali da cui dovrebbe dedursi l’esistenza del vizio denunciato ( o dei vizi denunciati).
Violazione dell’art 606 quinquies c.p., per avere, la Corte territoriale, pronunciato la condanna dell’imputato sull’ errato presupposto che fossero stati da lui compiuti “atti sessuali” o, meglio, atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere atti sessuali, mentre tutto ciò non è risultato assolutamente provato; come parimenti è rimasto del tutto indimostrato il fine, richiesto dalla legge per la realizzazione del reato in questione, di fare assistere i minori di anni quattordici a tali pretesi atti.
“I motivi esposti dimostrano – secondo il ricorrente – che la sentenza de qua dev’essere cassata, al fine di consentire una rilettura più corretta e ponderata delle risultanze probatorie e con esclusione di tutto ciò che è stato illegalmente acquisito o non risulta coperto dal capo di accusa”.
Ricorre anche l’imputato, deducendo:
1) Violazione dell’art. 606 lett. c) ed e) c.p.p., con riferimento agli artt.521 e 522 c.p.p., per violazione della regola della correlazione tra sentenza ed accusa, essendo stata pronunciata condanna per fatti ritenuti in sentenza diversi da quelli contestati (ved. capo d’imputazione).
2) Violazione dell’art. 606 lett. e) c.p.p., in riferimento agli artt. l 92 e l 95 c.p.p., per manifesta illogicità della motivazione e travisamento del fatto risultanti dal testo della sentenza, in relazione alle circostanze, date per provate in sentenza, ma non riferite da alcun teste, che il P. avrebbe mostrato ai minori giornali e riviste pornografiche o avrebbe commesso atti qualificabili come atti di libidine; e, inoltre, per la ritenuta attendibilità delle testimonianze de relato, piuttosto che di quelle dirette, che escludevano la sussistenza dei fatti addebitati al prevenuto.
3) Violazione dell’art. 606 lett.b) ed e) c.p.p., per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 530-609 quinquies e 56 c.p. nonché per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione,. in relazione alla errata valutazione dei fatti ed all’altrettanto erroneo convincimento, espresso dai giudici in sentenza, che gli stessi integrassero la violazione di legge contestata, sia secondo la previsione dell’abrogato art. 530 sia per il vigente art. 609 quinquies c.p., ed in relazione, altresì, alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato, consistente, per il disposto di tale ultima norma, nel dolo specifico per cui gli atti sessuali devono essere compiuti ” al fine di far assistere i minori”, che nel caso in esame è del tutto assente.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La fondatezza dei motivi di merito dei ricorsi del P.G. e dell’imputato, che conducono all’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza, consente, da un lato, la trattazione unitaria degli stessi e dispensa, dall’altro, questa Corte dall’esame dei residui motivi, con i quali si è prospettata, soprattutto dal P.G., violazione di norme processuali, non comportanti, peraltro, nullità di atti del giudizio capace di riverberarsi sulle sentenze.
Ciò premesso, si osserva che, stando ai fatti addebitati all’imputato quali si leggono nel capo d’imputazione più sopra integralmente trascritto, deve escludersi che i fatti stessi integrino il reato contestato, neppure sub specie di tentativo, come ritenuto dai giudici di merito; e ciò con riferimento sia all’art. 530 c.p., all’epoca vigente, che all’art. 609 quinquies c.p., introdotto dall’art. 6 L. 15-2-1996 n. 66.
La Corte di appello, per pervenire alla conclusione che il fatto contestato all’imputato, vigente l’art. 530 c.p., potesse essere ricondotto sotto la previsione della nuova norma (art. 609 quinquies c.p. ora citato) che punisce la corruzione di minorenni, e per affermare, quindi, la responsabilità del soggetto alla stregua del disposto di siffatta norma – in ordine, peraltro, al reato tentato -, ha interpretato la stessa, nel senso che ” gli atti sessuali” che si compiono in presenza della persona minore al fine di farla assistere possono identificarsi anche in quelli comunque “attinenti alla sfera sessuale”; inferendone, quindi, che gli atti compiuti dal P. rientrano in tale categoria e possono, in definitiva, essere qualificati “atti sessuali”, con la conseguenza che, nella fattispecie, essi sono stati idonei, secondo quei giudici “a risvegliare nei minori desideri dei sensi ancora quiescenti, determinando negli stessi un turbamento psichico, mostrando ai minori fotografie di parti del corpo che essi già consideravano, sia pure inconsciamente con un senso di pudore e riservatezza”, tutto ciò facendo ”al fine fine di eccitare la bramosia sessuale”. E, pur non concretando, gli atti predetti, sempre secondo quei giudici, alcun gesto di concupiscenza sul corpo proprio o altrui, “tuttavia avevano certamente in sè l’inequivoca idoneità a creare le premesse di quello stato di pericolo che viene preso in considerazione quale elemento essenziale della punibilità dei fatti sopra elencati”. “Giustamente è stata ritenuta la sussistenza del tentativo, conclude la sentenza impugnata.
A questo punto deve precisarsi, innanzitutto, che i fatti che la Corte di appello avrebbe dovuto valutare per trarne le conseguenze sul piano della loro eventuale sussunzione sotto la previsione dell’art. 609 quinquies c.p. e decidere, poi, in merito alla fondatezza dell’accusa, dovevano essere necessariamente, per il rispetto delle regole stabilite dagli artt. 521 e 522 c.p.p., quelli descritti nel capo d’imputazione, e non i fatti diversi, emersi dalle risultanze istruttorie e indicati a pag. 6 della sentenza, sui quali sembra invece, quei giudici si siano effettivamente pronunciati.
Ciò precisato, deve escludersi che i fatti medesimi, cioè quelli enunciati nel capo d’imputazione, possano integrare gli estremi del reato, anche soltanto tentato, nella configurazione che ne dà ora l’art. 609 quinquies c.p., di corruzione di minorenni (e neppure, è il caso di dire, nella configurazione che ne dava l’abrogato art. 530 c.p.), non ritenendosi che con l’attività attribuita al prevenuto, “di avere mostrato giornali e videocassette a contenuto pornografico ai minori”, egli abbia compiuto “atti sessuali”, (o atti di libidine, ex art. 530 abrog.), e ciò allo scopo di farvi assistere questi ultimi.
Esula, infatti, la predetta condotta dal concetto e dal significato di “atto sessuale”, che deve necessariamente concretizzarsi in un’attività fisica che coinvolga in qualche modo direttamente gli organi sessuali, maschile o femminile, con il proposito, nell’ipotesi di reato che qui interessa, di farvi assistere i minori per suscitare in loro eccitazione dei sensi ed insane – per la loro età – voglie, che essi, proprio a causa della non ancora raggiunta maturità fisica e psichica, non sono in grado di controllare e dominare. E deve escludersi anche – per quel che può ancora qui interessare, posto che la Corte di appello, a quanto pare, ha esaminato e valutato i fatti ai fini del loro eventuale inquadramento nella nuova figura di reato come delineata dall’art. 609 quinquies c.p. – che con la medesima condotta il prevenuto abbia compiuto atti di libidine su persona o in presenza di persona minore degli anni sedici, che erano richiesti dall’abrogato art. 530 c.p., perché potesse realizzarsi la corruzione di minorenni, atteso che, secondo la giurisprudenza formatasi in proposito, era pur sempre necessario, a tal fine, che fosse compiuto un “atto sessuale”, intendendosi per tale qualunque atto diverso dalla congiunzione carnale, suscettivo di dare sfogo alla concupiscenza, anche in modo non completo, e di durata brevissima ed idoneo, inoltre, ad essere percepito dal minore con un senso di turbamento psichico e con la consapevolezza, anche se vaga e indistinta che esso interessava la sfera intima del sesso e del pudore (Cass. Sez.III, 19-1-1984 n. 515; 12-3-1985 n. 2358).
Deve concludersi, pertanto, che ferma restando la contestazione come riportata nel capo d’imputazione – ma la conclusione non cambierebbe, anche se i fatti addebitabili al prevenuto fossero, quelli emersi dalle risultanze istruttorie e riferiti in sentenza, che parimenti non potrebbero essere qualificati come “atti sessuali”, nell’accezione più sopra chiarita -, la condotta del P. non ha integrato il reato addebitatogli – non essendo stata fornita, tra l’altro, alcuna motivazione circa la ricorrenza dell’elemento psicologico proprio del reato in questione, che si qualifica come dolo specifico -, e, pertanto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte annulla senza rinvio la sentenza imputata perché il fatto non costituisce reato.
NUOVA LEGGE CHE DISPONE PER MAGGIORE TUTELA DEI MINORI.
Legge 6 febbraio 2006 n. 38
Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet.
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 38 del 15 febbraio 2006)
CAPO I
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI LOTTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO SESSUALE DEI BAMBINI E LA PEDOPORNOGRAFIA
Art. 1.
1.All’articolo 600-bis del codice penale, il secondo comma è sostituito dai seguenti:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 5.164.
Nel caso in cui il fatto di cui al secondo comma sia commesso nei confronti dì persona che non abbia compiuto gli anni sedici, si applica la pena della reclusione da due a cinque anni.
Se l’autore del fatto di cui al secondo comma è persona minore di anni diciotto si applica la pena della reclusione o della multa, ridotta da un terzo a due terzi”.
Art. 2
1. All’articolo 600-ter del codice penale, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il primo comma è sostituito dal seguente:
“Chiunque, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche è punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 25.822 a euro 258.228”;
b) al terzo comma, dopo la parola: “divulga” è inserita la seguente: “, diffonde”;
c) il quarto comma è sostituito dal seguente:
“Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui ai commi primo, secondo e terzo, offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, il materiale pornografico di cui al primo comma, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 1.549 a euro 5.164”;
d) dopo il quarto comma è aggiunto il seguente:
“Nei casi previsti dal terzo e dal quarto comma la pena è aumentata in misura non eccedente i due terzi ove il materiale sia di ingente quantità”.
Art. 3.
1. L’articolo 600-quater del codice penale è sostituito dal seguente:
“Art. 600-quater. – (Detenzione dì materiale pornografico). – Chiunque, al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 600-ter, consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa non inferiore a euro 1.549.
La pena è aumentata in misura non eccedente i due terzi ove il materiale detenuto sia di ingente quantità”.
Art. 4.
1. Dopo l’articolo 600-quater del codice penale, come sostituito dall’articolo 3 della presente legge, è inserito il seguente:
“Art. 600-quater. 1. (Pornografia virtuale). Le disposizioni di cui agli articoli 600-ter e 600-quater si applicano anche quando il materiale pornografico rappresenta immagini virtuali realizzate utilizzando immagini di minori degli anni diciotto o parti di esse, ma la pena è diminuita di un terzo.
Per immagini virtuali si intendono immagini realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali”.
Art. 5
1. All’articolo 600-septies del codice penale è aggiunto, in fine, il seguente comma:
“La condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti di cui al primo comma comporta in ogni caso l’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori”.
Art. 6.
1. All’articolo 609-quater del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, il numero 2) è sostituito dal seguente:
“2) non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza”;
b) dopo il primo comma è inserito il seguente:
“Al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 609-bis, l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, o il tutore che, con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre a sei anni”.
Art. 7.
1. All’articolo 609-septies, quarto comma, del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al numero 1), la parola: “quattordici” è sostituita dalla seguente: “diciotto”;
b) il numero 2) è sostituito dal seguente:
“2) se il fatto è commesso dall’ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza”.
Art. 8.
1. All’articolo 609-nonies del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) alla linea, dopo le parole: “La condanna” sono inserite le seguenti: “o l’applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale”;
b) al numero 1), dopo le parole: “elemento costitutivo” sono inserite le seguenti: “o circostanza aggravante”;
c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
“La condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per alcuno dei delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-ter e 609-octies, se commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto, 609-quater e 609-quinquies, comporta in ogni caso l’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori”.
Art. 9.
1. All’articolo 734-bis del codice penale le parole: “600-ter, 600-quater” sono sostituite dalle seguenti: “600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1,”.
Art. 10.
1. All’articolo 25-quinquies, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) alla lettera b), dopo le parole: “600-ter, primo e secondo comma,” sono inserite le seguenti: “anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-qua-ter.1,”;
b) alla lettera e), dopo le parole: “e 600-quater,” sono inserite le seguenti: “anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1,”.
Art. 11.
1. All’articolo 444, comma 1-bis, del codice di procedura penale, dopo le parole: “di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater,” sono inserite le seguenti: “i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, primo e terzo comma, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater. 1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, nonché 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale,”.
Art. 12.
1. All’articolo 380, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, dopo le parole: “delitto di pornografia minorile previsto dall’articolo 600-ter, commi primo e secondo,” sono inserite le seguenti: “anche se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1,”.
2. All’articolo 381, comma 2, del codice di procedura penale, dopo la lettera l) è inserita la seguente:
“l-bis) offerta, cessione o detenzione di materiale pornografico previste dagli articoli 600-ter, quarto comma, e 600-quater del codice penale, anche se relative al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1 del medesimo codice;”.
Art. 13.
1. All’articolo 266, comma 1, lettera f-bis), del codice di procedura penale, dopo le parole: “del codice penale” sono aggiunte le seguenti: “, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1 del medesimo codice”.
Art. 14.
1. All’articolo 190-bis, comma 1-bis, del codice di procedura penale, dopo le parole: “600-ter, 600-quater,” sono inserite le seguenti: “anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater 1,”.
2. All’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale, dopo le parole: “600-ter,” sono inserite le seguenti: “anche se relativo al materiale pornografico di cui all’ articolo 600-quater. 1, “.
3. All’articolo 398, comma 5-bis, del codice di procedura penale, dopo le parole: “600-ter,” sono inserite le seguenti: “anche se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1,”.
Art. 15.
1. All’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, al comma 1, quarto periodo, dopo le parole: “articoli 575,” sono inserite le seguenti: “600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-octies,” e dopo le parole: “dagli articoli 609-bis,” sono inserite le seguenti: “609-ter,”.
Art. 16.
1. All’articolo 10, comma 1, del decreto-legge 31 dicembre 1991, n. 419, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172, e successive modificazioni, dopo le parole: “600-quater,” sono inserite le seguenti: “anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1,”.
2. All’articolo 9, comma 2, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni, dopo le parole: “600-quater” sono inserite le seguenti: “, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater. 1,”
3. Le disposizioni di cui all’articolo 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, si applicano anche quando i delitti di cui all’articolo 600-ter, commi primo, secondo e terzo, del codice penale, sono commessi in relazione al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1 del medesimo codice.
Art. 17.
1. Gli operatori turistici che organizzano viaggi collettivi o individuali in Paesi esteri hanno l’obbligo, a decorrere dalla data di cui al comma 2, di inserire in maniera evidente nei materiali propagandistici, nei programmi, nei documenti di viaggio consegnati agli utenti, nonché nei propri cataloghi generali o relativi a singole destinazioni, la seguente avvertenza: “Comunicazione obbligatoria ai sensi dell’articolo….. della legge n….. – La legge italiana punisce con la reclusione i reati concernenti la prostituzione e la pornografia minorile, anche se commessi all’estero”.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica con riferimento ai materiali illustrativi o pubblicitari o ai documenti utilizzati successivamente al novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge.
3. Gli operatori turistici che violano l’obbligo di cui al comma 1 sono puniti con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.500 a euro 6.000. All’irrogazione della sanzione provvede il Ministero delle attività produttive.
Art. 18.
1. All’articolo 17, comma 2, secondo periodo, della legge 3 agosto 1998, n. 269, dopo le parole: “600-ter, terzo comma, e 600-quater del codice penale,” sono inserite le seguenti: “anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1 dello stesso codice,”.
CAPO II
NORME CONTRO LA PEDOPORNOGRAFIA A MEZZO INTERNET
Art. 19.
1. Dopo l’articolo 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, sono inseriti i seguenti:
“Art. 14-bis. – (Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia sulla rete INTERNET)
1. Presso l’organo del Ministero dell’interno di cui al comma 2 dell’articolo 14, è istituito il Centro nazionale per il contrasto della pedopornografia sulla rete INTERNET, di seguito denominato “Centro”, con il compito di raccogliere tutte le segnalazioni, provenienti anche dagli organi di polizia stranieri e da soggetti pubblici e privati impegnati nella lotta alla pornografia minorile, riguardanti siti che diffondono materiale concernente l’utilizzo sessuale dei minori avvalendosi della rete INTERNET e di altre reti di comunicazione, nonché i gestori e gli eventuali beneficiari dei relativi pagamenti. Alle predette segnalazioni sono tenuti gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria. Ferme restando le iniziative e le determinazioni dell’autorità giudiziaria, in caso di riscontro positivo il sito segnalato, nonché i nominativi dei gestori e dei beneficiari dei relativi pagamenti, sono inseriti in un elenco costantemente aggiornato.
2. Il Centro si avvale delle risorse umane, strumentali e finanziarie esistenti. Dall’istituzione e dal funzionamento del Centro non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato.
3. Il Centro comunica alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità elementi informativi e dati statistici relativi alla pedopornografia sulla rete INTERNET, al fine della predisposizione del Piano nazionale di contrasto e prevenzione della pedofilia e della relazione annuale di cui all’articolo 17, comma 1.
Art. 14-ter. – (Obblighi per fornitori dei servizi della società dell’informazione resi attraverso reti di comunicazione elettronica)
1.I fornitori dei servizi resi attraverso reti di comunicazione elettronica sono obbligati, fermo restando quanto previsto da altre leggi o regolamenti di settore, a segnalare al Centro, qualora ne vengano a conoscenza, le imprese o i soggetti che, a qualunque titolo, diffondono, distribuiscono o fanno commercio, anche in via telematica, di materiale pedopornografico, nonché a comunicare senza indugio al Centro, che ne faccia richiesta, ogni informazione relativa ai contratti con tali imprese o soggetti.
2. I fornitori dei servizi per l’effetto della segnalazione di cui al comma 1 devono conservare il materiale oggetto della stessa per almeno quarantacinque giorni.
3. Salvo che il fatto costituisca reato, la violazione degli obblighi di cui al comma 1 comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000. All’irrogazione della sanzione provvede il Ministero delle comunicazioni.
4. Nel caso di violazione degli obblighi di cui al comma 1 non si applica il pagamento in misura ridotta di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Art. 14-quater. – (Utilizzo di strumenti tecnici per impedire l’accesso ai siti che diffondono materiale pedopornografico)
1.I fornitori di connettività alla rete INTERNET, al fine di impedire l’accesso ai siti segnalati dal Centro, sono obbligati ad utilizzare gli strumenti di filtraggio e le relative soluzioni tecnologiche conformi ai requisiti individuati con decreto del Ministro delle comunicazioni, di concerto con il Ministro per l’innovazione e le tecnologie e sentite le associazioni maggiormente rappresentative dei fornitori di connettività della rete INTERNET. Con il medesimo decreto viene altresì indicato il termine entro il quale i fornitori di connettività alla rete INTERNET devono dotarsi degli strumenti di filtraggio.
2. La violazione degli obblighi di cui al comma 1 è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000. All’irrogazione della sanzione provvede il Ministero delle comunicazioni.
3. Nel caso di violazione degli obblighi di cui al comma 1 non si applica il pagamento in misura ridotta di cui all’articolo 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Art. 15-quinquies. – (Misure finanziarie di contrasto alla commercializzazione di materiale pedopornografico).
1. Il Centro trasmette all’Ufficio italiano dei cambi (UIC), per la successiva comunicazione alle banche, agli istituti di moneta elettronica, a Poste italiane Spa e agli intermediari finanziari che prestano servizi di pagamento, le informazioni di cui all’articolo 14-bis relative ai soggetti beneficiari di pagamenti effettuati per la commercializzazione di materiale concernente l’utilizzo sessuale dei minori sulla rete INTERNET e sulle altre reti di comunicazione.
2. Le banche, gli istituti di moneta elettronica, Poste italiane Spa e gli intermediari finanziari che prestano servizi di pagamento comunicano all’UIC ogni informazione disponibile relativa a rapporti e ad operazioni riconducibili ai soggetti indicati ai sensi del comma 1.
3. Ai fini dell’applicazione del presente articolo e dell’articolo 14-bis l’UIC trasmette al Centro le informazioni acquisite ai sensi del comma 2.
4. Sono risolti di diritto i contratti stipulati dalle banche, dagli istituti di moneta elettronica, da Poste italiane Spa e dagli intermediari finanziari che prestano servizi di pagamento con i soggetti indicati ai sensi del comma 1, relativi all’accettazione, da parte di questi ultimi, di carte di pagamento.
5. Il Centro trasmette eventuali informazioni relative al titolare della carta di pagamento che ne abbia fatto utilizzo per l’acquisto di materiale concernente l’utilizzo sessuale dei minori sulla rete INTERNET o su altre reti di comunicazione, alla banca, all’istituto di moneta elettronica, a Poste italiane Spa e all’intermediario finanziario emittente la carta medesima, i quali possono chiedere informazioni ai titolari e revocare l’autorizzazione all’utilizzo della carta al rispettivo titolare.
6. Le banche, gli istituti di moneta elettronica, Poste italiane Spa e gli intermediari finanziari che prestano servizi di pagamento, in conformità con le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia, segnalano i casi di revoca di cui al comma 5 nell’ambito delle segnalazioni previste per le carte di pagamento revocate ai sensi dell’articolo 10-bis della legge 15 dicembre 1990, n. 386.
7. Le banche, gli istituti di moneta elettronica, Poste italiane Spa e gli intermediari finanziari che prestano servizi di pagamento comunicano all’UIC l’applicazione dei divieti, i casi di risoluzione di cui al comma 4 e ogni altra informazione disponibile relativa a rapporti e ad operazioni riconducibili ai soggetti indicati ai sensi del comma 1. L’UIC trasmette le informazioni così acquisite al Centro.
8. Con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dai Ministri dell’interno, della giustizia, dell’economia e delle finanze, delle comunicazioni, per le pari opportunità e per l’innovazione e le tecnologie, di intesa con la Banca d’Italia e l’UIC, sentito l’Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali, sono definite le procedure e le modalità da applicare per la trasmissione riservata, mediante strumenti informatici e telematici, delle informazioni previste dal presente articolo.
9. La Banca d’Italia e l’UIC verificano l’osservanza delle disposizioni di cui al presente articolo e al regolamento previsto dal comma 8 da parte delle banche, degli istituti di moneta elettronica, di Poste italiane Spa e degli intermediari finanziari che prestano servizi di pagamento. In caso di violazione, ai responsabili è applicata una sanzione amministrativa pecuniaria fino a euro 500.000. All’irrogazione della sanzione provvede la Banca d’Italia nei casi concernenti uso della moneta elettronica, ovvero il Ministro dell’economia e delle finanze, su segnalazione della Banca d’Italia o dell’UIC, negli altri casi. Si applica, in quanto compatibile, la procedura prevista dall’articolo 145 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni.
10. Le somme derivanti dall’applicazione delle sanzioni di cui al comma 9 sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate al fondo di cui all’articolo 17, comma 2, e sono destinate al finanziamento delle iniziative per il contrasto della pedopornografia sulla rete INTERNET”.
2. Il decreto di cui all’articolo 14-quater, comma 1, della legge 3 agosto 1998, n. 269, introdotto dal comma 1 del presente articolo, è adottato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
3. Il regolamento di cui all’articolo 14-quinquies, comma 8, della legge 3 agosto 1998, n. 269, introdotto dal comma 1 del presente articolo, è adottato entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Art. 20.
1. All’articolo 17 della legge 3 agosto 1998, n. 269, dopo il comma 1 è inserito il seguente:
“1-bis. E istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità l’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile con il compito di acquisire e monitorare i dati e le informazioni relativi alle attività, svolte da tutte le pubbliche amministrazioni, per la prevenzione e la repressione della pedofilia. A tale fine è autorizzata l’istituzione presso l’Osservatorio di una banca dati per raccogliere, con l’apporto dei dati forniti dalle amministrazioni, tutte le informazioni utili per il monitoraggio del fenomeno. Con decreto del Ministro per le pari opportunità sono definite la composizione e le modalità di funzionamento dell’Osservatorio nonché le modalità di attuazione e di organizzazione della banca dati, anche per quanto attiene all’adozione dei dispositivi necessari per la sicurezza e la riservatezza dei dati. Resta ferma la disciplina delle assunzioni di cui ai commi da 95 a 103 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311. Per l’istituzione e l’avvio delle attività dell’Osservatorio e della banca dati di cui al presente comma è autorizzata la spesa di 1.500.000 euro per l’anno 2006 e di 750.000 euro per ciascuno degli anni 2007 e 2008. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, come rideterminata dalla tabella C allegata alla legge 23 dicembre 2005, n. 266. A decorrere dall’anno 2009, si provvede ai sensi dell’articolo 11-ter, comma 1, lettera d), della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio”.
2. Il decreto di cui all’articolo 17, comma 1-bis, della legge 3 agosto 1998, n. 269, introdotto dal comma 1 del presente articolo, è adottato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Disconoscimento di paternità del bambino nato da fecondazione artificiale eterologa con il consenso del marito.
Cassazione – Sezione I Civile sent. n. 2315/99 – Presidente A. Rocchi – Relatore G. Graziadei )
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L. A., con citazione del 13 febbraio 1986, ha chiesto al Tribunale di Cremona pronuncia di disconoscimento della sua qualità di padre del minore M., nato il 13 novembre 1985 dalla moglie L. P, in costanza di matrimonio contratto con rito concordatario il 10 agosto 1980; ha dedotto che il concepimento del bambino non era ascrivibile a lui stesso, affetto da impotenza di generare, ma era stato provocato da inseminazione artificiale, cui si era sottoposta la moglie con seme di donatore sconosciuto.
Si è opposta a tale pretesa la P,, sostenendo che l’azione trovava ostacolo nel consenso prestato dal marito a detta inseminazione, e comunque nel decorso di oltre un anno da quando il relativo intervento era stato praticato alla presenza del marito stesso; in via subordinata, nell’eventualità dell’accoglimento della domanda, ha chiesto che l’A. venisse condannato al ristoro dei danni morali e materiali arrecati con la sua incoerente condotta
L’avv. G. Bigodini, nominato curatore speciale del minore, ha fatto proprie le posizioni difensive della P,, e, in caso di pronuncia di disconoscimento, ha chiesto che si affermasse il diritto del minore medesimo di conoscere l’identità del donatore del seme.
Alla causa è stata riunito il giudizio promosso dalla P,, dinanzi allo stesso Tribunale, con citazione del 22 febbraio 1986, al fine di ottenere declaratoria di nullità del matrimonio, per vizio del consenso rappresentato da errore sulle qualità personali dell’A..
Il Tribunale, con sentenza resa nel febbraio 1994, ha accolto tanto la domanda di disconoscimento di paternità, ritenendola tempestiva e fondata sulla scorta delle previsioni dell’art. 235 primo comma n. 2 cod. civ., quanto la domanda di nullità del matrimonio; ha inoltre respinto la pretesa risarcitoria della P, e dichiarato inammissibile l’ulteriore istanza del Curatore.
La Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 10 maggio/14 giugno 1995, ha condiviso le statuizioni del Tribunale.
A confutazione dei motivi di gravame formulati dalla P,, la Corte di Brescia ha fra l’altro osservato:
– che la disciplina dell’inseminazione artificiale eterologa va desunta dai principi della filiazione, non da quelli dell’adozione, integrando un atto procreativo in senso proprio, ancorché disancorato da affettivo e fisiologico rapporto fra uomo e donna;
– che la concertata decisione dei coniugi di ricorrere a tale pratica medico-chirurgica, per avere un figlio avvalendosi del seme messo a disposizione da un donatore anonimo, non è assimilabile all’accordo diretto ad adottare un minore in stato d’abbandono, né quindi giustifica l’utilizzazione delle regole proprie dell’adozione cosiddetta legittimante;
– che la facoltà del marito, in condizione d’impotenza, di disconoscere come figlio il bambino generato dalla moglie con detto apporto esterno discende dalla puntuale riconducibilità della vicenda nelle disposizioni dell’art. 235 primo comma n. 2 cod. civ., che sono al riguardo rimaste ferme dopo la riformulazione introdotta dall’art. 93 della legge 19 maggio 1975 n. 151, e che rispondono ad un’esigenza di prevalenza del favor veritatis sul favor legitimitatis;
– che il consenso del marito alla fecondazione artificiale della moglie (nella specie prestato) non costituisce fatto impeditivo del successivo disconoscimento, dato che sono indisponibili le azioni attinenti allo stato della persona, e che dunque il diritto di chiedere il disconoscimento stesso (del resto spettante anche alla madre ed al figlio) non può venir meno in relazione a pregressi comportamenti di tipo abdicativo;
– che il dovere del marito di tenere contegni coerenti, le irreversibili conseguenze prodotte dal suo iniziale assenso e l’irrinunciabile collegamento dell’atto procreativo con la responsabilità di entrambi i coniugi non erano valorizzabili, come invece sostenuto dalla P, e dal Pubblico ministero, per intaccare il criterio dell’indisponibilità delle azioni inerenti allo status della persona, mancando in proposito un aggancio nella vigente nominativa, e così restavano sul piano di apprezzamenti morali, non decisivi, pure se diffusi e comuni anche all’etica laica;
– che l’attribuzione a1 marito del diritto di disconoscere come figlio il nato per inseminazione eterologa non implica dubbi sulla legittimità costituzionale del predetto art. 235 cod. civ., né sotto l’aspetto dell’asserita violazione dell’uguaglianza dei coniugi, alla luce dell’abilitazione di entrambi al disconoscimento stesso, né sotto il profilo dell’addotta disparità di trattamento del frutto dell’inseminazione rispetto al figlio concepito dalla moglie con adulterio, in ragione dell’oggettiva diversità delle relative situazioni;
– che l’affermazione del Tribunale sulla tempestività dell’azione, essendo basata sul duplice rilievo della computabilità del termine annuale di cui all’art. 244 cod. Civ. a far tempo dalla nascita e della sua osservanza nel caso concreto anche in ipotesi di decorso dal giorno dell’inseminazione, non era stata efficacemente inespugnata dalla P,, il cui gravame aveva contestato solo la prima di dette autonome rationes decidendi;
– che la non qualificabilità come comportamento illecito della revoca da parte dell’A. del consenso originariamente prestato all’inseminazione assistita di per sé elideva i presupposti della domanda di risarcimento del danno;
– che il quesito dell’idoneità dell’iniziale consenso del marito a determinare il suo dovere di concorrente nel mantenimento del minore non era esaminabile, per la novità in appello, tenendosi conto che le richieste patrimoniali a carico dell’A. erano state basate in primo grado solo sulla deduzione di fatto illecito.
La P,, con ricorso notificato il 20 novembre 1995, ed il Curatore del minore, con ricorso notificato il 23 dicembre 1995, hanno chiesto la cassazione della sentenza d’appello, formulando quattro censure di contenuto sostanzialmente analogo.
L’A. ha replicato al ricorso della moglie con controricorso.
Con riferimento all’udienza di discussione fissata per il 18 settembre 1997 entrambi i coniugi hanno presentato memorie illustrative.
In detta data la decisione sui ricorsi è stata rinviata, per l’opportunità di attendere l’esito del giudizio incidentale sulla legittimità costituzionale dell’art. 235 cod. civ., nella parte in cui accorda l’azione di disconoscimento della paternità al marito che affetto da impotenza abbia dato il proprio consenso all’inseminazione eterologa della moglie; giudizio promosso dal Tribunale di Napoli (con ordinanza del 14 marzo 1997) per prospettato contrasto con gli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 347 del 26 settembre 1998, ha dichiarato inammissibile l’indicata questione.
Per la pronuncia sui ricorsi è stata quindi fissata l’odierna udienza.
La P, e l’A. hanno depositato ulteriori memorie difensive.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ..
Con i primi tre motivi di entrambi i ricorsi s’insiste nell’affermare che il consenso prestato dal marito, in condizione di impotentia generandi, per la “filiazione biochimica da datore sconosciuto”, non è revocabile, quantomeno a seguito del concepimento della moglie, e costituisce ostacolo al disconoscimento.
A sostegno di tale assunto si torna a considerare che l’art. 235 cod. civ., dettato per tutelare il marito a fronte di nascita ascrivibile alla relazione sessuale della moglie con un terzo, non può trovare applicazione nell’inseminazione artificiale, voluta e realizzata di comune accordo, trattandosi di una scelta non vietata, consentita dall’evoluzione della scienza accettabile anche moralmente, ed idonea alla costituzione di un cosciente rapporto di “filiazione civile”, cui deve conferirsi cittadinanza e dignità pari a quello di filiazione naturale.
L ‘inapplicabilità della citata norma, ad avviso dei ricorrenti, esige il riferimento in via analogica alle regole dell’adozione, le quali non ammettono che i coniugi istanti, dopo il provvedimento giudiziale che disponga l’adozione medesima, rivedano o mutino il proposito in precedenza espresso.
La diversa soluzione seguita dalla Corte di Brescia non sottrarrebbe l’art. 235 cod. civ. a sospetti d’illegittimità costituzionale, per l’arbitraria disparità di trattamento che si verificherebbe fra il figlio adulterino ed il figlio artificialmente concepito, con la condanna esclusivamente del secondo all’impossibilità di accertare il padre naturale (dopo la perdita del padre “presunto”), nonché fra i due coniugi, dato che soltanto la moglie rimarrebbe irretrattabilmente vincolata agli effetti di quanto in precedenza concordato con il marito, non potendo dismettere il proprio ruolo di madre.
Il quarto motivo, di natura subordinata, è inerente ai riflessi economici del disconoscimento, ove consentito.
La tesi sviluppata in via principale dalla P, e dal Curatore è fondata, sulla scorta e nei limiti delle osservazioni appresso svolte.
La Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 347 del 26 settembre 1998, ha dichiarato inammissibile, perché irrilevante, la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, affermando che la norma denunciata, in quanto “riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto adulterino”, non disciplina quella sostanzialmente diversa del figlio nato da fecondazione assistita.
Tale enunciato è da condividersi, nel senso di negare che la normativa del disconoscimento di paternità ex art. 235 cod. civ. sia direttamente riferibile al caso d’inseminazione artificiale oggetto della controversia.
Detto art. 235, nel testo iniziale, è stato approvato in un’epoca in cui il fatto procreativo esigeva indefettibilmente il rapporto carnale fra uomo e donna, e, quindi, se si verificava nel corso del vincolo coniugale, ma senza la partecipazione del marito, era necessariamente imputabile all’adulterio della moglie, con violazione del dovere di fedeltà.
L’elencazione, in quell’originario testo, dei tassativi casi di attribuzione al marito dell’azione di disconoscimento si appalesa del tutto in linea con la situazione del tempo della formulazione della norma codicistica, sia quando si contemplano ipotesi di consistente sospetto di concepimento del figlio per comportamenti infedeli della moglie (con l’ammissione del marito ad ampia dimostrazione negativa della paternità), quali l’adulterio e l’occultamento della gravidanza e della nascita, sia quando si contemplano ipotesi di presuntiva riferibilità del concepimento medesimo a relazione extraconiugale, quali il difetto di coabitazione e la impotentia generandi o coeundi del marito.
Alla data della rifonda del diritto di famiglia, di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151, era già stata “scoperta” ed era in atto la fecondazione dell’ovulo della donna in forma assistita, senza rapporto sessuale, con intervento chirurgico costituito dall’introduzione di seme maschile, nella duplice forma dell’inseminazione omologa od eterologa, a seconda che ci si avvalga dello sperma del marito o di un terzo donatore.
Nonostante la diffusione nuova pratica, prevalentemente utilizzata al fine di assicurare un figlio alla coppia sterile per impotenza del marito, nonostante il vivace dibattito insorto sulla liceità di essa (anche sotto l’aspetto morale), e le sollecitazioni emerse nel corso dei lavori parlamentari (fra l’altro, con la proposta governativa di negare il disconoscimento della paternità al marito consenziente), l’art. 93 della legge del 1975, nel riscrivere l’art. 235 cod. civ., non è andato oltre una revisione terminologica ed un’opportuna unificazione delle ipotesi in cui sia mancata la coabitazione dei coniugi, mentre ha nella sostanza mantenuto ferma detta elencazione tassativa, continuando in particolare ad autorizzare il disconoscimento per impotenza del marito in entrambe le manifestazioni dell’impotenza stessa dinanzi ricordate.
In questa riformulazione “conservativa” non può essere colto l’intento del legislatore di non occuparsi esplicitamente della fecondazione artificiale (così evitando di prendere posizione sul dibattito in corso) nel presupposto dell’applicabilità ad essa de plano delle disposizioni sul disconoscimento della paternità.
A tale risultato ermeneutico è d’impedimento la circostanza che l’inseminazione artificiale non è adulterio della moglie, esprimendo anzi un progetto di maternità basato proprio sul rifiuto di ricorrere all’infedeltà coniugale per procreare; può trovare movente nell’incapacità del marito, ma non necessariamente si correla alla stessa, essendo riferibile anche a ragioni diverse, quali l’età o le condizioni di salute del marito medesimo, con i connessi rischi di trasmissioni genetiche sfavorevoli.
Peraltro, la tesi dell’implicita inclusione della fecondazione assistita nel caso dell’impotenza del marito è contrastata dal rilievo che la norma a quest’ultima inerente, cioè il n. 2 del primo comma dell’art. 235 cod. civ., comprende anche la sola impotenza al coito; la tesi medesima, in carenza di una disciplina che differenzi le due ipotesi d’inseminazione, approderebbe all’aberrante risultato, sicuramente non in linea con lo spirito della riforma del 1975, di permettere il disconoscimento pure del figlio nato con il seme del marito affetto da detto tipo d’impotenza (inseminazione omologa), e quindi di negare la condizione di figlio legittimo proprio a chi sia per scientifica certezza fiotto della coppia.
Acclaratosi che l’inseminazione, globalmente intesa, non rientra in via immediata e diretta nelle previsioni dell’art. 235 nuovo testo cod. civ., e così esclusosi che il silenzio della riforma del 1975 sia fondato sulla sottintesa premessa dell’attitudine di quelle previsioni a · disciplinare in modo completo il sopravvenuto ritrovato della medicina, resta da vedere se la fecondazione assistita di tipo eterologo, che usufruisce del seme altrui e che è caratterizzata da censura (con pari rigore scientifico) della non imputabilità del concepimento al marito, possa ricadere, ove effettuata (come pacificamente nella specie) con il preventivo, libero e valido consenso del marito, nell’ambito del disconoscimento per impotenza, sulla scorta di un’interpretazione estensiva o di un’applicazione analogica di detto n. 2 del primo comma dell’art. 235 cod civ. oltre i casi espressamente regolati.
Tale interpretazione od applicazione, come puntualmente avvertito dalla Corte Costituzionale con la menzionata sentenza del 1998, postula per non tradursi in un’arbitraria supplenza in compiti riservati al legislatore, la “omogeneità di elementi essenziali e la identità di ratio”.
Detti presupposti, salvo il quesito della loro eventuale individuabilità rispetto all’inseminazione eterologa che la moglie abbia praticato all’insaputa del marito, o contro la sua volontà, o con un suo consenso invalido (problematica estranea al tema della causa), non sono ravvisabili quando l’inseminazione stessa sia stata concordata dai coniugi con decisioni convergenti e consapevoli.
A questa affermazione inducono la natura dell’azione di disconoscimento, la consistenza degli interessi alla cui protezione essa è rivolta, i precetti degli artt. 2, 30 e 31 della Costituzione, ed i canoni generali dell’ordinamento sul dovere di lealtà nei rapporti intersoggettivi.
Sotto il primo di detti profili, va osservato che la domanda di disconoscimento, indirizzata a privare il figlio concepito durante i1 matrimonio della presuntiva condizione di frutto legittimo di entrambi i coniugi, per il tramite della dimostrazione di specifici fatti idonei ad evidenziarne la non rispondenza a realtà, integra azione di accertamento di tipo costitutivo, in quanto configura esercizio del diritto potestativo di ottenere dal giudice una pronuncia che modifichi la situazione giuridica in atto, rimuovendo con effetti retroattivi uno status che sussiste e persiste fino a che la domanda stessa non sia proposta ed accolta.
L’azione di accertamento costitutivo, in assenza di una diversa (ed eccezionale) previsione, non può spettare proprio al soggetto che abbia posto in essere o concorso a porre in essere, con atti o comportamenti non vietati dalla legge, la situazione giuridica per la cui modificazione è apprestata.
Il principio è espressione del criterio generale secondo cui l’azione è strumento di tutela di posizioni soggettive (art. 24 della Costituzione), cioè mezzo per reagire contro un’aggressione in corso o potenziale da altri commessa o minacciata; l’azione medesima, ove fosse attribuita per rimuovere o modificare giudizialmente un rapporto, al soggetto che lo ha liberamente determinato, si tradurrebbe in un’iniziativa contro lo stesso titolare, non conosciuta dall’ordinamento, e comunque estranea al diritto di difesa, quando non venga in discussione la validità dell’atto volitivo.
La regola trova numerose esplicitazioni nel campo dei rapporti patrimoniali (basta ricordare le disposizioni degli artt. 1441, 1447 e 1453 cod. civ. in tema di annullamento, rescissione o risoluzione del contratto), ma deve considerarsi immanente anche nel settore dei diritti personali ed indisponibili, potendosi chiedere al giudice l’accertamento dell’esistenza dei diritti stessi e la rimozione degli effetti di atti di disposizione viziati, non il mutamento dell’assetto in precedenza provocato con atti o comportamenti permessi dall’ordinamento.
L’indisponibilità dei diritti inerenti alla persona, in altre parole, rende insensibili le azioni previste a loro tutela a fronte di scelte abdicative non consentite, non di scelte legittime, di contenuto tale da elidere i presupposti e le basi logiche dell’insorgenza delle azioni stesse.
In relazione al secondo profilo, quello riguardante gli interessi protetti, va rilevato che l’azione di disconoscimento della paternità compete al marito, alla madre ed al figlio, cioè ai tre protagonisti della vicenda procreativa ricadente nella presunzione di legittimità ancorata al dato temporale del concepimento durante il matrimonio; non spetta a terzi, e nemmeno al pubblico ministero.
Tale ristretto ambito di titolarità dell’azione, coordinato con la tassatività dei casi in cui è esercitabile e con i brevi termini di decadenza all’uopo stabiliti (art. 244 cod. civ.), indica che la preferenza e prevalenza della realtà sulla presunzione non sono incondizionate, non rispondono ad un’esigenza pubblicistica, ma mirano a difendere esclusivamente le posizioni di quei soggetti, ai quali soltanto è demandata la valutazione comparativa delle due situazioni in conflitto e la decisione di optare per l’una o l’altra, facendo emergere la verità, ovvero mantenendo la fictio iuris della paternità presunta.
Il marito, concordando ed attuando con la moglie la fecondazione eterologa, effettua e consuma detta valutazione e detta opzione.
Un successivo ripensamento, a prescindere da apprezzamenti di ordine etico, difetta della ratio su cui si fonda l’azione di disconoscimento, purché rinnega una scelta già espressa con l’assunzione di una paternità presunta nonostante la piena contezza della sua non rispondenza alla paternità biologica.
Detto ripensamento, del resto, ove ammissibile, sfuggirebbe a limitazioni, e dunque tradirebbe le finalità per le quali il disconoscimento è contemplato, perché assegnerebbe al marito un quid pluris rispetto all’alternativa sopra evidenziata, vale a dire l’anomala licenza di rivedere la propria anteriore decisione, anche se siano rimasti fermi tutti i dati a suo tempo noti ed apprezzati, ovvero siano sopravvenute circostanze non certo meritevoli di tutela in pregiudizio del bambino già nato (quali il dissidio con il coniuge, il superamento dell’impotenza, o l’insoddisfazione per il frutto dell ‘inseminazione).
Se il parametro della predominanza del favor veritatis dovesse avere forza tale da permettere al marito un contegno “ondivago”, con l’esercizio dell’azione di disconoscimento anche dopo una meditata (e probabilmente sofferta) decisione di aderire all’intento della moglie di praticare la fecondazione assistita, si dovrebbe pervenire, in via generale, ad ammettere la rivedibilità di ogni scelta, solo perché divergente dalla realtà, consentendo ad esempio pure la possibilità del marito, vittorioso nel giudizio di disconoscimento, di rivendicare successivamente la qualità di padre del minore in precedenza disconosciuto, deducendo e dimostrando fatti contrari a quelli anteriormente allegati; l’illogicità di tale risultato conferma che l’azione di disconoscimento non può competere solo perché vi sia una verità difforme dalla presunzione legale, richiedendosi la concorrente presenza delle specifiche circostanze fattuali delineate dall’art. 235 cod. civ. e delle esigenze e finalità in funzione delle quali le circostanze stesse si appalesano giustificative della rimozione dello status determinato da quella presunzione.
Il ‘`bene-verità, quindi, in tema di disconoscimento, ha una priorità non assoluta, ma relativa, in quanto può prevalere per effetto di una valutazione preferenziale effettuata dagli interessati, dovendo invece definitivamente cedere il passo al “bene-presunzione” dopo un’opzione di segno opposto (situazione del resto contemplata nella “vicina” materia del riconoscimento del figlio naturale ai sensi dell’art. 250 cod. civ.).
Le citate disposizioni costituzionali eliminano poi, in senso negativo, ogni residuo dubbio sulla possibilità di estendere od applicare in via analogica l’art. 235 cod. civ. alla fattispecie in esame.
Tali disposizioni, attinenti alla protezione dei diritti inviolabili della persona, ed in particolare del minore, nella società e nel nucleo familiare in cui si trovi collocato per scelta altrui, sono le linee guida che devono orientare, come considerato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 347 del 1998, non solo il legislatore ordinario, ove colmi la lacuna attualmente esistente nell’ordinamento in materia di fecondazione assistita, ma anche l’interprete, in sede di “ricerca nel complessivo sistema normativo dell’esegesi idonea ad assicurare il rispetto della dignità della persona umana”.
L’attribuzione dell’azione di disconoscimento al marito, anche quando abbia a suo tempo prestato assenso alla fecondazione artificiale della moglie con seme altrui, priverebbe il bambino, nato anche per effetto di tale assenso, di una delle due figure genitoriali, e del connesso apporto affettivo ed assistenziale, trasformandolo per atto del giudice in “figlio di nessun padre”, stante l’insuperabile impossibilità di ricercare ed accertare la reale paternità a fronte del programmato impiego di seme di provenienza ignota.
La nascita di tale figlio senza padre può essere subita dall’ordinamento, ove discenda da vicende di vita non controllabili e non più emendabili.
La norma che permettesse detta condizione, per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato o concorso a determinare la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, eluderebbe i menzionati cardini dell’assetto costituzionale ed il principio di solidarietà cui gli stessi rispondono.
Il frutto dell’inseminazione, infatti, verrebbe a perdere il diritto di essere assistito, mantenuto e curato, da parte di chi si sia liberamente e coscientemente obbligato ad accoglierlo quale padre “di diritto”, in ossequio ad un parametro di prevalenza del favor veritatis, che è privo, come si è detto, di valore assoluto, e non può comunque compromettere posizioni dotate di tutela prioritaria.
Il sacrificio del favor veritatis, a fronte di libere determinazioni dell’adulto che incidano sullo status del minore, è del resto regola portante dell’adozione legittimante, ove la decisione degli adottanti di acquisire una veste genitoriale “legale”, non coincidente con la maternità e la paternità effettive, è irrevocabile; la diversità del relativo istituto, esattamente sottolineata dalla Corte di Brescia, non preclude di cogliere nella disciplina dell’adozione la conferma della presenza nell’ordinamento di un canone d’irreversibilità degli effetti degli atti determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti (con volontà non affetta da vizi).
Infine, va considerato che buona fede, correttezza e lealtà nei rapporti giuridici rispondono a doveri generali, non circoscritti agli atti o contratti per i quali sono richiamate da specifiche disposizioni di legge, questi doveri, nella particolare materia dei rapporti di famiglia, assumono il significato della solidarietà e del reciproco affidamento.
L’ammissione del disconoscimento della paternità, rispetto al frutto dell’inseminazione artificiale eterologa voluta da entrambi i coniugi entrerebbe in evidente conflitto con quei doveri, e comunque porterebbe a ravvisare nell’art. 235 cod. civ. una plateale deroga, perché, come si è rilevato, determinerebbe l’esperibilità della relativa azione indipendentemente dalla ragione del ripensamento, e quindi anche per motivi pretestuosi e non degni di tutela.
Conclusivamente, si deve affermare che il marito, dopo aver validamente concordato o comunque manifestato il sproprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto, non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale inseminazione.
Il principio impone, con l’accoglimento dei ricorsi nella tesi con essi sviluppata in via principale, e con l’assorbimento delle deduzioni subordinate attinenti alla protezione economica del minore (ove disconoscibile come figlio), l’annullamento della pronuncia impugnata, ed anche una conforme statuizione nel merito, ai sensi dell’art. 384 primo comma (nuovo testo) cod. proc. civ., non occorrendo indagini su fatti ulteriori rispetto a quelli accertati nelle precorse fasi processuali.
La natura, la novità e la complessità della problematica affrontata rendono equa la totale compensazione fra le parti delle spese dell’intero giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi proposti da Laura P, e dall’avv. G. B. in qualità di curatore speciale del minore M. A.; li accoglie, per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata, e, pronunciando nel merito, respinge la domanda di disconoscimento avanzata da L. A.; compensa le spese dell’intero giudizio.
Decreto federale sulla riforma giudiziaria – 8 ottobre 1999
L’Assemblea federale della Confederazione Svizzera,
visto il messaggio del Consiglio federale del 20 novembre 19961,
decreta:
I
La Costituzione federale del 18 aprile 19992 è modificata come segue:
Art. 29a Garanzia della via giudiziaria
Nelle controversie giuridiche ognuno ha diritto al giudizio da parte di un’autorità giudiziaria. In casi eccezionali, la Confederazione e i Cantoni possono escludere per legge la via giudiziaria.
Art. 122 Diritto civile
1 La legislazione nel campo del diritto civile e della procedura civile compete alla
Confederazione.
2 L’organizzazione dei tribunali e l’amministrazione della giustizia in materia civile competono ai Cantoni, salvo diversa disposizione della legge.
Art. 123 Diritto penale
1 La legislazione nel campo del diritto penale e della procedura penale compete alla Confederazione.
2 L’organizzazione dei tribunali e l’amministrazione della giustizia in materia pena- le, nonché l’esecuzione delle pene e delle misure competono ai Cantoni, salvo diver- sa disposizione della legge.
II
Il capitolo 4 del titolo quinto della Costituzione federale del 18 aprile 19993 è so- stituito dalle disposizioni seguenti:
Capitolo 4: Tribunale federale e altre autorità giudiziarie
Art. 188 Statuto del Tribunale federale
1 Il Tribunale federale è l’autorità giudiziaria suprema della Confederazione. 2 La legge ne stabilisce l’organizzazione e la procedura.
3 Il Tribunale federale gode di autonomia amministrativa.
Art. 189 Competenze del Tribunale federale
1 Il Tribunale federale giudica le controversie per violazione:
a. del diritto federale;
b. del diritto internazionale;
c. del diritto intercantonale;
d. dei diritti costituzionali cantonali;
e. dell’autonomia comunale e di altre garanzie che i Cantoni conferiscono ad altri enti di diritto pubblico;
f. delle disposizioni federali e cantonali sui diritti politici.
2 Il Tribunale federale giudica inoltre le controversie tra la Confederazione e i Can- toni e quelle tra Cantoni.
3 La legge può conferire altre competenze al Tribunale federale.
4 Gli atti dell’Assemblea federale e del Consiglio federale non possono essere impu- gnati presso il Tribunale federale. Le eccezioni sono stabilite dalla legge.
Art. 190 Diritto determinante
Le leggi federali e il diritto internazionale sono determinanti per il Tribunale fede-
rale e per le altre autorità incaricate dell’applicazione del diritto.
Art. 191 Possibilità di adire il Tribunale federale
1 La legge garantisce la possibilità di adire il Tribunale federale.
2 Può prevedere un valore litigioso minimo per le controversie che non concernono una questione giuridica d’importanza fondamentale.
3 In determinati settori speciali, la legge può escludere la possibilità di adire il Tri- bunale federale.
4 La legge può prevedere una procedura semplificata per ricorsi manifestamente in- fondati.
Art. 191a Altre autorità giudiziarie della Confederazione
1 La Confederazione istituisce una Corte penale; la Corte giudica in prima istanza le cause penali che la legge attribuisce alla giurisdizione federale. La legge può confe- rirle altre competenze.
2 La Confederazione istituisce autorità giudiziarie per giudicare le controversie di diritto pubblico inerenti alla sfera di competenze dell’amministrazione federale.
3 La legge può prevedere altre autorità giudiziarie della Confederazione.
Art. 191b Autorità giudiziarie dei Cantoni
1 I Cantoni istituiscono autorità giudiziarie per giudicare le controversie di diritto
civile e di diritto pubblico nonché le cause penali.
2 Possono istituire autorità giudiziarie intercantonali.
Art. 191c Indipendenza del giudice
Nella loro attività giurisdizionale le autorità giudiziarie sono indipendenti e sotto-
stanno al solo diritto.
III
1 Il presente decreto sottostà al voto del Popolo e dei Cantoni. 2 L’Assemblea federale ne determina l’entrata in vigore.
Consiglio nazionale, 8 ottobre 1999
La presidente: Heberlein Il segretario: Anliker
Consiglio degli Stati, 8 ottobre 1999
Il presidente: Rhinow Il segretario: Lanz
Esito della votazione popolare ed entrata in vigore
1 La presente legge è stata accettata dal popolo il 12 marzo 2000.
2 Gli articoli 123 e 191a capoverso 1 entrano in vigore il 1° aprile 2003. L’entrata in vigore delle altre disposizioni sarà stabilita ulteriormente.
24 settembre 2002 Assemblea federale
Il Referendum in Svizzera
Il referendum permette al Popolo di esprimersi sulle decisioni del Parlamento.
La legge distingue tra referendum facoltativo e referendum obbligatorio.
Referendum facoltativo
Su domanda di 50’000 aventi diritto di voto o di 8 Cantoni sono sottoposti al voto del Popolo i seguenti atti legislativi:
> leggi federali;
> leggi federali dichiarate urgenti e con durata di validità superiore a un anno;
> decreti federali, per quanto previsto dalla Costituzione o dalla legge;
> trattati internazionali di durata indeterminata e indenunciabili, prevedenti l’adesione a un’organizzazione internazionale o implicanti un’unificazione multilaterale del diritto.
La raccolta delle firme deve avvenire entro 100 giorni a decorrere dalla pubblicazione nel Foglio federale.
Referendum obbligatorio
Sottostanno obbligatoriamente al voto del Popolo e dei Cantoni:
> le modifiche della Costituzione federale;
> l’adesione a organizzazioni di sicurezza collettiva o a comunità sopranazionali;
> le leggi federali dichiarate urgenti, prive di base costituzionale e con una durata di validità superiore a un anno; tali leggi devono essere sottoposte a votazione popolare entro un anno dalla loro adozione da parte dell’Assemblea federale.
Sottostanno obbligatoriamente al voto del Popolo (la maggioranza dei Cantoni non è necessaria):
> le iniziative popolari per la revisione totale della Costituzione federale;
> le iniziative popolari per la revisione parziale della Costituzione federale presentate in forma di proposta generica e respinte dall’Assemblea federale;
> il principio di una revisione totale della Costituzione federale in caso di disaccordo fra le due Camere.
tratto da Sito del Parlamento federale