Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 3 dicembre 2002, n. 17152
La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per insidia stradale non è esclusa dal comportamento colposo del danneggiato
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 6.12.1990, De Carli Antonio conveniva davanti al tribunale di Sondrio Da Prada Silvio, il comune di Mazzo di Valtellina e Pozzi Enrico, per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni, assumendo che il 6.9.1987, mentre percorreva con la sua auto la strada Grosotto-Mazzo, si era trovato improvvisamente la strada interamente ostruita da una barriera di sacchi di sabbia, contro cui, nonostante la frenata, si era schiantato.
Il Tribunale di Sondrio, con sentenza depositata il 6.7.1998, accertato il concorso di colpa dell’attore nella misura del 50%, condannava i convenuti in solido al risarcimento dei danni nella misura del 50% della somma di 67.764.850, oltre rivalutazione ed interessi.
Proponevano appello i convenuti.
La Corte di appello di Milano, con sentenza depositata il 21.11.2000, rigettava la domanda nei confronti del Da Prada e confermava nel resto la sentenza impugnata.
Riteneva la corte di merito che andava affermata la responsabilità del comune e del sindaco Pozzi, poiché la barriera di sacchi ostruiva tutta la strada e non era segnalata.
La corte riteneva che era accertata la rimozione di altra barriera posta all’imbocco della strada, in modo da renderla transitabile; che la barriera di sacchi costituiva un’insidia poiché era imprevedibile e non facilmente avvistabile su una strada a scorrimento veloce; che, poiché la barriera era apposta all’uscita di una curva, era difficile stabilire a quale distanza essa fosse avvistabile, tenuto conto che per il colore dei sacchi la barriera si mimetizzava con l’ambiente, anche se la distanza teorica era a circa 100/130 metri.
Inoltre riteneva la corte che la responsabilità del comune derivava anche dalla violazione del disposto dell’articolo 8 del codice della strada all’epoca vigente, che prevedeva l’apposizione di segnalazioni per eventuali ostacoli sulla strada.
Secondo la corte sussisteva il concorso di colpa del danneggiato, poiché egli procedeva a velocità non inferiore a 110 km/h, e quindi superiore a quella che poteva tenersi in quella strada (pari a 100 km/h), e poiché egli sapeva che la strada da lui percorsa si trovava in area evacuata fino a poche ore prima, per la nota alluvione della Valtellina, per cui avrebbe dovuto tenere una velocità moderatissima ed una condotta di guida attenta.
Secondo la corte andava respinto l’appello del Pozzi, sindaco del comune, ravvisando la sua colpa grave nell’aver autorizzato la rimozione degli ostacoli all’imbocco della strada, senza contemporaneamente rimuovere anche quelli posti lungo il percorso.
Avverso questa sentenza hanno proposto autonomi ricorsi per cassazione Pozzi Enrico ed il comune di Mazzo.
Resiste con autonomi controricorsi De Carli Antonio, che ha presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi, a norma dell’articolo 335 c.p.c.
Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi, entrambi i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 c.c. e 41, comma 2, c.p., in relazione all’articolo 366, n. 3, c.p.c., nonché la contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Lamentano i ricorrenti che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la barriera di sacchi integrasse un’insidia stradale; che, allorché il fatto del danneggiato abbia interrotto la connessione dei fatti privando il fatto illecito antecedente di efficacia causale, non può affermarsi la responsabilità del terzo; che tanto si è verificato nella fattispecie, in quanto la stessa corte territoriale ha riconosciuto che, se il De Carli avesse guidato con la dovuta prudenza, avrebbe avuto la possibilità di arrestare l’auto nello spazio di avvistamento della barriera; che, quindi, la motivazione della sentenza violava i principi in tema di causalità efficiente o causalità giuridica.
Con il secondo motivo dei rispettivi ricorsi, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2043 c.c. con riferimento alla sussistenza della condotta colposa del comune di Mazzo, a norma dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Lamentano i ricorrenti che la sentenza impugnata in modo contraddittorio ha ritenuto che la barriera costituisse un’insidia stradale per quanto essa non fosse né occulta né imprevedibile, poiché la stessa corte – nell’affermare il concorso di colpa del danneggiato – ha ritenuto che i gravi eventi alluvionali comportavano la possibilità della presenza di ostacoli e di dissesti. Conseguentemente, secondo i ricorrenti, la barriera in questione non costituiva un pericolo occulto e non visibile, sussistendo invece la sola colpa del danneggiato.
Ritiene questa Corte che i motivi suddetti vadano esaminati congiuntamente.
Esso sono infondati e vanno rigettati.
Anzitutto non sussiste la lamentata violazione degli articoli 2043 c.c. e 41 c.p.
Infatti, a parte la dibattuta questione se la norma di cui all’articolo 1223 c.c. regoli il nesso di causalità giuridica, mentre il nesso di causalità materiale sia regolato esclusivamente dai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., con conseguente distinzione tra causalità di fatto (contenuta nella struttura dell’illecito ed avente come referenti le predette norme penali) e causalità giuridica (contenuta nella struttura della valutazione del danno, di cui agli articoli 2056-1223 c.c.), sta di fatto che, per giurisprudenza pacifica il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito, deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della cosiddetta regolarità causale (Cassazione 1857/98; 2009/97; 11087/93; 65/1989; 6325/87).
Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiono del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale, in realtà, come è stato esattamente osservato, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno).
Peraltro il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’articolo 40 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’articolo 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale dal rendere irrilevante le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale gia in atto (Cassazione 268/96).
Questa interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cassazione 6640/98; 2737/88).
Quando invece, il comportamento colposo del soggetto danneggiato non sia stato tale da interrompere il nesso di causalità tra il fatto del terzo e l’evento dannoso, ma abbia solo concorso nella produzione dell’evento, la fattispecie è regolata dall’articolo 1227, comma 1, c.c. (concernente il concorso del fatto colposo del creditore), che afferma il principio secondo cui il danno che taluno arreca a sé medesimo non può essere posto a carico dell’autore della causa concorrente (Cassazione 2763/97).
Il problema si complica in tema di responsabilità della pubblica amministrazione per la manutenzione delle strade (da intendersi nella più ampia accezione).
Sussiste un contrasto in merito alla tutela apprestata per l’utente di una strada pubblica che, dall’uso di questa, abbia subito un danno.
Secondo l’orientamento predominante questa tutela è esclusivamente quella predisposta dall’articolo 2043 c.c., osservandosi che la pubblica amministrazione incontra nell’esercizio del suo potere discrezionale, anche nella vigilanza e controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere (articolo 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia stradale (Cassazione 3991/99; 7062/97; 7742/97; 5989/98 e molte altre).
Un orientamento minoritario, invece, riconduce la responsabilità della pubblica amministrazione, proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall’utente di detta strada, alla disciplina di cui all’articolo 2051 c.c., assumendo che la pubblica amministrazione, quale custode di detta strada, per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell’articolo 2051 c.c., deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato dell’esistenza dell’insidia, che questi, invece, non deve provare, così come non ha l’onere di provare la condotta commissiva o omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l’evento dannoso ed il nesso di causalità con la cosa (Cassazione 4070/98; 11149/98; 4673/96).
La soluzione del contrasto non è rilevante nella fattispecie, poiché nelle fasi di merito (ed in questa di legittimità) è stata invocata solo la tutela ex articolo 2043 c.c., per cui non potrebbe essere sollevata d’ufficio, per la prima volta in sede di legittimità, questione della responsabilità dell’articolo 2051 c.c. (cfr. Sezioni unite 10893/01; Cassazione 5677/86; 490/79).
Sennonché una volta inquadrata (esclusivamente per la predetta preclusione processuale) la tutela in questione nell’ambito dell’articolo 2043 c.c., limitandola all’ipotesi dell’esistenza dell’insidia stradale, si pone il problema della compatibilità della stessa con il concorso di colpa del danneggiato (sclusa generalmente dalla giurisprudenza di merito).
Il problema è rilevante nella fattispecie, poiché i ricorrenti lamentano proprio la contraddittorietà motivazionale tra l’affermazione della loro responsabilità per la ritenuta esistenza dell’insidia stradale e il comportamento concorrente imprudente del danneggiato.
È vero che la censura sollevata attiene al profilo motivazionale della sentenza, e quindi alla ricostruzione del caso concreto, ma ovviamente, se già in astratto detta compatibilità tra “l’insidia stradale” ai fini dell’articolo 2043 c.c. e l’articolo 1227, comma 1, c.c. non sussistesse, a maggior ragione in concreto sarebbe contraddittoria una ricostruzione fattuale che la ritenesse sussistente.
L’intera problematica è stata recentemente esaminata da una sentenza della Corte costituzionale (156/99) a seguito di una ordinanza del giudice di pace di Genova che, investito della risoluzione di una controversia promossa da un privato contro il comune di Genova per i danni subiti a causa di una caduta da un motociclo prodotta dalla presenza, astrattamente percepibile in anticipo ma non segnalata, di terriccio su una strada comunale, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2043, 2051 e 1227, primo comma, c.c. in rapporto agli articoli 3, 24 e 97 della Costituzione.
La Corte costituzionale, nel ritenere non fondata la questione, richiamato il principio di autoresponsabilità a carico degli utenti “gravati di un onere di particolare attenzione nell’esercizio dell’uso ordinario, diretto del bene demaniale per salvaguardare appunto la propria incolumità”, ha tra l’altro considerato la nozione di insidia, “come una sorta di figura sintomatica di colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità in esame”.
Il giudice delle leggi ha poi rilevato, quale corollario della teoria dell’insidia o del trabocchetto, posta a base della responsabilità della pubblica amministrazione in questa materia ex articolo 2043 c.c., che i caratteri della non visibilità oggettiva e della non prevedibilità soggettiva, che debbono connotare tale situazione di pericolo, comportano l’inapplicabilità del concorso di colpa sancito dall’articolo 1227, primo comma, c.c., “Istanti evidenti ragioni di incompatibilità logica fra un possibile concorso di colpa del danneggiato e la stessa nozione di insidia, essendo questa contraddistinta dai caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità del pericolo”.
Cosicché o il fatto è imputabile alla pubblica amministrazione con conseguente diritto al risarcimento integrale del danno oppure il fatto medesimo è anche solo in parte riconducibile al danneggiato, ed in tal caso per quest’ultimo non sussisterà alcun diritto di natura risarcitoria (opinione diffusa nella giurisprudenza di merito).
Ritiene questa Corte di non poter condividere detto principio di incompatibilità, già in astratto, tra responsabilità della pubblica amministrazione per danno provocato da anomalia della strada, avente le caratteristiche dell’insidia, ex articolo 2043 c.c., ed il concorso di colpa del danneggiato, a norma dell’articolo 1227, comma 1, c.c.
Va anzitutto osservato che la regola che prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato è un approdo dei codici moderni. In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui.
Nei sistemi di common law si parlava di contributory negligence, mentre in quelli di origine romanistica ci si richiamava alla nota regola di Pomponio “quod quis ex culpa sua damnum sensit non intelligitur damnum sentire”. L’inversione di tendenza in Italia iniziò con la giurisprudenza dei primi decenni del 1900 e poi fu tradotta nella norma di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c., del codice vigente. Attualmente tutti gli ordinamenti hanno recepito detto principio (il diritto inglese ha sostituito la contributory negligence con la comparative negligence).
Ritenere che la responsabilità della pubblica amministrazione, proprietaria della strada pubblica (o del bene demaniale) sussista, ex articolo 2043 c.c., solo nel caso di insidia stradale e, contemporaneamente, sostenere che essa è incompatibile già in astratto con il fatto colposo del danneggiato, per cui l’esistenza di questo esclude la responsabilità della pubblica amministrazione, di fatto comporterebbe il riaffacciarsi del superato principio che la concorrente colpa del danneggiato fa venir meno la responsabilità del danneggiante.
La tesi dell’incompatibilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c. e della responsabilità della pubblica amministrazione per l’insidia stradale ex articolo 2043 c.c. si fonda sul presupposto, ritenuto dalla dottrina classica, che nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall’articolo 1227, comma 1, c.c., oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza. L’autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni, che potrebbero colpirli. Senza entrare nella questione ordinamento del detto principio, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c. sia espressione del principio dell’autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile, sicché la colpa, cui fa riferimento l’articolo 1227, comma 1, c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’articolo 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
Sempre nella tesi causalistica, quale fondamento dell’articolo 1227, comma 1, c.c., rientra anche quello orientamento che ritiene che l’articolo 1227 c.c. rappresenta un’ipotesi particolare della generale previsione di responsabilità solidale di cui all’articolo 2055 c.c. (cfr. Cassazione 20.11.1991), tenuto conto che la norma di cui all’articolo 2055 c.c. viene inquadrata dalla dottrina dominante nell’ambito del nesso di causalità.
La questione del comportamento colposo del danneggiato, come influente esclusivamente sul nesso causale, è stata positivamente esaminata, in particolare, in relazione al caso fortuito, come elemento liberatorio del custode dalla sua responsabilità ex articolo 2051 c.c., e già in detta sede si è rilevato che, se il comportamento colposo del danneggiato nella fattispecie concreta non è idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno, costituita dalla cosa in custodia, ed il danno, esso può anche integrare il concorso colposo del danneggiato nella produzione del danno ai fini dell’articolo 1227, comma 1, c.c. (cfr. Cassazione 3957/94; 7727/00).
Così inquadrata la norma di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c., va osservato che il principio per cui la responsabilità dell’ente gestore sussiste quando il danno ha trovato causa in un’insidia stradale, da figura sintomatica della colpa, come è stato notato, è passata a costituire un’autonoma figura di illecito; il risultato di un’operazione di semplificazione analitica della fattispecie in rapporto alla distribuzione degli oneri probatori, con il tempo è stato inteso come regola sostanziale.
In effetti detta regola sostanziale manca, sussistendo solo quella generale di cui all’articolo 2043 c.c.
Sennonché una volta recuperata all’insidia stradale la sola funzione di figura sintomatica della colpa della pubblica amministrazione riportando la fattispecie nell’ambito dell’articolo 2043 c.c. ed una volta riconosciuto all’articolo 1227, comma 1, c.c., la funzione di regolare, ai fini della causalità di fatto, l’efficienza causale del fatto colposo del leso, con conseguenze sulla determinazione dell’entità del risarcimento (causalità giuridica), ne deriva che ben può concorrere nella produzione del danno all’utente stradale sia il fatto colposo della pubblica amministrazione, poiché la specifica anomalia stradale, rivestendo i caratteri dell’insidia, si presume colposa, sia il fatto colposo del leso, che abbia avuto carattere efficiente dell’evento dannoso, determinando – in buona sostanza – un concorso di cause.
Quindi il nesso di causalità tra la situazione di pericolo e l’evento dannoso, non viene meno già in astratto, solo perché l’utente abbia tenuto un comportamento irregolare. Ciò può esserlo nella specifica situazione concreta (e dovrà accertarlo il giudice di merito), ma non per un’incompatibilità tra la responsabilità della pubblica amministrazione ex articolo 2043 c.c. per cosiddetta insidia stradale ed il concorso colposo del danneggiato ex articolo 1227, comma 1, c.c.
La sostenuta inapplicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c. alle fattispecie in esame, oltre a non essere giustificata sul piano dei principi, determina una singolare situazione per la quale la pubblica amministrazione può concorrere con il fatto colposo del terzo nella causazione del danno all’utente stradale (ex articolo 2055 c.c.), ma non ex articolo 1227, comma 1, c.c. con il fatto colposo dello stesso danneggiato.
Ne consegue che il consociato fruitore di un bene demaniale, in ossequio al fondamentale principio di giustizia sostanziale, trasfuso nell’articolo 1227, comma 1, c.c. non ha diritto di vedersi riconosciuto il risarcimento di quella parte di danno che è ascrivibile alla sua condotta colposa, ma non certo anche che la sola esistenza di questa esclude – già in astratto – ogni responsabilità della pubblica amministrazione, sia pure nei limiti dell’insidia stradale, sussistendo solo un’ipotesi di autoresponsabilità del leso.
Se infatti si sostenesse che il solo concorso del fatto colposo del danneggiato già in astratto esclude una responsabilità della pubblica amministrazione, si giungerebbe a ritenere che l’unico elemento soggettivo rilevante nella fattispecie è quello del danneggiato, nel senso che, se esso è stato diligente, vi è responsabilità della pubblica amministrazione in presenza dell’insidia stradale, mentre, se esso è stato colposo, la responsabilità della pubblica amministrazione è esclusa.
Ciò introdurrebbe un nuovo elemento nella responsabilità aquiliana, non previsto dall’articolo 2043 c.c., e cioè la mancanza di diligenza del danneggiato, rilevante, invece, non ai fini della responsabilità del danneggiato, ma ai fini del concorso colposo del danneggiato.
Ciò produrrebbe anche un’inversione dei normali criteri operativi dell’actio aquiliana, perché il danneggiato sarebbe tenuto a dimostrare che il danno si è verificato nonostante la sua diligenza.
La conseguenza di quanto sopra detto è che, anche a ritenere colposa la responsabilità della pubblica amministrazione nei confronti dell’utente della strada nei soli casi di insidia o trabocchetto stradale, essa, in astratto, non è incompatibile con il concorso del fatto colposo del danneggiato, dovendosi valutare in concreto, da parte del giudice del merito, l’entità del rapporto causale del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso.
Nella fattispecie la sentenza impugnata non ha effettuato alcuna violazione o falsa applicazione dei suddetti principi di diritto e delle norme indicate dai ricorrenti, avendo ritenuto che il comportamento del danneggiato aveva solo concorso nella produzione dell’evento dannoso, ma non era stato tale da determinarlo in via esclusiva.
Diventa poi una questione attinente alla motivazione della sentenza, il punto se effettivamente il comportamento del danneggiato abbia solo concorso alla produzione dell’evento ovvero abbia in modo esclusivo determinato lo stesso.
Va, sotto questo profilo, premesso che gli apprezzamenti del giudice del merito sulla sussistenza del nesso di causalità e della colpa di un soggetto nella produzione di un evento dannoso si risolvono in un giudizio di fatto, che, se immune da errori giuridici e vizi logici, si sottrae al sindacato in sede di legittimità (Cassazione 9794/98; 3939/96).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che il comportamento dei convenuti fosse connotato sia da colpa generica, per aver aperto al transito una strada senza rimuovere poi gli ostacoli posti sul suo percorso e senza aver adeguatamente presegnalato l’esistenza della barriera in sacchi, sia da colpa specifica, per non aver adempiuto agli obblighi di segnalazione previsti dall’articolo 8 codice stradale per l’esistenza di ostacoli fissi e di grosse dimensioni posti sulla sede stradale.
Anche a voler ritenere che la mancata apposizione dei segnali, nella costruzione motivazionale della sentenza, non svolga un ruolo autonomo nella causazione del danno, ma sia un elemento determinante (insieme ad altri) della sussistenza dell’insidia stradale, va rilevato che è immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità l’accertamento dell’esistenza di detta insidia.
Infatti, il giudice di merito, fondandosi sulle risultanze dalla ctu, ha accertato che lo sbarramento dell’intera strada a scorrimento veloce costituito da sacchi di sabbia, posto all’uscita di una curva, con vegetazione prima della barriera, non facilmente avvistabile per la mimetizzazione data dal colore dei sacchi, e non segnalato come previsto dall’articolo 8 codice stradale, costituiva un’insidia gravissima, siccome del tutto imprevedibile e non facilmente avvistabile, proprio in relazione al tipo di viabilità.
Trattasi di valutazione di merito, riservata al giudice di merito ed immune da censure, rilevabili in questa sede.
Né essa è contraddittoria con il ritenuto concorso di colpa del danneggiato.
Una volta esclusa in astratto l’incompatibilità tra la responsabilità della pubblica amministrazione per danni all’utente della strada causati da insidia stradale ed il concorso di colpa del danneggiato, diventa una questione di merito accertare se il fatto colposo del danneggiato abbia concorso a causare il danno ovvero l’abbia determinato in modo autonomo.
Nella fattispecie, con valutazione immune da censure, il giudice di appello, in conformità a quanto ritenuto dal primo giudice, ha accertato che sussisteva detto concorso del fatto del danneggiato, consistente nella velocità eccessiva di km/h 110, a fronte del limite massimo di km/h 100, e che la stessa era imprudente e pericolosa in relazione alle condizioni di tempo e di luogo, tenuto conto che la zona era stata evacuata fino a poche ore prima per la notoria alluvione della Valtellina, senza escludere che le omissioni ascrivibili alla pubblica amministrazione abbiano creato un’insidia stradale.
Con il terzo motivo di ricorso il solo Pozzi Enrico lamenta l’insufficiente e contraddittoria motivazione intorno alla sussistenza della colpa grave nella condotta del sindaco, a norma dell’articolo 360 n. 5 c.p.c.
Assume il ricorrente che nella fattispecie non risulta la colpa grave del sindaco Pozzi, necessaria per affermare la sua responsabilità.
Secondo il ricorrente in una situazione di gravità e di emergenza, quale l’alluvione della Valtellina che aveva determinato l’evacuazione di intere zone, note a tutti gli abitanti della provincia di Sondrio, non può ritenersi che il Pozzi fosse tenuto a segnalare lo stato di pericolo connaturato alla stessa eccezionalità della situazione.
Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.
Osserva preliminarmente questa Corte che la responsabilità civile personale dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici in caso di violazione dei diritti dei terzi, a norma dell’articolo 28 Costituzione – che si applica anche ai soggetti, come i sindaci dei comuni, svolgenti funzioni pubbliche senza essere legati all’ente pubblico da un rapporto di servizio – non presuppone necessariamente l’abuso delle funzioni di ufficio per il perseguimento di fini personali, essendo sufficiente l’imputabilità almeno colposa dell’atto dannoso al pubblico amministratore o dipendente, derivante da violazione delle regole di comune prudenza o di leggi o regolamenti alla cui osservanza la pubblica amministrazione sia vincolata, salvo specifica determinazione da parte del legislatore ordinario del grado di colpevolezza, così come operato con l’articolo 23 Testo unico 3/1957 sugli impiegati dello Stato, che richiede la colpa grave, applicabile, in difetto di regolamentazioni specifiche (cfr. peraltro l’articolo 58 legge 142/90, di rinvio, per gli amministratori e per il personale degli enti locali, alle disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili del lo Stato), anche alle altre categorie di soggetti responsabili, in via analogica o in quanto espressione di un principio generale (Cassazione 1890/00).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che sussistesse la colpa grave del sindaco Pozzi per aver egli disposto la rimozione della barriera all’ingresso della strada senza contemporaneamente disporre la rimozione dell’altra barriera posta al termine della stessa.
Trattasi di valutazione del fatto, riservata al giudice di merito, che, essendo immune da vizi motivazionali rilevabili in sede di legittimità, non può essere sindacata in questa sede.
I ricorsi vanno pertanto rigettati.
Esistono giusti motivi per compensare tra le parti per intero le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta.
Compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
La storia del Canton Ticino
I primi abitanti stabili nel territorio ticinese sono opera di agricoltori neolitici, installatisi nelle vallate sudalpine alla fine dell’epoca glaciale, ossia fra 6500 e 7000 anni fa. Testimonianze di questi insediamenti sono state portate alla luce a Bellinzona, Carasso, Ascona e Coldrerio. Le tracce delle presenze abitative durante l’età del bronzo confermano una ripartizione territoriale analoga a quella del neolitico. Mancano per contro prove dirette delle zone abitate durante l’età del ferro, anche se la distribuzione delle necropoli nel territorio dimostra che tra il VI e il III sec. a.C. gli insediamenti si consolidano in zone poco diverse dalle attuali. Si tratta di una popolazione autoctona, appartenente alla tribù dei Leponti, nella cui cultura materiale si notano influssi celtici e italici, determinati dai traffici commerciali di transito. Tutti i ritrovamenti archeologici dell’area ticinese escludono un’invasione militare romana, a differenza di quanto e avvenuto nella regione dell’Altipiano, posto ai limiti settentrionali dell’impero. I ritrovamenti testimoniano invece una compenetrazione culturale tale che, sul finire del I secolo a.C., si può parlare di romanizzazione conclusa. Il battistero di Riva San Vitale è uno dei più antichi monumenti cristiani in muratura della Svizzera. Il processo di cristianizzazione sulle terre ticinesi si svolge in una popolazione fortemente impregnata di cultura romana, nella quale le grandi migrazioni dei popoli germanici lasciano solo qualche traccia.
Verso la fine dell’impero romano, popolazioni in fuga dalle regioni padane si rifugiano nelle aree prealpine, dando impulso ai centri romani. Bellinzona, chiave dei passi alpini, si conferma quale punto strategico nei rapporti e negli scontri fra le potenze del settentrione e del meridione d’Europa. Alcune tracce archeologiche forniscono qualche esempio dell’abitato altomedievale. Nel grande recinto fortificato di Castel Grande a Bellinzona, come a Carasso, si sono individuate tracce di abitazioni a pianta quadrata costruite con muri a secco. Il complesso Maghetti di Lugano è invece, nell’VIII-IX secolo, un’importante struttura di depositi e attività artigianali. Lo studio dei resti vegetali ritrovati nei sedimi del frantoio-mulino, dell’essiccatoio e di alcuni depositi, danno un’idea dell’alimentazione dell’epoca, fondata su frumento, segale, miglio, panico, orzo, fave, piselli, castagne e olio di noci.
Le prime tracce del cristianesimo in Ticino datano della fine del IV secolo, mentre una spinta decisiva alla sua diffusione si ha con il vescovo milanese Ambrogio, con l’appoggio della sede vescovile di Como. A partire dal V secolo sorgono, nei centri più importanti, le prime chiese parrocchiali cui vengono ad aggiungersi, sicuramente già nel VII secolo, altri piccoli edifici di culto sparsi nel territorio, a testimonianza di una presenza sempre più marcata della religione cristiana e delle sue strutture. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, le terre ticinesi vengono assoggettate dai Goti e dai Bizantini, per poi essere integrate, nel VI secolo, nel regno longobardo, che ha come capitale Pavia. Alcuni esponenti di famiglie longobarde, come Totone da Campione e Attone vescovo di Vercelli, hanno notevole influsso sui destini politici ed ecclesiastici della nostra regione. I canonici milanesi eserciteranno, anche nei secoli successivi, il potere spirituale e temporale nelle valli di Blenio e della Leventina.
I Franchi, conquistando il regno longobardo nel 774, danno un nuovo ordinamento alle terre ticinesi, che tuttavia e destinato ben presto a sfaldarsi in seguito al frazionamento feudale del potere, che caratterizza i secoli precedente il Mille. Sono soprattutto gli enti ecclesiastici che riescono a conquistare un notevole grado di autonomia, specie nel Sottoceneri, divenendo vere e proprie signorie territoriali. Spesso in conflitto tra di loro, la chiesa vescovile di Como, i monasteri benedettini di S. Ambrogio di Milano e quelli di S. Pietro in Ciel d’Oro di Pavia esercitano la loro sovranità. Il vescovo di Como finirà con il conquistare salde posizioni di potere a Bellinzona, a Locarno e soprattutto a Lugano, raggiungendo l’apice della sua sovranità, caratterizzato da tutte le prerogative di un signore feudale, nel secolo XI. Gradatamente tuttavia, tutti i poteri pubblici che la chiesa comasca era riuscita ad accumulare nelle regioni ticinesi passeranno nelle mani del comune di Como. La popolazione residente e molto legata alla terra, dalla quale trae pressoché tutto l’occorrente per vivere, ma, salvo alcune esigue parcelle, gli appezzamenti agricoli sono di proprietà quasi esclusiva di chiese e monasteri, nonché di grandi e piccoli casati nobili, locali o stranieri.
Il movimento comunale segna in profondità la storia urbana italiana dal secolo XI in poi e caratterizza pure l’evoluzione delle terre ticinesi in un’epoca in cui appaiono nuove forze sociali, aumentano la popolazione e la produzione, si rianimano gli scambi commerciali e si aprono nuove vie di transito (S. Gottardo, fine sec. XII). Nella secolare lotta per l’affermazione e per la difesa del territorio soggetto, il comune di Como e la città di Milano si fronteggiano in una guerra decennale, cui seguiranno numerosi altri conflitti, acuiti dalle guerre contro l’impero e da lotte interne per il potere. Dopo alterne vicende, Milano (dove ha nel frattempo prevalso la famiglia dei Visconti) ottiene nel 1335 la definitiva vittoria contro la città di Como (nella quale è emersa la famiglia Rusconi). La potente capitale lombarda diventa capitale di uno stato che, nella seconda metà del Trecento, si estende su buona parte dell’Italia settentrionale. Bellinzona verrà conquistata nel 1340, Locarno nel 1342, Blenio e Leventina cadranno in mano viscontea dal 1344.
I Visconti e gli Sforza, loro successori, assegneranno in seguito i loro territori ticinesi, eccettuato Bellinzona, a famiglie di nobili, locali e straniere. Gli Svizzeri, reduci dalle vittorie militari di Sempach e Näfels, approfittano della morte del potente duca Gian Galeazzo Visconti per occupare una prima volta la Leventina e Bellinzona, ma saranno sconfitti dalla reazione milanese nella battaglia di Arbedo del 1422. Solo dopo la sconfitta ducale di Giornico nel 1478, gli Urani ottengono definitivamente questo primo lembo di terra al di qua delle Alpi, conquistando il controllo dei passi alpini e della fortezza di Bellinzona. La loro determinazione ad espandersi verso sud, agevolata dalla crisi del ducato milanese in guerra con la monarchia francese, sarà coronata da successo nei primi anni del Cinquecento.
Gli Svizzeri raggiungono il massimo della loro potenza militare tra la metà del Quattrocento e il primo decennio del Cinquecento. Si impadroniscono dei nodi delle vie alpine, Bellinzona, Chiavenna, Domodossola , dilagando a sud e riuscendo perfino a dominare per breve tempo lo stato di Milano. Sconfitti a Marignano (1515), gli Svizzeri devono però cedere la Lombardia alla Francia (che dopo alcune guerre la consegnerà alla Spagna), ma non rinunciano agli accessi alpini, troppo importanti per i loro interessi commerciali. Le otto piccole regioni corrispondenti agli attuali distretti del Cantone Ticino, divengono così i baliaggi italiani degli Svizzeri. Pur sovrapponendo la loro autorità, esercitata per mezzo di un governatore e giudice chiamato comunemente landfogto, gli Svizzeri rispettano gli ordinamenti e le consuetudini preesistenti. Ogni baliaggio viene così a costituire un piccolo mondo autonomo con i propri statuti, le proprie assemblee e i propri pesi e misure. I cantoni sovrani verificano annualmente in loco l’operato dei landfogti per il tramite di una commissione di loro rappresentanti. La gelosia campanilistica fra i comuni, le divergenze o concorrenze fra i baliaggi, le lungaggini dei cantoni sovrani e la mancanza di mezzi contribuiscono ad ostacolare la realizzazione di grandi opere di interesse comune. La posizione geografica e la condizione politica dei baliaggi ticinesi ostacolano in modo determinante la diffusione della riforma protestante. Il valico del S. Gottardo che conduce nel canton Uri, rimasto cattolico, fa da filtro alla circolazione di idee e libri protestanti.
A sud, in Lombardia, sono presenti gruppi di riformati, controllati tuttavia dall’Inquisizione. Ai landfogti svizzeri è inoltre vietato di fare propaganda per la riforma nei baliaggi. Nonostante queste premesse, non mancano i tentativi i diffondere la nuova dottrina, soprattutto nei centri. Solo a Locarno tuttavia, dove ha un ruolo fondamentale il prete Giovanni Beccaria, le idee riformate riscontrano un certo successo presso le famiglie benestanti. L’estendersi della riforma allarma le autorità dei cantoni cattolici. Il 15 novembre 1554, la Dieta di Baden ordina ai riformati locarnesi di tornare al cattolicesimo o di abbandonare la città. Più di 170 persone rifiutano l’imposizione e si trasferiscono a Zurigo, dove alcuni raggiungeranno una confortevole posizione sociale. Il Concilio di Trento (1545-1563) affida ai vescovi il rinnovamento della Chiesa. Il primo ad agire nelle terre ticinesi e il cardinale milanese Carlo Borromeo, che compie numerose visite pastorali, intervenendo anche con estremo rigore per correggere idee e comportamenti ritenuti sbagliati. Una conseguenza molto importante del rinnovamento e l’istituzione della Dottrina Cristiana, un’associazione il cui scopo non è solamente di trasmettere ai ragazzi il catechismo, ma anche di insegnar loro a leggere. Questa attività è il primo passo sulla strada dell’istruzione popolare, che nel Seicento e nel Settecento viene estesa allo scrivere e al far di conto ad opera delle scuole parrocchiali e comunitarie.
Con l’Atto di Mediazione nasce la nuova Confederazione di 19 cantoni: tra quelli nuovi compare anche il Ticino con capitale Bellinzona. Il 20 maggio 1803 si insediano le prime autorità costituzionali: un Gran Consiglio di 110 deputati, fra i quali viene eletto un Governo di 9 membri. I magistrati ticinesi devono subito confrontarsi con polemiche regionalistiche tra Lugano e Bellinzona per la scelta della capitale, ma anche con altri problemi ben più seri e acuiti dalle difficoltà finanziarie, quali la costruzione della rete stradale, l’istruzione del popolo, la lotta all’indigenza e alle malattie endemiche. L’integrità stessa del cantone è messa in pericolo quando Napoleone, divenuto imperatore, trasforma la Repubblica Cisalpina in Regno d’Italia, che intende ampliare con l’annessione di parte del Ticino.
L’Atto di Mediazione di Napoleone Bonaparte nel 1803 permise al Ticino l’entrata nella Confederazione Svizzera come “cantone sovrano”. Napoleone pretese però che la Svizzera mettesse a disposizione da 18’000 a 12’000 soldati (la Division Suisse) per il suo esercito.
Contingenti ticinesi, circa 600 uomini,furono incorporati nell’esercito francese e se ne ha particolarmente memoria nella campagna di Russia del 1812 di Napoleone, soprattutto per il passaggio del fiume Beresina, gelato nel freddo inverno russo.
Per un giorno intero, 1’300 soldati svizzeri riuscirono a coprire la ritirata francese dall’impeto di 40’000 soldati russi, mentre il resto dell’esercito francese (o ciò che ne era rimasto) attraversava il fiume su pontoni.
Il numero dei caduti svizzeri fu molto alto, solo 300 soldati sopravissero, ma i francesi furono salvati dalla sconfitta totale.
Qui gli Svizzeri dimostrarono la loro bravura, capacità e resistenza da montanari, comportandosi da veri eroi.
Solo la disastrosa campagna di Russia costringe l’imperatore a ritirare dalla Svizzera le truppe d’occupazione salvando il Ticino. Con la sconfitta di Napoleone nel 1813 crolla però anche il sistema della Mediazione. Nel 1829 il giovane Stefano Franscini pubblica un opuscolo che denuncia le piaghe del regime e ne chiede la fine. Gli effetti della pubblicazione sono devastanti e il regime dei Landamani è liquidato a furor di popolo. Nel 1830 viene approvata con solenni celebrazioni una costituzione liberale, che ripristina fra l’altro la libertà di stampa.
Tuttavia ben presto si manifesta fra la popolazione una netta divergenza di opinioni sul modo di intendere la libertà di stampa e sulla politica governativa, ciò che da corpo a due correnti: quella dei liberali puri (radicali) e quella dei moderati (o, come si dirà più tardi, dei conservatori). I moderati, in maggioranza fino al 1839, hanno per divisa la protezione della pubblica morale e della religione cattolica, la fedeltà al Patto del 1815, relazioni di buon vicinato con l’Austria, difesa delle istituzioni tradizionali e delle autonomie locali. I radicali, giunti al potere nel 1839 con un atto di forza, vanno in tutt’altra direzione: stato laico e centralizzato, suffragio universale, inviolabilità del diritto d’asilo e appoggio ai moti risorgimentali, riforma del Patto del 1815. L’antagonismo fra radicali e moderati diventa irriducibile e per tutto il XIX secolo si concentra attorno ad alcuni grandi temi: chiesa e stato, scuola laica e confessionale, federalismo e centralismo, città e campagna. La violenza caratterizza la contrapposizione fra i due schieramenti politici nel Paese durante il XIX secolo. Sanguinosi disordini e rivoluzioni si susseguono e nel 1875 le truppe federali devono occupare Lugano, in quel momento sede del governo, per evitare il peggio. L’antagonismo è anche geografico: i conservatori sono forti nelle regioni montane, mentre i radicali trovano larghi consensi nei centri popolosi e in espansione. Tra Sopra e Sottoceneri non corre buon sangue e più di una volta si medita di formare due cantoni separati. Le grandi riforme vengono vicendevolmente imposte da un partito sull’altro.
I radicali curano l’istruzione pubblica, creano i dipartimenti per dar ordine all’amministrazione, riorganizzano la giustizia, i comuni, i patriziati. Contestato dalle valli e dal clero per il suo indirizzo centralizzatore e laico, il governo radicale diventa autoritario e intransigente, perdendo progressivamente consensi: disperde con le armi nel 1855 la minacciosa opposizione dei conservatori, subordina la chiesa allo stato, toglie ai preti i diritti politici e introduce l’imposta diretta. Nel 1875 i conservatori arrivano al potere. Ridanno alla chiesa ampie libertà, cambiano gli indirizzi della scuola, introducono strumenti di democrazia diretta come il referendum, il diritto di iniziativa popolare costituzionale e di iniziativa legislativa, istituiscono il voto segreto e per comune e fissano la scelta della capitale stabile. Finiscono tuttavia con il diventare a loro volta intolleranti ed esclusivisti. Per insegnare ai turbolenti ticinesi a governare insieme, Berna impone, dopo la rivoluzione radicale del 1890, il sistema di elezione proporzionale, che in seguito obbliga i partiti alla collaborazione, favorisce la nascita di nuovi gruppi politici e chiude per sempre l’era degli atti di forza e della violenza politica. I due partiti storici, con l’applicazione del sistema elettorale proporzionale, sono costretti a dividersi dopo il 1890 i seggi in Consiglio di Stato in proporzione della loro forza e a governare insieme. Lo sviluppo economico del cantone porta negli anni successivi alla formazione di un ceto operaio, base sociale di un nuovo partito, quello socialista, che viene fondato nel 1900.
I radicali, trovando inizialmente nei socialisti degli alleati, si sentono abbastanza forti per rimettere in vigore nel 1904 un sistema maggioritario per l’elezione del governo, che lascia ai conservatori un solo rappresentante su cinque. Nel 1920, dopo la prima guerra mondiale, compare sulla scena politica un quarto partito, il partito agrario ticinese, che intende difendere gli interessi del ceto contadino. Conservatori, socialisti e agrari si alleano per far sancire dal popolo nel 1922 una riforma costituzionale, che introduce un nuovo sistema proporzionale per il governo e che permetterà l’ingresso di questi partiti nell’esecutivo, togliendo la maggioranza assoluta ai radicali. Questo sistema consociativo richiede partecipazione e collaborazione nel processo decisionale e nella gestione del potere e, negli anni fra le due guerre, una persistente agitazione politica accompagna la difficile ricerca del giusto equilibrio fra cooperazione e competizione fra i partiti. L’ascesa del fascismo in Italia provoca anche nel cantone qualche simpatia e la nascita di due movimenti estremisti di destra, che raccolgono tuttavia pochi voti alle elezioni del 1935. La minaccia nazista e la seconda guerra mondiale fanno maggiormente apprezzare ai Ticinesi le proprie istituzioni democratiche, compreso il sistema consociativo. Nel dopoguerra radicali e socialisti si alleano per una ventina d’anni (1947-1967). Nel 1969 il diritto di voto e di eleggibilità viene esteso alle donne.
Nello stesso anno una parte dei socialisti, scontenti della perdita di slancio del loro partito, danno vita al partito socialista autonomo, che dividerà i socialisti per ben oltre un ventennio, fino alla loro riunificazione. Nei decenni fra il 1910 e il 1950 la popolazione agricola continua a diminuire a vantaggio degli altri due settori. Comincia la produzione di energia idroelettrica, mentre il turismo conosce un grandissimo sviluppo. Dopo la seconda guerra mondiale e fino agli anni ottanta, il Cantone Ticino conosce un enorme sviluppo economico e un forte incremento demografico. Non solo cessa l’emigrazione, ma il cantone diventa terra di immigrati e offre pure lavoro a migliaia di frontalieri. Dal 1946 e fino all’inizio degli anni novanta, il PNL aumenta considerevolmente, frenato solo tra il 1971 e il 1976 da un periodo di inflazione e recessione. Rami trainanti, in mancanza di un polo industriale, sono le attività edili, bancarie e finanziarie, oltre al turismo. Lo sviluppo porta nel cantone un generale benessere materiale, accompagnato da alcuni inconvenienti legati ai massicci consumi, all’aumento del traffico motorizzato e alla concentrazione delle attività produttive nei centri e sul fondovalle, che chiamano gli enti pubblici a nuovi impegnativi compiti. Con l’inizio degli anni novanta inizia nel cantone un periodo di grave recessione economica, che si iscrive in un fenomeno di dimensioni europee e mondiali e che segna probabilmente l’inizio di un’epoca di transizione verso una nuova era.
I Cantoni svizzeri
1- I cantoni nella vecchia Confederazione (fino al 1798)
Le “città” e le “regioni” che componevano la Confederazione tardomedievale erano unite solo da un intreccio di alleanze di vario tipo. Tra Zurigo e Berna, per esempio, non esistette alcun patto diretto fino al 1423. I Patti federali contemplavano l’aiuto militare, la soluzione arbitrale dei dissidi ( Arbitrato ) e la reciproca assistenza giur. Ogni cant. poteva però entrare a far parte di altre alleanze, così come si verificò con la Conf. borgognona e la Lega delle città sveve. La rete di alleanze era completata da concordati quali la Carta dei preti (1370) o la Convenzione di Sempach (1393).
La gerarchia che si venne presto consolidando tra gli otto cant. – Zurigo, Berna, Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo, Glarona, Zugo – esprimeva la supremazia delle città (imperiali) sulle regioni rurali e la posizione subalterna di Zugo e Glarona. Gli incontri per dirimere questioni arbitrali, belliche e contrattuali si trasformarono, agli inizi del XV sec., nelle Diete federali , nelle quali veniva regolamentato, fra l’altro, il governo dei Baliaggi comuni . Fino al 1798 la Dieta rimase l’unica istituzione collettiva di tutti i cant. I più frequenti luoghi di riunione, Zurigo e Lucerna, divennero i primi Cantoni direttori . Dal numero degli inviati alla Dieta e dai turni per il balivo dei baliaggi comuni si può dedurre che Obvaldo e Nidvaldo erano considerati un unico cant. (Untervaldo).
La Convenzione di Stans (1481) fece rientrare il problema, nel frattempo divenuto serio, delle alleanze separate, rafforzò la posizione dei singoli cant. e avviò, con l’ammissione (seppure in posizione inferiore) di Soletta e Friburgo, l’ampliamento della Conf. a 13 membri. Nel 1501 fu la volta di Basilea e Sciaffusa, seguiti da Appenzello nel 1513. Questi atti d’unione erano dissimili tra loro e non equiparavano i nuovi cant. agli otto originari, ad esempio nella conclusione di alleanze e nell’amministrazione dei baliaggi comuni.
Nell’epoca moderna, la Conf., detta Corpo elvetico, era formata dalla Lega dei 13 cant. sovrani con i loro baliaggi, singoli o comuni, i Paesi alleati , gli alleati (Tre Leghe, Vallese) e coloro che erano soggetti a protettorato (ad esempio il convento di Engelberg).
La Mediazione federale sostituì i tribunali arbitrali quale strumento di gestione dei conflitti. Nonostante il confessionalismo, l’assolutismo e l’Illuminismo avessero posto i cant. di fronte a nuovi problemi, nessun progetto di riforma delle istanze conf. andò in porto. Le Paci nazionali e i Defensionali furono gli unici risultati delle difficili trattative tra cant. catt. e rif., risp. tra cant. cittadini e rurali.
2- I cantoni nella Repubblica elvetica (1798-1803)
L’invasione dell’esercito franc. e la fondazione della Repubblica elvetica – uno Stato centralizzato sul modello di quello franc. – posero fine, nel 1798, alla vecchia unione conf. Il territorio della Repubblica fu suddiviso dapprima in dieci (primavera del 1798) poi in 22 e infine in 19 cant. di uguale grandezza, declassati politicamente a semplici distr. amministrativi, giudiziari ed elettorali, governati dal prefetto e dalla Camera amministrativa. I vecchi cant. cittadini mantennero il loro nome, ma mutarono in parte l’assetto territoriale, mentre i vecchi cant. rurali scomparvero. Infine, furono creati nuovi cant.: Lemano, Vallese, Oberland, Argovia, Baden, Waldstätten, Lugano, Bellinzona, Turgovia, Linth, Säntis e Rezia.
Questo assetto ebbe breve durata. La Costituzione della Malmaison (1801) e la seconda Costituzione elvetica (1802) attribuirono ai cant. limitate competenze statali (per esempio finanze ed educazione) e la facoltà di darsi autorità proprie (per esempio Diete cant.). I cant. furono inoltre incaricati di elaborare proprie Costituzioni, che tuttavia non entrarono mai in vigore ( Costituzioni cantonali ). Nel 1802 vennero aboliti i cant. Waldstätten, Oberland, Baden, Bellinzona, Lugano, Linth e Säntis, mentre il Vallese uscì dalla Repubblica elvetica.
3- Tra l’Atto di Mediazione e la Costituzione federale (1803-1848)
L’ atto di Mediazione ristabilì la sovranità cant., dandole tuttavia una forma più moderna. Per la prima volta, un unico patto regolava i rapporti intercant. e pure per la prima volta si dichiarava che i cant. esercitavano tutti i poteri non esplicitamente delegati alla Conf. I 13 vecchi e i sei nuovi cant. (Ticino, Grigioni, Vaud, Argovia, Turgovia e San Gallo) ottennero, entro i limiti imposti dalla dipendenza dalla Francia, costituzioni proprie, che fissavano i loro compiti specifici (diritto penale e civile, polizia ecc.).
Rimasero bandite le condizioni di sudditanza; tutti i cant. erano uguali, almeno in linea di principio, perché alla Dieta quelli più popolosi (Berna, Zurigo, Vaud, San Gallo, Argovia, Grigioni) avevano due voti ciascuno. Tre cant. catt. e tre rif. (Friburgo, Berna, Soletta, Basilea, Zurigo, Lucerna) si susseguivano ogni anno quali cant. direttori. Il governo del cant. direttore era nel contempo autorità fed. e il suo capo portava il titolo di Landamano della Svizzera. Rientravano nelle competenze della Conf. la politica estera, il comando militare e il mantenimento dell’ordine interno.
Con il crollo del regime napoleonico, alla fine del 1813 i cant. si spaccarono in una “nuova” e in una “vecchia” Svizzera. A Berna, Friburgo, Soletta e nei cant. della Svizzera centrale le forze restauratrici tentarono di fare annullare il riconoscimento dei cant. fondati nel 1803, ma il Patto federale del 1815 pose tutti i cant., uniti in una Confederazione di Stati , sullo stesso piano giur., accogliendo inoltre i tre nuovi cant. del Vallese, di Neuchâtel e di Ginevra. La Dieta e il governo del cant. direttore (ruolo attribuito ora, a turno biennale, a Zurigo, Berna e Lucerna) rimasero gli unici organi della Conf., dotati di competenze in politica estera e in materia di sicurezza interna. Fino al 1848, l’armonizzazione giur. e contrattuale tra i cant. fu inoltre regolata attraverso Concordati .
All’inizio della Rigenerazione, nel 1830-31, 11 cant. si dotarono di Costituzioni liberali. Già nel 1831 nei cant. rigenerati si manifestò il desiderio di sostituire il Patto fed. con una Costituzione federale . Alcune proposte moderate fallirono però nel 1833. Nello stesso anno, le tensioni tra conservatori e liberali portarono alla divisione di Basilea in due semicant. In seguito, le divergenze sulla posizione dei cant. in seno alla Conf. approfondirono il fossato tra federalisti e centralisti, conservatori e radicali, sfociando, nel 1847, nella guerra del Sonderbund ; la sconfitta subita dai sette cant. catt. conservatori aprì la strada alla fondazione dello Stato federale.
4- Nello Stato federale (dal 1848)
La Costituzione del 1848 fece della Conf. uno Stato fed. costituito dai cant. e basato sul Federalismo . Il carattere statale e la Sovranità dei cant. furono ridimensionati: essi persero quasi totalmente lo spazio di manovra in politica estera e lo Stato assunse la responsabilità della garanzia territoriale e costituzionale dei cant. In linea di principio, dal 1848 i cant. esercitavano tutti i diritti non espressamente delegati allo Stato dalla Costituzione. Ciò significava che i nuovi compiti venivano dapprima affrontati dai cant. e solo in seguito, sulla base del principio di Sussidiarietà , trasferiti alla Conf., che ne curava l’armonizzazione.
I cant. avevano un ruolo particolare nella formazione della volontà dello Stato, in particolare attraverso strumenti quali il consenso maggioritario dei cant. (nel caso di referendum obbligatorio in campo costituzionale e per trattati con l’estero), la nomina dei Consiglieri agli Stati (due per cant.) e il diritto di iniziativa dei cant.
La Costituzione del 1999 ha regolato in modo più chiaro che in precedenza i rapporti tra Conf. e cant.: ha posto l’accento sulla collaborazione solidale, ha stabilito la priorità del diritto fed. su quello cant. in caso di divergenze, ha definito i mezzi del controllo e dell’intervento dello Stato ( Interventi federali ) e per la prima volta si è fatto riferimento anche ai Comuni .
Mentre nel 1979, quando venne fondato il cant. Giura, mancava una base costituzionale in materia, la nuova Costituzione del 1999 ha regolato la procedura in caso di modifica del numero, dell’estensione e dei confini dei cant. Negli ultimi anni del XX sec., la presenza di compiti che riguardano al contempo più cant. ha fatto avanzare proposte di fusione nella Svizzera franc. e centrale. Il termine di “semicant.”, che dal 1848 designava Obvaldo e Nidvaldo, Basilea Città e Basilea Campagna, Appenzello Interno e Appenzello Esterno, non compare più nella Costituzione del 1999: ad eccezione del peso numerico (un solo seggio nel Consiglio degli Stati e mezzo voto nel consesso dei cant.) essi sono oggi equiparati agli altri. Basilea Città e Basilea Campagna desiderano tuttavia ottenere anche la piena rappresentanza (due seggi, voto completo).
Nella distribuzione delle competenze tra Conf. e cant., dopo il 1848 è avvenuto uno spostamento in favore della prima, che in una fase iniziale aveva un numero limitato di compiti propri (poste, dogane, zecca, politica estera ecc.). La Costituzione fed. del 1874 vide un primo sensibile ampliamento delle competenze fed. (esercito, diritto civile e penale ecc.), seguito da altri nel corso degli anni (legislazione, assicurazioni, protezione dell’ambiente, trasporti, imposte). Le due guerre mondiali e il periodo di crisi interbellico motivarono l’attribuzione di maggiori competenze alla Conf. nell’ambito del regime dei pieni poteri. Sebbene le misure eccezionali siano state abrogate alla fine della guerra, il legislatore ha ulteriormente ampliato le competenze ordinarie della Conf., a ritmo però più lento dalla fine del decennio 1970-80. Le numerose competenze, la crescente importanza della Perequazione finanziaria e le Sovvenzioni fed. destinate ai cant. hanno in ogni caso rafforzato l’influsso del potere centrale sui cant., che talvolta appaiono semplici organi esecutivi della Conf.
Di questo sviluppo furono in parte responsabili i cant. stessi: in alcuni casi, il loro rifiuto di assumere compiti di natura statale ha richiesto l’intervento regolatore da parte della Conf. Inoltre, a volte proprio la parziale sovranità dei cant. si è rivelata un ostacolo allo sviluppo sociale ed economico. La Costituzione del 1999 ha tenuto conto dei mutamenti intervenuti, ma ha gettato nel contempo le basi per un corretto funzionamento del federalismo. Così, se da un lato la sovranità cant. è menz. solo nel senso di un “legame alla tradizione” (art. 3), dall’altro la nuova Costituzione ha istituito il principio di sussidiarietà; la Conf. assume unicamente “i compiti che esigono un disciplinamento unitario” (art. 42, cpv. 2). La Conf. salvaguardia inoltre l’autonomia dei cant., il cui margine di manovra è pertanto rafforzato.
Bibliografia
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Tratto da il Dizionario storico della Svizzera
http://www.snl.ch/dhs/externe/protect/italien.html
Sentenza 28 marzo 2003 n. 4736/2003 Assegno di divorzio – Prova della mancanza dei mezzi di sostentamento – Iscrizione liste collocamento – Stato patologico che sconsiglia attività lavorativa
Cassazione – Sezione Prima Civile
Sentenza 28 marzo 2003 n. 4736/2003
Presidente A. Saggio – Relatore A. Criscuolo
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato il 20 settembre 1995 G. D. chiese al Tribunale di Napoli che fosse pronunziata la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lui contratto con rito religioso il primo gennaio 1991 con F. L..
A sostegno della domanda addusse che erano trascorsi oltre tre anni dalla comparizione delle parti davanti al presidente del Tribunale nel giudizio di separazione personale concluso con decreto di omologazione in data 9 gennaio 1992. Aggiunse che da quel tempo l’effettiva convivenza era cessata e che lo stato di separazione perdurava.
Esperito senza esito il tentativo di conciliazione, il presidente del Tribunale determinò in via provvisoria l’assegno di mantenimento a favore della convenuta in lire 400.000 mensili e rimise le parti davanti al giudice istruttore per l’ulteriore corso del processo.
La convenuta L. si costituì e non si oppose al divorzio, ma chiese un adeguamento dell’assegno nella misura minima di lire 500.000 mensili.
All’esito dell’istruzione il Tribunale, con sentenza depositata il 23 luglio 1996, pronunziò la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra le parti; pose a carico del D. il pagamento di un assegno mensile di lire 400.000, da adeguare secondo gli indici Istat su base annua; dichiarò compensate le spese del giudizio.
Il D. propose appello, chiedendo la riforma della sentenza nella parte in cui aveva riconosciuto alla L. il diritto ad un assegno di divorzio. A sostegno del gravame addusse che i presupposti per il riconoscimento di tale assegno non ricorrevano perché non era provata l’effettiva impossibilità per la convenuta di procurarsi da sola i mezzi necessari al suo sostentamento. L’appellante osservò, inoltre, che il Tribunale, nel determinare la misura dell’assegno, non aveva considerato la brevissima durata del matrimonio (appena sette mesi fino alla comparizione delle parti nella fase presidenziale del giudizio di separazione) e il fatto che l’ex casa coniugale e il relativo arredo erano stati acquistati dal medesimo appellante in epoca anteriore alla celebrazione del matrimonio. Egli, infine, dichiarò che – quale sottoufficiale dei carabinieri – riceveva uno stipendio netto di circa lire 2.500.000 al mese, col quale doveva provvedere non soltanto al proprio mantenimento ma anche a quello della sua convivente, dalla quale aveva avuto due figlie ancora in tenera età.
L’appellata si costituì per resistere al gravame, del quale contestò la fondatezza chiedendone il rigetto.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza depositata il 13 luglio 1999, in parziale accoglimento dell’impugnazione determinò in lire 300.000 mensili, da rivalutare annualmente in base agli indici Istat, la misura dell’assegno dovuto dal D. alla L. e dichiarò compensate tra le parti le spese del grado.
La Corte territoriale considerò:
che, quanto al primo motivo, secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza condizioni indispensabili per il riconoscimento dell’assegno di divorzio (avente natura assistenziale) erano la mancanza, per il coniuge che lo richiedeva, di mezzi adeguati o l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive e l’inferiorità della sua posizione economica rispetto all’altro coniuge, mentre gli altri criteri (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, reddito di entrambi), valutati e confrontati alla luce della durata del matrimonio, erano destinati ad operare soltanto se l’accertamento dell’unico elemento obiettivo si fosse risolto positivamente;
che, nel caso in esame, dalla documentazione prodotta dalla L. risultava che costei era iscritta come disoccupata nelle liste di collocamento e dalle certificazioni mediche, inoltre, emergeva che l’appellata era affetta da “nevrosi reattiva con note fobico-ossessive in soggetto psicolabile”, malattia per la quale era sconsigliato l’espletamento di attività lavorative;
che, pertanto, poiché l’appellata aveva provato di essere priva di adeguati mezzi economici per ragioni indipendenti dalla sua volontà, il giudizio espresso dal Tribunale in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il riconoscimento del diritto all’assegno andava condiviso;
che, invece, il secondo motivo d’impugnazione, col quale il D. aveva contestato la congruità dell’assegno di divorzio fissato dal primo giudice, appariva parzialmente fondato, perché una ponderata valutazione dei criteri indicati dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, messi anche in relazione alla breve durata della convivenza matrimoniale, conduceva a ritenere equa una riduzione dell’assegno medesimo a lire 300.000 mensili, da adeguare annualmente secondo gli indici Istat, in quanto tale somma si rivelava più aderente alle concrete possibilità economiche del D., avuto riguardo allo stipendio riscosso dall’appellante e all’esigenza di provvedere anche al mantenimento della sua nuova compagna e delle due figlie avute dalla stessa.
Contro la suddetta sentenza il D. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo, illustrato con memoria. L’intimata non ha svolto in questa sede attività difensiva.
Motivi della decisione
Con l’unico mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 (come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) e dell’art. 116 c.p, c., nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civile.
La legge n. 74 del 1987, modificando la precedente disciplina dell’assegno di divorzio, avrebbe subordinato l’attribuzione di tale assegno alla sola circostanza che il coniuge economicamente più debole non abbia mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni obiettive.
La sola mancanza di mezzi adeguati, dunque, non sarebbe più sufficiente per il riconoscimento dell’assegno, essendo altresì necessario che il soggetto non possa procurarseli per ragioni obiettive.
La Corte territoriale avrebbe confermato a carico del D. l’obbligo di pagare il detto assegno facendo leva sia sull’iscrizione della L. nelle liste di collocamento sia sulle certificazioni mediche in atti, mentre una corretta interpretazione dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 (testo vigente) e l’applicazione dei principi elaborati da questa Corte avrebbero dovuto condurla a soluzione opposta.
La sentenza impugnata, infatti, si porrebbe in contrasto sia con la ratio legis, che avrebbe inteso escludere la possibilità per un coniuge di vedersi riconoscere pure rendite di posizione, sia con il principio enunciato da questa Corte secondo cui “in tema di divorzio, il coniuge che richiede l’assegno di cui al comma sesto dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, mentre può limitarsi a dedurre di non avere i mezzi adeguati, trasferendo così sulla controparte l’onere probatorio della contraria verità, allorché deduce invece la impossibilità per ragioni obiettive di procurarsi quei mezzi ha l’onere di provare il fondamento di tale situazione”. Nel caso in esame la Corte di appello sarebbe incorsa in palese contraddizione, nel ritenere raggiunta la prova dell’impossibilità per l’intimata di procurarsi propri mezzi di sostentamento, sulla base di due documenti tra loro in contrasto, cioè l’iscrizione al collocamento effettuata dalla donna per essere avviata al lavoro ed un certificato medico che escluderebbe la capacità lavorativa della stessa donna.
La contraddizione risulterebbe ancor più evidente considerando che la L., nata nel 1969, avrebbe un’età che la porrebbe in grado di svolgere qualunque attività lavorativa, onde la prova dell’impossibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento dovrebbe essere offerta in modo rigoroso e non con un semplice certificato medico non supportato da altri documenti.
Inoltre la detta impossibilità non sarebbe provata dall’iscrizione nelle liste di collocamento, di per sé insufficiente a dimostrare di avere fattivamente ricercato l’inserimento in un’attività lavorativa, circostanza in relazione alla quale mancherebbe in atti qualsiasi prova.
Richiamati ancora i principi affermati da questa Corte per il riconoscimento dell’assegno, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non avrebbe dato la necessaria rilevanza al brevissimo periodo di convivenza coniugale che avrebbe caratterizzato il matrimonio de quo, pur documentato in atti (in realtà inferiore a sette mesi). Sarebbe stato legittimo chiedersi se una convivenza coniugale così breve fosse idonea a giustificare il riconoscimento del diritto ad un assegno di divorzio, soprattutto quando il coniuge richiedente sia in giovanissima età e manchi una prova certa in grado di escludere che il medesimo sia in condizioni di procurarsi adeguati mezzi di sostentamento.
La soluzione negativa si imporrebbe anche alla luce di un altro principio, del pari disapplicato dalla Corte territoriale, secondo cui nell’accertamento delle capacità patrimoniali dell’obbligato il giudice deve tenere conto del reddito di quest’ultimo al netto delle spese di produzione e degli oneri derivanti dalla contribuzione ai bisogni di una nuova famiglia, costituita dall’obbligato medesimo dopo il divorzio.
Il ricorso non ha fondamento.
La Corte territoriale ha avuto ben presente il principio di diritto secondo cui, nell’ambito del sistema normativo introdotto con la legge n. 74 del 1987, l’attribuzione dell’assegno di divorzio è subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, essendo gli altri criteri destinati ad operare soltanto se l’accertamento della predetta circostanza attributiva risulti di segno positivo (Cass., 13 maggio 1998, n. 4809, richiamata anche nella sentenza impugnata). Anzi proprio dal suddetto principio ha preso le mosse per motivare poi il convincimento espresso (v. sentenza impugnata, pag. 5).
Passando ad esaminare la fattispecie concreta essa però ha ritenuto: a) che, in base alla documentazione prodotta, l’intimata risultava iscritta come disoccupata nelle liste di collocamento; b) che la medesima intimata, secondo certificazioni mediche rilasciate da uno specialista in psichiatria, era affetta da “nevrosi reattiva con note fobico-ossessive in soggetto psicolabile”, malattia per la quale era sconsigliato l’espletamento di attività lavorative.
Orbene, da queste risultanze documentali la Corte di merito ha desunto, in primo luogo, che la donna era priva di mezzi economici adeguati (per tali dovendosi intendere quelli idonei a garantirle lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio). Questo apprezzamento di fatto, basato sullo stato di disoccupazione (cioè sulla mancanza di redditi da lavoro) in un contesto processuale nel quale neppure in questa sede si allega la disponibilità di altri mezzi da parte della L., non è illogico né incongruo e dunque si sottrae a sindacato nella presente sede di legittimità.
La Corte romana, altresì, dalle certificazioni mediche prodotte ha tratto il convincimento che l’intimata avesse fornito la prova di non essere in grado di procurarsi quei mezzi per ragioni indipendenti dalla sua volontà, individuate nello stato di malattia (nevrosi reattiva in soggetto psicolabile) documentato dalle suddette certificazioni.
Al riguardo va in primo luogo osservato che la contraddizione denunziata dal ricorrente (tra iscrizione al collocamento e risultanze dei certificati medici) non sussiste. L’iscrizione al collocamento, infatti, rivela sia lo stato di disoccupazione sia la volontà e la disponibilità a cercare un inserimento nel mondo del lavoro, mentre lo stato patologico emergente dai certificati medici esprime un’oggettiva difficoltà a conseguire quel risultato, ad onta della giovane età del soggetto. I due dati, lungi dall’essere tra loro in contrasto, in realtà si integrano e danno conto del convincimento cui la Corte è pervenuta, sulla base ancora una volta di un apprezzamento di fatto che, essendo sufficientemente motivato con indicazione delle fonti cui quel convincimento si collega, non è censurabile in questa sede.
Gli ulteriori rilievi del ricorrente – circa una (presunta) insufficienza probatoria degli elementi documentali richiamati – si risolvono in effetti in apprezzamenti di fatto diversi da quelli compiuti dalla Corte territoriale e non sono perciò idonei ad integrare i vizi di motivazione rilevanti nel quadro dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civile.
Ad analoghe conclusioni bisogna giungere con riguardo alle censure secondo cui la Corte di appello non avrebbe dato “la necessaria rilevanza” al brevissimo periodo di convivenza coniugale che caratterizzò il matrimonio de quo né avrebbe tenuto conto dell’esigenza del D. di provvedere ai bisogni della sua nuova famiglia. La sentenza impugnata ha valutato la breve durata della convivenza matrimoniale (pag. 6), nonché le concrete possibilità economiche dell’attuale ricorrente e la necessità di provvedere anche al mantenimento della nuova famiglia (pag. 7). E proprio in base a tale ponderata valutazione ha accolto parzialmente il secondo motivo d’impugnazione, riducendo a lire 300.000 mensili l’assegno di divorzio.
In questo quadro la tesi secondo cui la Corte napoletana avrebbe dovuto escludere in toto il diritto all’assegno non può trovare ingresso. Essa, infatti, postula un sindacato di merito e sul merito che è estraneo ai limiti del giudizio di legittimità.
Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto.
Nessuna pronunzia va adottata in ordine alle spese del giudizio di cassazione, perché l’intimata non ha svolto in questa sede attività difensiva.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso come in narrativa proposto da G. D. nei confronti di F. L..
La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per insidia stradale non è esclusa dal comportamento colposo del danneggiato Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 3 dicembre 2002, n. 17152
Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 3 dicembre 2002, n. 17152
La responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per insidia stradale non è esclusa dal comportamento colposo del danneggiato
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 6.12.1990, De Carli Antonio conveniva davanti al tribunale di Sondrio Da Prada Silvio, il comune di Mazzo di Valtellina e Pozzi Enrico, per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni, assumendo che il 6.9.1987, mentre percorreva con la sua auto la strada Grosotto-Mazzo, si era trovato improvvisamente la strada interamente ostruita da una barriera di sacchi di sabbia, contro cui, nonostante la frenata, si era schiantato.
Il Tribunale di Sondrio, con sentenza depositata il 6.7.1998, accertato il concorso di colpa dell’attore nella misura del 50%, condannava i convenuti in solido al risarcimento dei danni nella misura del 50% della somma di 67.764.850, oltre rivalutazione ed interessi.
Proponevano appello i convenuti.
La Corte di appello di Milano, con sentenza depositata il 21.11.2000, rigettava la domanda nei confronti del Da Prada e confermava nel resto la sentenza impugnata.
Riteneva la corte di merito che andava affermata la responsabilità del comune e del sindaco Pozzi, poiché la barriera di sacchi ostruiva tutta la strada e non era segnalata.
La corte riteneva che era accertata la rimozione di altra barriera posta all’imbocco della strada, in modo da renderla transitabile; che la barriera di sacchi costituiva un’insidia poiché era imprevedibile e non facilmente avvistabile su una strada a scorrimento veloce; che, poiché la barriera era apposta all’uscita di una curva, era difficile stabilire a quale distanza essa fosse avvistabile, tenuto conto che per il colore dei sacchi la barriera si mimetizzava con l’ambiente, anche se la distanza teorica era a circa 100/130 metri.
Inoltre riteneva la corte che la responsabilità del comune derivava anche dalla violazione del disposto dell’articolo 8 del codice della strada all’epoca vigente, che prevedeva l’apposizione di segnalazioni per eventuali ostacoli sulla strada.
Secondo la corte sussisteva il concorso di colpa del danneggiato, poiché egli procedeva a velocità non inferiore a 110 km/h, e quindi superiore a quella che poteva tenersi in quella strada (pari a 100 km/h), e poiché egli sapeva che la strada da lui percorsa si trovava in area evacuata fino a poche ore prima, per la nota alluvione della Valtellina, per cui avrebbe dovuto tenere una velocità moderatissima ed una condotta di guida attenta.
Secondo la corte andava respinto l’appello del Pozzi, sindaco del comune, ravvisando la sua colpa grave nell’aver autorizzato la rimozione degli ostacoli all’imbocco della strada, senza contemporaneamente rimuovere anche quelli posti lungo il percorso.
Avverso questa sentenza hanno proposto autonomi ricorsi per cassazione Pozzi Enrico ed il comune di Mazzo.
Resiste con autonomi controricorsi De Carli Antonio, che ha presentato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi, a norma dell’articolo 335 c.p.c.
Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi, entrambi i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 c.c. e 41, comma 2, c.p., in relazione all’articolo 366, n. 3, c.p.c., nonché la contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Lamentano i ricorrenti che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la barriera di sacchi integrasse un’insidia stradale; che, allorché il fatto del danneggiato abbia interrotto la connessione dei fatti privando il fatto illecito antecedente di efficacia causale, non può affermarsi la responsabilità del terzo; che tanto si è verificato nella fattispecie, in quanto la stessa corte territoriale ha riconosciuto che, se il De Carli avesse guidato con la dovuta prudenza, avrebbe avuto la possibilità di arrestare l’auto nello spazio di avvistamento della barriera; che, quindi, la motivazione della sentenza violava i principi in tema di causalità efficiente o causalità giuridica.
Con il secondo motivo dei rispettivi ricorsi, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2043 c.c. con riferimento alla sussistenza della condotta colposa del comune di Mazzo, a norma dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Lamentano i ricorrenti che la sentenza impugnata in modo contraddittorio ha ritenuto che la barriera costituisse un’insidia stradale per quanto essa non fosse né occulta né imprevedibile, poiché la stessa corte – nell’affermare il concorso di colpa del danneggiato – ha ritenuto che i gravi eventi alluvionali comportavano la possibilità della presenza di ostacoli e di dissesti. Conseguentemente, secondo i ricorrenti, la barriera in questione non costituiva un pericolo occulto e non visibile, sussistendo invece la sola colpa del danneggiato.
Ritiene questa Corte che i motivi suddetti vadano esaminati congiuntamente.
Esso sono infondati e vanno rigettati.
Anzitutto non sussiste la lamentata violazione degli articoli 2043 c.c. e 41 c.p.
Infatti, a parte la dibattuta questione se la norma di cui all’articolo 1223 c.c. regoli il nesso di causalità giuridica, mentre il nesso di causalità materiale sia regolato esclusivamente dai principi di cui agli articoli 40 e 41 c.p., con conseguente distinzione tra causalità di fatto (contenuta nella struttura dell’illecito ed avente come referenti le predette norme penali) e causalità giuridica (contenuta nella struttura della valutazione del danno, di cui agli articoli 2056-1223 c.c.), sta di fatto che, per giurisprudenza pacifica il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito, deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della cosiddetta regolarità causale (Cassazione 1857/98; 2009/97; 11087/93; 65/1989; 6325/87).
Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiono del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale, in realtà, come è stato esattamente osservato, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno).
Peraltro il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’articolo 40 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’articolo 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale dal rendere irrilevante le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale gia in atto (Cassazione 268/96).
Questa interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cassazione 6640/98; 2737/88).
Quando invece, il comportamento colposo del soggetto danneggiato non sia stato tale da interrompere il nesso di causalità tra il fatto del terzo e l’evento dannoso, ma abbia solo concorso nella produzione dell’evento, la fattispecie è regolata dall’articolo 1227, comma 1, c.c. (concernente il concorso del fatto colposo del creditore), che afferma il principio secondo cui il danno che taluno arreca a sé medesimo non può essere posto a carico dell’autore della causa concorrente (Cassazione 2763/97).
Il problema si complica in tema di responsabilità della pubblica amministrazione per la manutenzione delle strade (da intendersi nella più ampia accezione).
Sussiste un contrasto in merito alla tutela apprestata per l’utente di una strada pubblica che, dall’uso di questa, abbia subito un danno.
Secondo l’orientamento predominante questa tutela è esclusivamente quella predisposta dall’articolo 2043 c.c., osservandosi che la pubblica amministrazione incontra nell’esercizio del suo potere discrezionale, anche nella vigilanza e controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere (articolo 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia stradale (Cassazione 3991/99; 7062/97; 7742/97; 5989/98 e molte altre).
Un orientamento minoritario, invece, riconduce la responsabilità della pubblica amministrazione, proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall’utente di detta strada, alla disciplina di cui all’articolo 2051 c.c., assumendo che la pubblica amministrazione, quale custode di detta strada, per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell’articolo 2051 c.c., deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato dell’esistenza dell’insidia, che questi, invece, non deve provare, così come non ha l’onere di provare la condotta commissiva o omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l’evento dannoso ed il nesso di causalità con la cosa (Cassazione 4070/98; 11149/98; 4673/96).
La soluzione del contrasto non è rilevante nella fattispecie, poiché nelle fasi di merito (ed in questa di legittimità) è stata invocata solo la tutela ex articolo 2043 c.c., per cui non potrebbe essere sollevata d’ufficio, per la prima volta in sede di legittimità, questione della responsabilità dell’articolo 2051 c.c. (cfr. Sezioni unite 10893/01; Cassazione 5677/86; 490/79).
Sennonché una volta inquadrata (esclusivamente per la predetta preclusione processuale) la tutela in questione nell’ambito dell’articolo 2043 c.c., limitandola all’ipotesi dell’esistenza dell’insidia stradale, si pone il problema della compatibilità della stessa con il concorso di colpa del danneggiato (sclusa generalmente dalla giurisprudenza di merito).
Il problema è rilevante nella fattispecie, poiché i ricorrenti lamentano proprio la contraddittorietà motivazionale tra l’affermazione della loro responsabilità per la ritenuta esistenza dell’insidia stradale e il comportamento concorrente imprudente del danneggiato.
È vero che la censura sollevata attiene al profilo motivazionale della sentenza, e quindi alla ricostruzione del caso concreto, ma ovviamente, se già in astratto detta compatibilità tra “l’insidia stradale” ai fini dell’articolo 2043 c.c. e l’articolo 1227, comma 1, c.c. non sussistesse, a maggior ragione in concreto sarebbe contraddittoria una ricostruzione fattuale che la ritenesse sussistente.
L’intera problematica è stata recentemente esaminata da una sentenza della Corte costituzionale (156/99) a seguito di una ordinanza del giudice di pace di Genova che, investito della risoluzione di una controversia promossa da un privato contro il comune di Genova per i danni subiti a causa di una caduta da un motociclo prodotta dalla presenza, astrattamente percepibile in anticipo ma non segnalata, di terriccio su una strada comunale, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2043, 2051 e 1227, primo comma, c.c. in rapporto agli articoli 3, 24 e 97 della Costituzione.
La Corte costituzionale, nel ritenere non fondata la questione, richiamato il principio di autoresponsabilità a carico degli utenti “gravati di un onere di particolare attenzione nell’esercizio dell’uso ordinario, diretto del bene demaniale per salvaguardare appunto la propria incolumità”, ha tra l’altro considerato la nozione di insidia, “come una sorta di figura sintomatica di colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità in esame”.
Il giudice delle leggi ha poi rilevato, quale corollario della teoria dell’insidia o del trabocchetto, posta a base della responsabilità della pubblica amministrazione in questa materia ex articolo 2043 c.c., che i caratteri della non visibilità oggettiva e della non prevedibilità soggettiva, che debbono connotare tale situazione di pericolo, comportano l’inapplicabilità del concorso di colpa sancito dall’articolo 1227, primo comma, c.c., “Istanti evidenti ragioni di incompatibilità logica fra un possibile concorso di colpa del danneggiato e la stessa nozione di insidia, essendo questa contraddistinta dai caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità del pericolo”.
Cosicché o il fatto è imputabile alla pubblica amministrazione con conseguente diritto al risarcimento integrale del danno oppure il fatto medesimo è anche solo in parte riconducibile al danneggiato, ed in tal caso per quest’ultimo non sussisterà alcun diritto di natura risarcitoria (opinione diffusa nella giurisprudenza di merito).
Ritiene questa Corte di non poter condividere detto principio di incompatibilità, già in astratto, tra responsabilità della pubblica amministrazione per danno provocato da anomalia della strada, avente le caratteristiche dell’insidia, ex articolo 2043 c.c., ed il concorso di colpa del danneggiato, a norma dell’articolo 1227, comma 1, c.c.
Va anzitutto osservato che la regola che prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato è un approdo dei codici moderni. In passato, invece, l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui.
Nei sistemi di common law si parlava di contributory negligence, mentre in quelli di origine romanistica ci si richiamava alla nota regola di Pomponio “quod quis ex culpa sua damnum sensit non intelligitur damnum sentire”. L’inversione di tendenza in Italia iniziò con la giurisprudenza dei primi decenni del 1900 e poi fu tradotta nella norma di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c., del codice vigente. Attualmente tutti gli ordinamenti hanno recepito detto principio (il diritto inglese ha sostituito la contributory negligence con la comparative negligence).
Ritenere che la responsabilità della pubblica amministrazione, proprietaria della strada pubblica (o del bene demaniale) sussista, ex articolo 2043 c.c., solo nel caso di insidia stradale e, contemporaneamente, sostenere che essa è incompatibile già in astratto con il fatto colposo del danneggiato, per cui l’esistenza di questo esclude la responsabilità della pubblica amministrazione, di fatto comporterebbe il riaffacciarsi del superato principio che la concorrente colpa del danneggiato fa venir meno la responsabilità del danneggiante.
La tesi dell’incompatibilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c. e della responsabilità della pubblica amministrazione per l’insidia stradale ex articolo 2043 c.c. si fonda sul presupposto, ritenuto dalla dottrina classica, che nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall’articolo 1227, comma 1, c.c., oltre che da altre norme, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza. L’autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni, che potrebbero colpirli. Senza entrare nella questione ordinamento del detto principio, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c. sia espressione del principio dell’autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile, sicché la colpa, cui fa riferimento l’articolo 1227, comma 1, c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’articolo 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
Sempre nella tesi causalistica, quale fondamento dell’articolo 1227, comma 1, c.c., rientra anche quello orientamento che ritiene che l’articolo 1227 c.c. rappresenta un’ipotesi particolare della generale previsione di responsabilità solidale di cui all’articolo 2055 c.c. (cfr. Cassazione 20.11.1991), tenuto conto che la norma di cui all’articolo 2055 c.c. viene inquadrata dalla dottrina dominante nell’ambito del nesso di causalità.
La questione del comportamento colposo del danneggiato, come influente esclusivamente sul nesso causale, è stata positivamente esaminata, in particolare, in relazione al caso fortuito, come elemento liberatorio del custode dalla sua responsabilità ex articolo 2051 c.c., e già in detta sede si è rilevato che, se il comportamento colposo del danneggiato nella fattispecie concreta non è idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno, costituita dalla cosa in custodia, ed il danno, esso può anche integrare il concorso colposo del danneggiato nella produzione del danno ai fini dell’articolo 1227, comma 1, c.c. (cfr. Cassazione 3957/94; 7727/00).
Così inquadrata la norma di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c., va osservato che il principio per cui la responsabilità dell’ente gestore sussiste quando il danno ha trovato causa in un’insidia stradale, da figura sintomatica della colpa, come è stato notato, è passata a costituire un’autonoma figura di illecito; il risultato di un’operazione di semplificazione analitica della fattispecie in rapporto alla distribuzione degli oneri probatori, con il tempo è stato inteso come regola sostanziale.
In effetti detta regola sostanziale manca, sussistendo solo quella generale di cui all’articolo 2043 c.c.
Sennonché una volta recuperata all’insidia stradale la sola funzione di figura sintomatica della colpa della pubblica amministrazione riportando la fattispecie nell’ambito dell’articolo 2043 c.c. ed una volta riconosciuto all’articolo 1227, comma 1, c.c., la funzione di regolare, ai fini della causalità di fatto, l’efficienza causale del fatto colposo del leso, con conseguenze sulla determinazione dell’entità del risarcimento (causalità giuridica), ne deriva che ben può concorrere nella produzione del danno all’utente stradale sia il fatto colposo della pubblica amministrazione, poiché la specifica anomalia stradale, rivestendo i caratteri dell’insidia, si presume colposa, sia il fatto colposo del leso, che abbia avuto carattere efficiente dell’evento dannoso, determinando – in buona sostanza – un concorso di cause.
Quindi il nesso di causalità tra la situazione di pericolo e l’evento dannoso, non viene meno già in astratto, solo perché l’utente abbia tenuto un comportamento irregolare. Ciò può esserlo nella specifica situazione concreta (e dovrà accertarlo il giudice di merito), ma non per un’incompatibilità tra la responsabilità della pubblica amministrazione ex articolo 2043 c.c. per cosiddetta insidia stradale ed il concorso colposo del danneggiato ex articolo 1227, comma 1, c.c.
La sostenuta inapplicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c. alle fattispecie in esame, oltre a non essere giustificata sul piano dei principi, determina una singolare situazione per la quale la pubblica amministrazione può concorrere con il fatto colposo del terzo nella causazione del danno all’utente stradale (ex articolo 2055 c.c.), ma non ex articolo 1227, comma 1, c.c. con il fatto colposo dello stesso danneggiato.
Ne consegue che il consociato fruitore di un bene demaniale, in ossequio al fondamentale principio di giustizia sostanziale, trasfuso nell’articolo 1227, comma 1, c.c. non ha diritto di vedersi riconosciuto il risarcimento di quella parte di danno che è ascrivibile alla sua condotta colposa, ma non certo anche che la sola esistenza di questa esclude – già in astratto – ogni responsabilità della pubblica amministrazione, sia pure nei limiti dell’insidia stradale, sussistendo solo un’ipotesi di autoresponsabilità del leso.
Se infatti si sostenesse che il solo concorso del fatto colposo del danneggiato già in astratto esclude una responsabilità della pubblica amministrazione, si giungerebbe a ritenere che l’unico elemento soggettivo rilevante nella fattispecie è quello del danneggiato, nel senso che, se esso è stato diligente, vi è responsabilità della pubblica amministrazione in presenza dell’insidia stradale, mentre, se esso è stato colposo, la responsabilità della pubblica amministrazione è esclusa.
Ciò introdurrebbe un nuovo elemento nella responsabilità aquiliana, non previsto dall’articolo 2043 c.c., e cioè la mancanza di diligenza del danneggiato, rilevante, invece, non ai fini della responsabilità del danneggiato, ma ai fini del concorso colposo del danneggiato.
Ciò produrrebbe anche un’inversione dei normali criteri operativi dell’actio aquiliana, perché il danneggiato sarebbe tenuto a dimostrare che il danno si è verificato nonostante la sua diligenza.
La conseguenza di quanto sopra detto è che, anche a ritenere colposa la responsabilità della pubblica amministrazione nei confronti dell’utente della strada nei soli casi di insidia o trabocchetto stradale, essa, in astratto, non è incompatibile con il concorso del fatto colposo del danneggiato, dovendosi valutare in concreto, da parte del giudice del merito, l’entità del rapporto causale del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso.
Nella fattispecie la sentenza impugnata non ha effettuato alcuna violazione o falsa applicazione dei suddetti principi di diritto e delle norme indicate dai ricorrenti, avendo ritenuto che il comportamento del danneggiato aveva solo concorso nella produzione dell’evento dannoso, ma non era stato tale da determinarlo in via esclusiva.
Diventa poi una questione attinente alla motivazione della sentenza, il punto se effettivamente il comportamento del danneggiato abbia solo concorso alla produzione dell’evento ovvero abbia in modo esclusivo determinato lo stesso.
Va, sotto questo profilo, premesso che gli apprezzamenti del giudice del merito sulla sussistenza del nesso di causalità e della colpa di un soggetto nella produzione di un evento dannoso si risolvono in un giudizio di fatto, che, se immune da errori giuridici e vizi logici, si sottrae al sindacato in sede di legittimità (Cassazione 9794/98; 3939/96).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che il comportamento dei convenuti fosse connotato sia da colpa generica, per aver aperto al transito una strada senza rimuovere poi gli ostacoli posti sul suo percorso e senza aver adeguatamente presegnalato l’esistenza della barriera in sacchi, sia da colpa specifica, per non aver adempiuto agli obblighi di segnalazione previsti dall’articolo 8 codice stradale per l’esistenza di ostacoli fissi e di grosse dimensioni posti sulla sede stradale.
Anche a voler ritenere che la mancata apposizione dei segnali, nella costruzione motivazionale della sentenza, non svolga un ruolo autonomo nella causazione del danno, ma sia un elemento determinante (insieme ad altri) della sussistenza dell’insidia stradale, va rilevato che è immune da censure rilevabili in questa sede di legittimità l’accertamento dell’esistenza di detta insidia.
Infatti, il giudice di merito, fondandosi sulle risultanze dalla ctu, ha accertato che lo sbarramento dell’intera strada a scorrimento veloce costituito da sacchi di sabbia, posto all’uscita di una curva, con vegetazione prima della barriera, non facilmente avvistabile per la mimetizzazione data dal colore dei sacchi, e non segnalato come previsto dall’articolo 8 codice stradale, costituiva un’insidia gravissima, siccome del tutto imprevedibile e non facilmente avvistabile, proprio in relazione al tipo di viabilità.
Trattasi di valutazione di merito, riservata al giudice di merito ed immune da censure, rilevabili in questa sede.
Né essa è contraddittoria con il ritenuto concorso di colpa del danneggiato.
Una volta esclusa in astratto l’incompatibilità tra la responsabilità della pubblica amministrazione per danni all’utente della strada causati da insidia stradale ed il concorso di colpa del danneggiato, diventa una questione di merito accertare se il fatto colposo del danneggiato abbia concorso a causare il danno ovvero l’abbia determinato in modo autonomo.
Nella fattispecie, con valutazione immune da censure, il giudice di appello, in conformità a quanto ritenuto dal primo giudice, ha accertato che sussisteva detto concorso del fatto del danneggiato, consistente nella velocità eccessiva di km/h 110, a fronte del limite massimo di km/h 100, e che la stessa era imprudente e pericolosa in relazione alle condizioni di tempo e di luogo, tenuto conto che la zona era stata evacuata fino a poche ore prima per la notoria alluvione della Valtellina, senza escludere che le omissioni ascrivibili alla pubblica amministrazione abbiano creato un’insidia stradale.
Con il terzo motivo di ricorso il solo Pozzi Enrico lamenta l’insufficiente e contraddittoria motivazione intorno alla sussistenza della colpa grave nella condotta del sindaco, a norma dell’articolo 360 n. 5 c.p.c.
Assume il ricorrente che nella fattispecie non risulta la colpa grave del sindaco Pozzi, necessaria per affermare la sua responsabilità.
Secondo il ricorrente in una situazione di gravità e di emergenza, quale l’alluvione della Valtellina che aveva determinato l’evacuazione di intere zone, note a tutti gli abitanti della provincia di Sondrio, non può ritenersi che il Pozzi fosse tenuto a segnalare lo stato di pericolo connaturato alla stessa eccezionalità della situazione.
Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.
Osserva preliminarmente questa Corte che la responsabilità civile personale dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici in caso di violazione dei diritti dei terzi, a norma dell’articolo 28 Costituzione – che si applica anche ai soggetti, come i sindaci dei comuni, svolgenti funzioni pubbliche senza essere legati all’ente pubblico da un rapporto di servizio – non presuppone necessariamente l’abuso delle funzioni di ufficio per il perseguimento di fini personali, essendo sufficiente l’imputabilità almeno colposa dell’atto dannoso al pubblico amministratore o dipendente, derivante da violazione delle regole di comune prudenza o di leggi o regolamenti alla cui osservanza la pubblica amministrazione sia vincolata, salvo specifica determinazione da parte del legislatore ordinario del grado di colpevolezza, così come operato con l’articolo 23 Testo unico 3/1957 sugli impiegati dello Stato, che richiede la colpa grave, applicabile, in difetto di regolamentazioni specifiche (cfr. peraltro l’articolo 58 legge 142/90, di rinvio, per gli amministratori e per il personale degli enti locali, alle disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civili del lo Stato), anche alle altre categorie di soggetti responsabili, in via analogica o in quanto espressione di un principio generale (Cassazione 1890/00).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che sussistesse la colpa grave del sindaco Pozzi per aver egli disposto la rimozione della barriera all’ingresso della strada senza contemporaneamente disporre la rimozione dell’altra barriera posta al termine della stessa.
Trattasi di valutazione del fatto, riservata al giudice di merito, che, essendo immune da vizi motivazionali rilevabili in sede di legittimità, non può essere sindacata in questa sede.
I ricorsi vanno pertanto rigettati.
Esistono giusti motivi per compensare tra le parti per intero le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta.
Compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
Criteri dell’assegno divorzile Cass., sez. I, Sentenza n.7541 del 13 aprile 2001
Cass., sez. I, Sentenza n.7541 del 13 aprile 2001, sui criteri dell’assegno divorzile
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 26 giugno 1990, ex art. 4 della legge l° dicembre 1970 n. 898, L. G. chiedeva che il Tribunale di Perugia dichiarasse la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato il 6 settembre 1975 con M. C., dalla quale si era consensualmente separato nel 1986.
La C. si costituiva in giudizio aderendo alla domanda, ma chiedendo l’attribuzione di un assegno di divorzio di lire 2.000.000 mensili, annualmente rivalutabili.
Il Presidente del Tribunale confermava in via provvisoria l’assegno concordato in sede di separazione (lire 550.000 mensili) disponendone la rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT.
Il Tribunale pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio e, con sentenza definitiva del 28 febbraio – 17 aprile 1997, assegnava alla moglie la somma mensile di lire 950.000, annualmente rivalutabile.
Con sentenza del 20 maggio – 30 giugno 1999, la Corte di appello di Perugia confermava la decisione di primo grado, respingendo le impugnazioni proposte dalle parti.
Osservava, in particolare, per quanto rileva in questa sede:
a) che l’assegno dì divorzio ha carattere assistenziale e spetta all’ex coniuge che non ha mezzi adeguati in relazione al tenore di vita goduto o che avrebbe potuto godere, in costanza di matrimonio;
b) che nella specie era evidente la sproporzione economica risultando dalla documentazione in atti che il G., noto avvocato del Foro perugino, con importanti cariche pubbliche, aveva denunciato per l’anno 1993 un reddito di circa tre volte superiore a quello della ex moglie, la quale, benché laureata, era dipendente, a reddito fisso, di un’industria;
c) che, ai fini della quantificazione dell’assegno, doveva tenersi conto che il matrimonio era durato dieci anni, che le ragioni della decisione era imputabili al marito e che quest’ultimo si era formato una famiglia ed aveva due figli;
d ) che appariva equo l’assegno stabilito dai primi giudici. Avverso la sentenza d’appello L. G.ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
Marisa C. ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 5 comma 6 della n. 898 del 1970, come modificato dalla legge 6.3.1987 n. 74, anche in relazione a quanto disposto dall’art. 2697 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
1.1. Essere avvocato non è di per sé indice di agiatezza e non comporta, senza necessità di ulteriori dimostrazioni, l’applicazione di un assegno di mantenimento a favore dell’altro coniuge, come invece ritenuto dal Tribunale e recepito dalla Corte di merito, in modo assolutamente superficiale, omettendo di valutare il materiale probatorio raccolto. Le ragioni della decisione valgono ai fini della determinazione dell’assegno ma non ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno per cui vale il solo criterio assistenziale, con la conseguenza che l’accertamento della sussistenza di tali ragioni diventa superfluo quando risulti che il coniuge richiedente fruisca di mezzi adeguati.
Nella specie, i redditi della C. erano sufficienti a conservarle il tenore di vita che ella aveva in costanza di matrimonio ovvero a permetterle lo svolgimento di una vita agiata e serena.
Nel 1993 lo stipendio annuo della C. era di circa lire 58.000.000, pari al reddito del G. al momento della cessazione della convivenza, sicché non vi era uno squilibrio tra i redditi.
Il giudice di merito si era limitato ad affermare che la C. non poteva più avere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, senza che ella, su cui gravava il relativo onere, avesse dimostrato quale fosse stato tale tenore di vita e che fosse intervenuto un apprezzabile deterioramento di esso a causa dell’inadeguatezza dei propri mezzi.
Né, secondo la giurisprudenza, il deterioramento poteva desumersi dalla mera circostanza di un sensibile divario di condizioni reddituali in danno del coniuge richiedente, specie quando il reddito di quest’ultimo, ancorché inferiore a quello dell’altro, sia in assoluto di importo elevato.
Il G. dopo la separazione non aveva mutato le proprie condizioni di vita e si era limitato ad acquistare una casa di abitazione, grazie alla vendita di altri immobili pervenuti per successione, alla stipula di un mutuo ed all’aiuto economico dell’attuale moglie.
La vendita di beni immobili pervenuti in eredità dopo il divorzio non costituisce un elemento determinativo del tenore di vita non essendo tale evento collegato in alcun modo alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio.
2. Il motivo non è fondato.
2.1. L’accertamento del diritto all’assegno divorzile (di carattere esclusivamente assistenziale) va effettuato verificando l’inadeguatezza dei mezzi (o l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive) del coniuge richiedente, raffrontata, ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del rapporto, fissate al momento del divorzio.
Tale accertamento va compiuto mediante una duplice indagine, attinente all’ “an” ed al “quantum”, nel senso che il presupposto per la concessione dell’assegno è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre) a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, non essendo necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto (il quale può essere anche economicamente autosufficiente) e rilevando, invece, l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche (Cass. 17 marzo 2000 n. 3101; cfr. pure Cass. 22 giugno 199 n. 6307, 29 ottobre 1999 n. 12182).
2.2. Secondo quanto già affermato da questa Corte, il coniuge che richiede l’assegno divorzile, per provare che la sua situazione patrimoniale e reddituale non consente la conservazione di un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio, ha l’onere di fornire la dimostrazione della fascia socio-economica di appartenenza della coppia all’epoca della convivenza e del relativo stile di vita adottato “manente matrimonio”, nonché l’attuale situazione economica (Cass. 16 giugno 2000 n. 8225; vedi pure Cass. 8 febbraio 2000 n. 1379, 28 luglio 1999 n. 8183, 21 agosto 1997 n. 7799).
2.3. Nel caso in esame, la Corte territoriale, dopo aver osservato che l’assegno ha carattere assistenziale e riequilibrativo e che l’adeguatezza dei mezzi va valutata non in relazione al parametro di una vita autonoma e dignitosa, ma al tenore di vita goduto, o che avrebbe potuto godersi, in costanza di matrimonio, ha preso come riferimento temporale l’anno 1993, e cioè un’epoca in cui i coniugi erano già separati (dal 1986) ed era pendente (dal 1990) il giudizio di divorzio.
La Corte di appello si è espressa nei seguenti termini: “Nella specie risulta dalla documentazione in atti che il G. – noto avvocato del Foro perugino, con importanti cariche pubbliche – ha denunciato per l’anno 1993 un reddito di circa tre volte superiore a quello della ex moglie, la quale è, benché laureata, pur sempre una lavoratrice a reddito fisso, dipendente da un’industria. Evidente è quindi la odierna sproporzione economica della donna rispetto alla disponibilità economica di cui poteva godere in costanza di matrimonio ed evidente è il conseguente inferiore tenore di vita odierno della stessa”.
2.4. Pur se la Corte territoriale ha fatto riferimento ai redditi delle parti nel 1993, quando i coniugi erano già separati, essa ha evidentemente ritenuto, per il tipo di posizione acquisita dal G., che tale situazione non fosse dovuta a fatti sopravvenuti i quali fossero estranei alle aspettative già presenti durante la convivenza matrimoniale.
E’ evidente, infatti, che la qualità di “noto avvocato del Foro perugino, con importanti cariche pubbliche” si acquisisce nel tempo a meno che non intervengano fattori eccezionali, che nel caso in esame non risultano però nemmeno dedotti.
3. Con il secondo motivo (indicato con il n. 3) il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di quanto disposto dall’art. 2697 c.c., anche per omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia.
3.1. Per dimostrare, senza invertire l’onere della prova, che la C. non aveva diritto all’assegno di divorzio, sia perché percepiva redditi tali da assicurarle una vita agiata sia perché le sue condizioni di vita non erano mutate in conseguenza della separazione, il G. aveva richiesto l’ammissione di specifici mezzi di prova (prove testimoniali, consulenza tecnica, ispezioni) che erano stati completamente trascurati dai giudici di merito, i quali non avevano spiegato le ragioni per cui tali prove non avevano avuto ingresso nel processo.
La sentenza era quindi viziata per la mancata assunzione di una prova decisiva.
4. Nemmeno questo motivo è fondato.
4.1. Poiché il giudice d’appello ha ritenuto – con una motivazione insindacabile in sede di legittimità, in assenza di vizi logici o giuridici – che gli elementi in atti, relativi alle posizioni lavorative delle parti ed al livello dei redditi rispettivi, dimostrassero la sussistenza dei diritto della C. all’assegno di divorzio, non era tenuto ad esaminare le prove richieste.
5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
6. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come nel dispositivo, vanno poste a carico del ricorrente, in ragione della soccombenza.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in lire oltre a lire 2.500.000 per onorari.
Decisione sull’attribuzione del cognome del padre al figlio naturale minorenne già riconosciuto dalla madre
Ha natura giurisdizionale e deve essere pronunciata nei confronti di entrambi i genitori.
(Cassazione Sezione I Civile n. 11789 del 21 novembre 1998, Pres. Rocchi, Rel. Criscuolo).
L’art. 262 cod. civ., recante la disciplina del cognome del figlio naturale, stabilisce ne1 primo coma che quest’ultimo assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, attribuendo così rilevanza ad un criterio di priorità. Nello stesso primo comma, però, aggiunge che, se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio naturale assume il cognome del padre. Nel secondo comma, poi, la norma prescrive che, se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre. Il terzo comma, infine, dispone che, nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del padre.
Questa decisione del giudice non può essere considerata come un mero atto amministrativo, ma viene ad incidere sul diritto al nome e, per il tramite di questo, sul diritto all’identità personale (il nesso tra diritto al nome e diritto all’identità è stato già affermato dalla Suprema Corte con sentenza 22 giugno 1985, n. 37693), ossia su diritti soggettivi perfetti.
La Corte Costituzionale, con sentenza 3 febbraio 1994 n. 13, ha riconosciuto che il cognome gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona e che, in quanto tale, costituisce parte essenziale ed irrinunciabile della personalità. Si tratta di tutela di rilievo costituzionale perché il nome, che costituisce il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale, è riconosciuto come bene oggetto di autonomo diritto, riconducibile nell’ambito dell’art. 2 Cost.
Poichè la decisione sull’assunzione del cognome del padre da parte del figlio naturale in età minore ha natura giurisdizionale ed è destinata a fare stato nei confronti di entrambi i genitori, ne consegue che uno di essi non può rimanere estraneo al procedimento. Inoltre in caso di pronuncia in grado di appello, a seguito di reclamo, si deve ritenere ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma secondo della Costituzione.
Collegamento tratto da: http://www.legge-e-giustizia.it/
Meritevole di tutela il contratto tra una coppia di coniugi ed un medico per l’impianto dell’embrione di un figlio da loro concepito nell’utero di una donatrice. Tribunale di Roma, Sez. XI, 14 febbraio 2000
In base agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione
(Tribunale di Roma, Sezione XI, 14 febbraio 2000, Est. Dott.ssa Schettini)
Pubblichiamo il testo integrale del provvedimento in data 14 febbraio 2000.
Letti gli atti,
a scioglimento della riserva che precede,
osserva in fatto:
Con ricorso depositato in data …….. i coniugi …… premesso quest’ultima di essere affetta da sindrome di Rokitansky – Kuster, patologia caratterizzata da una malformazione dell’apparato genitale che determina l’impossibilità di portare a termine la gravidanza, non precludendo, nel suo caso, la capacità di produrre ovociti, esponevano che: nel settembre del 1994 si erano rivolti alla Clinica Almares ed in particolare al dott. Pasquale Bilotta per una consulenza circa l’esistenza di terapie idonee a tale patologia; che escludendo il medico la possibilità di qualsiasi tipo di intervento anche chirurgico, all’inizio del 1995, desiderosi di avere un figlio, avevano nuovamente contattato il ginecologo per procedere ad una fecondazione in vitro con utero surrogato che, effettuata la fecondazione degli ovociti in provetta, in attesa della disponibilità della donatrice, si era reso necessario dare luogo alla crio-conservazione degli embrioni; che si erano rivolti al dott. Bilotta, nel mese di ottobre 1999, dopo 4 anni, conosciuta la disponibilità della Sig.ra …….. come madre surrogata la quale aveva prestato il suo formale consenso all’impianto; che il ginecologo aveva peraltro opposto un fermo rifiuto all’adempimento della prestazione contrattuale, precedentemente dedotta in specifico accordo, affermando che pur non essendo un obiettore di coscienza si sentiva vincolato dal Codice Deontologico – entrato in vigore il 25 giugno 1995 -, che all’art. 41 vietava espressamente l’accesso a pratiche di maternità surrogata, specificavano che il predetto codice era entrato in vigore in epoca successiva alla formazione della volontà contrattuale e che l’accordo intervenuto doveva essere rispettato puntualmente.
Precisavano i ricorrenti che vi era fondato motivo per ritenere che il diritto fosse minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile poiché il rifiuto all’adempimento da parte del dott. Bilotta poteva vanificare la possibilità di procedere all’impianto degli embrioni, lo stato di conservazione dei quali rischiava, infatti, di deteriorarsi irreparabilmente con il trascorrere di un periodo di tempo superiore, nel massimo, a cinque anni; concludevano, pertanto, chiedendo un provvedimento diretto ad autorizzare il medico ad adempiere l’obbligazione assunta avente ad oggetto il trasferimento degli embrioni crio-conservati nell’utero della sig.ra…….
Non si instaurava il contradditorio per mancata costituzione di Pasquale Bilotta il quale, peraltro, si presentava in giudizio per rendere dichiarazioni spontanee.
I ricorrenti producevano documentazione medica inerente il processo di crio-conservazione degli embrioni, casistica sull’attività di proliferazione cellulare degli ovociti fecondati in provetta e successivamente congelati e dati statistici di riferimento sulle gravidanze e consequenziali nascite ottenute con pratiche di maternità surrogata.
Il caso che si esamina introduce una tematica fra le più inquietanti degli ultimi anni, quella della procreazione artificiale, tematica che coinvolge non solo il campo medico, etico, filosofico, religioso, ma anche e soprattutto quello giuridico, ove ancora manca una regolamentazione.
L’errore della giurisprudenza, di fronte a tale lacuna legislativa, potrebbe essere quello di utilizzare modelli normativi inadeguati e superati rispetto alle evoluzioni che si sono venute a determinare in campo genetico conseguenzialmente ai rivoluzionari porgressi della medicina, non sfuggendo al pericolo di decisioni arbitrarie e contrastanti con grave pregiudizio per l’evoluzione e la certezza del diritto.
L’innovazione in campo genetico propone situazioni nuove e diverse nelle quali l’evendo della nascita prescinde dall’accoppiamento, nelle quali la procreazione non è fatto naturale e spontaneo, frutto dell’atto sessuale dell’uomo e della donna, risultando, pertanto, non esaustivo il rinvio ai principi generali ed alle norme dettate in materia di filiazione.
Non è utile che la soluzione sia finalizzata ad accogliere ed ammettere senza controlli adeguati e limiti o a vietare drasticamente con il rischio di operazioni genetiche clandestine, traffici lucrosi e di “turismo procreativo”.
Al di fuori dei limiti di una logica lassista o proibizionista, che segua con sguardo attento e riflessivo, il progredire della ricerca scientifica, processo spontaneo, inarrestabile ed auspicabile, in attesa di una chiara regolamentazione che esamini correttamente e disciplini unitariamente le numerose problematiche in questo campo, il compito del giudice, delicato e difficile perché si trova ad operare in un settore che rappresenta uno degli spazi più intimi della vita privata individuale e familiare, è quello volto alla valutazione globale della singola fattispecie nella giusta rilevanza ed equilibrio tra gli interessi coinvolti contrapposti.
Tali contemperamento e ponderamento, che nascono dall’esigenza di rapportare e confrontare modelli giuridici a modelli culturali e sociali in continua evoluzione, dovrebbero porsi come fattori regolatori e, quindi, non preclusivi per lo sviluppo della scienza o coartanti per la coscienza degli uomini, ai quali non può essere interdetta la possibilità di avere figli.
Se il giurista attento alle dinamiche sociali non può disciplinare un evento riproduttivo inedito ricorrendo ai principi consolidati, ove essi non consentano una risposta soddisfacente, trascurando o negando le aspettative, degne di tutela, di soggetti che la scienza biomedica è idonea a soddisfare, per il giudice il corretto modo di procedere deve essere diretto all’emanazione di provvedimenti che nel rispetto dei principi tradizionali, riconoscano l’esistenza di bisogni personali cercando di individuare i modi attraverso cui soddisfarli.
Non appare congruo, pertanto, ricorrere ad un modello rigido, prestabilito e predefinito dovendosi lasciare un più ampio spazio alle scelte individuali nel controllo che queste siano consapevoli e responsabili.
In un’ottica che concepisce la società come un organismo in continua evoluzione, ove sia rispettata l’autorealizzazione individuale, deve essere riconosciuto quale diritto fondamentale della persona, il diritto a diventare genitori e di valutare e decidere le scelte in relazione al bisogno di procreare, con la precisazione che lo status genitoriale può trovare completezza nell’adozione ma anche nella trasmissione del proprio patrimonio genetico.
La fattispecie di cui a processo riguarda l’ipotesi di fecondazione artificiale extracorporea o FIV-ET (in vitro fertilization embrio transfer) – così detta in quanto la fusione dell’ovocita con lo spermatozoo avviene in “provetta” cioè in laboratorio, venendo l’ovulo fecondato successivamente trasferito nella cavità uterina – omologia – poiché il patrimonio genetico è di entrambi i coniugi, l’ovulo e lo sperma cioè appartengono alla moglie ed al marito – con maternità surrogata. Situazione, quest’ultima, del tutto particolare che si verifica quando la donna che vuole il bambino non possa, per patologie strettamente collegate all’apparato genitale o a causa di malattie, affrontare la gravidanza che potrebbe risultare rischiosa. In tali casi, che appaiono maggiormente tutelabili, si ricorre alla cosiddetta “locazione d’utero” ove la coppia, feconda, si rivolge ad una donna perché porti avanti la gravidanza: l’embrione, ottenuto, quindi, in laboratorio con i gameti dei richiedenti, verrà successivamente trasferito nell’utero della donna disponibile alla gestazione.
Con la maternità di sostituzione, ove una donna assume l’obbligazione di condurre a termine una gravidanza per conto di una coppia, la quale riceverà e terrà come proprio il neonato, si crea un profondo mutamento nella dimensione antropologica e culturale della genitorialità, si assiste ad una scissione innegabile tra genitorialità biologica e sociale, ad una destrutturazione dell’identità materna. Certo, la coincidenza tra maternità, gravidanza e parto è un costrutto fondamentale della nostra psicologia, e la figura di una madre genetica ma non gestante assume i contorni quasi di una paternità femminile che sembra contrastare con le stabili linee della concezione dei rapporti familiari e della procreazione. L’abbandono della legge naturale che vuole la donna-madre gestante e partoriente, che pure lascia intravedere la possibilità di riconoscere ad ogni donna il diritto di essere madre senza gravidanza, che in alcuni casi può rappresentare un pericolo per la salute, induce a ridefinire il fenomeno della maternità ridisegnandone i confini.
La riflessione sul significato del concetto di maternità, oggi così profondamente mutato, deve partire dall’affermazione codicistica, avvalorata dalla scienza medica e dall’osservazione tradizionale, secondo cui madre è colei che partorisce.
Le nuove tecniche di riproduzione mettono, peraltro, in crisi profonda tale concezione. Queste tecniche, che possono modificare la sequenza naturale dell’iter procreativo, fanno sì che partorisca colei che non è geneticamente madre. In alcuni paesi si sono cominciati a sperimentare dispositivi tecnologici, del tipo delle superincubatrici, per lo sviluppo dell’embrione, rendendo possibile che una nascita avvenga indipendentemente da una madre gestante: ed in tali casi come potrebbe mai non essere riconosciuta come madre quella genetica?
Attraverso la tecnica della fecondazione in provetta è possibile che un embrione derivante dalla fecondazione di un ovulo sia inpiantato nell’utero di un’altra donna dove si sviluppa e da cui si distacca al termine della gravidanza.
La circostanza che le funzioni tradizionalmente svolte da una sola donna possano essere adempiute da soggetti diversi, la madre genetica che mette a disposizione l’ovocita e la madre gestante che accoglie l’embrione, intaccando il principio della certezza della derivazione materna, hanno reso inadeguate le norme che su tale certezza si fondavano: matura, nell’opinione pubblica più avvertita, il convincimento che il parto finisca per perdere la sua funzione rivelatrice rappresentando l’evento terminale di una complessa sequenza.
Colei che partorisce può, quindi, essere colei che ha co-partecipato, mettendo a disposizione il proprio utero. E tale prestazione ben può essere testimonianza di solidarietà familiare, determinata cioè non da motivi di lucro ma dall’intento, degno di essere preso in considerazione e tutelato, di soddisfare il bisogno di maternità di una donna alla quale, per diversificati motivi, sarebbe invece negato. E il consenso finalizzato a tale risultato, concesso nel rispetto delle condizioni di vita e di salute della madre surrogata, non mosso da intenti speculativi, di commercializzazione, fondato sull’interesse di soddisfare esigenze che a volte trascendono la sfera individuale come può essere vietato aprioristicamente ?
Di questa decisione di mettere al mondo un figlio per un’altra donna può rispondere soltanto la coscienza della madre surrogata: è nota l’opinione che, de iure condendo, ritiene che colei che partorisce un bambino dalla fecondazione di un ovulo di un’altra donna non è geneticamente madre del nato, qualificandosi solo come colei che, portando nel proprio grembo l’embrione ne ha determinato la nascita, madre gestante o portante, colei che “presta l’utero”, considerata dal nostro ordinamento, peraltro, madre giuridica.
Secondo questa impostazione la madre genetica svolge un ruolo insostituibile rispetto all’identità del nato mentre la madre gestante ha una funzione accessoria e come tale “intercambiabile” potendo, come sopra accennato, essere sostituita in un futuro, che non pare lontano, da dispositivi tecnologici.
De iure condito, peraltro, il giudice non può non tenere conto della disciplina penalistica a fondamento della tutela degli status che, ancora oggi, appare insuperabile, dovendo ciò essere valutato ai fini della fattispecie in esame.
Nei casi di maternità surrogata la questione “chi è la madre” non può trovare risposta da un punto di vista scientifico, poiché entrambi i soggetti appaiono causalmente necessari al processo che conduce al parto; entrambe le donne hanno una connessione biologica con il figlio: la problematica, degna di nota, è invece quella di definire chi sia la persona che si deve prendere cura del bambino dopo la nascita e quale delle due donne ne debba essere considerata socialmente responsabile. Traspare un concetto, svincolato dalla tradizione che collega la maternità giuridica al rapporto biologico, quello di maternità responsabile, che meglio appaga il desiderio di vedere crescere bene un bimbo, che soddisfa l’esigenza di creare un’ambiente familiare sereno ed equilibrato dove armoniosamente possa svolgersi ed evolversi la sua personalità.
E sulla base di un’impostazione così riformulata non si può, rectius, non si deve escludere il diritto della madre surrogata di continuare a vedere il bambino, di seguirlo, di copartecipare nelle sue manifestazioni di vita e di tenerlo con sé per alcune ore del giorno: giustamente inaccettabile dalla giurisprudenza, pertanto, l’accordo in base a cui la madre surrogata abbia rinunciato al bambino.
Ed in quest’ottica ancora una volta sembra fondamentale, quale unica metodologia per procedere correttamente e prospettare soluzioni abbastanza soddisfacenti, esaminare ogni situazione, nella sua singolarità e complessità, muovendo da quel bilanciamento di interessi che porta a provvedimenti ponderati, rispettosi delle vicende umane e dei valori fondamentali della persona. E’ compito del giudice, in mancanza di una legislazione, valutare e cercare di risolvere i problemi collegati allo svolgimento di una storia umana, ognuna in quanto tale, diversa, perché calata in una realtà di affetti, emozioni, sentimenti che appartengono a ciascun individuo e sono soltanto suoi.
Oggi all’analisi la vicenda dei coniugi (…..): lei (….) affetta da sindrome di Rokitansky – Kuster che determina l’impossibilità di portare a termine la gravidanza stante l’assenza di utero pur incidendo, in tale caso, nella capacità di produrre ovociti; lui (……) con una problematica legata alla diminuzione nel tempo fino a totale perdita di consistenza e quindi di attività del liquido seminale.
Desiderosi di avere un figlio che fosse geneticamente tale, dopo lunghe indagini mediche ed esclusione di qualsiasi terapia anche chirurgica, decidevano di procedere ad una fecondazione in vitro con utero surrogato rivolgendosi al dott. Pasquale Bilotta che li aveva guidati nella ricerca di una terapia idonea per la citata patologia. Preclusiva all’impianto dell’ovocita fecondato nell’utero della madre surrogata, secondo il medico, la normativa del codice deontologico che espressamente vieta tali pratiche prevedendo gravissime sanzioni in caso di inosservanza.
Partendo dal presupposto che l’interesse meritevole di tutela, richiesto dalla legge quale limite all’autonomia contrattuale può essere legittimamente individuato nell’aspirazione della coppia alla realizzazione come genitori, che il diritto alla procreazione sia direttamente collegato a quello, costituzionalmente garantito, di manifestazione e svolgimento della personalità, l’indagine deve muovere dalla verifica del fattore psicologico che induce all’utilizzazione di una tecnica del genere.
Ora, avuto riguardo al caso in esame, la dott.ssa ………… nominata quale CTU al fine di accertare la stabilità emotiva della coppia con riferimento alla maternità surrogata si esprime dicendo “dopo un lungo dialogo con il Sig. (….) ne evince una valutazione positiva sotto il profilo psicologico e morale nonostante la lunga e provante prassi burocratica alla quale sia stato sottoposto affinché possa venire riconosciuta la sua identità di padre”; e sempre nella consulenza, attenta ed incisiva si legge: “la ricorrente non è affetta da nessuna patologia delirante né da turbe o manie psichiche che in qualche modo possano pregiudicare, né in eccesso né in difetto, quello che normalmente è connaturato alla natura femminile cioè la maternità”. Ed ancora lo stesso dott. Bilotta, non costituito giudizialmente ma regolarmente presentatosi in udienza con i coniugi, affema espressamente che la coppia, sottoposta a valutazione psicologica, come da prassi nel centro clinico ove svolge la sua attività, “ha dimostrato la piena compatibilità ad un programma di maternità surrogata, escludendo qualsiasi forma di depressione o psicosi …”. Con riferimento, quindi alla madre surrogata, la Sig.ra (….) , la consulenza si esprime in questi termini: “…..sottoposta anch’ella a valutazione psicologica … manifesta un’intensa emozione di fronte ad un così importante evento che comunque non la distoglie dalla consapevolezza dell’atto d’amore che compie verso colei che, amica di famiglia da anni è provata dalla coscienza piena di una femminilità tagliata a metà tra illusione e realtà reale. Manifesta ancora seri e profondi aspetti morali e responsabilità nei confronti del nascituro tali da confrontarla con il ruolo di seconda madre, mostrando ella stessa il desiderio di seguire il bambino quale madrina così come esposto dalla stessa dottrina ecclesiastica”.
Lontani, quindi, nel caso di cui a processo, da problematiche quali lucrosi traffici di gameti, commercializzazione di utero, ipotetici ma verosimili ed insanabili contrasti tra soggetti divesi – madre surrogata e madre genetica – collegate a turbe, o manie psichiche di maternità deve essere espressa una valutazione assolutamente positiva con riguardo alla prospettazione futura del fatto “nascita”. E’ auspicabile che per ogni bambino si crei un’ambiente familiare sano, equilibrato e stabile, con assunzione di consapevole responsabilità da parte di ognuno nel suo ruolo, come quello che lasciano intravedere i coniugi (….) i quali, peraltro, fondano la loro aspettativa su un vincolo, quello matrimoniale, tradizionalmente e giuridicamente tutelato. Ed allora se pure con l’utilizzazione di tecniche le quali, comunque, “ispirate dalla scienza per l’amore della vita” perché “non dare ad una donna già castigata e per di più beffata dalla natura la possibilità di una maternità che sia tale anche geneticamente sarebbe ammettere la fallibilità della parola di Dio nel concetto d’amore” (v. ancora la consulenza agli atti).
Tanto premesso in fatto, si rileva in rito l’applicabilità alla specie del ricorso ex art. 700 c.p.c. che non può essere ritenuta esclusa a seguito della richiesta “particolare” che riguarda una problematica delicata e complessa e non ancora disciplinata legislativamente.
Non può negarsi invero che la procedura di cui all’art. 700 citato è caratterizzata da elementi specializzati, per i quali si può legittimamente affermare che la suddetta richiesta possa apparire inammissibile.
Ma non può essere ignorato che compito dell’interprete è quello d’intendere gli istituti conformemente ai principi costituzionali, e quindi di escludere solo quelle formulazioni che si palesano in contrasto con questi ultimi.
Qualche riflessione.
Il provvedimento che, nel caso che si esamina, viene richiesto è diretto all’adempimento di una prestazione di tipo medico consistente in un facere cioè l’impianto dell’embrione nell’utero della madre surrogata. La problematica, ancora irrisolta, che sembra emergere è quella dell’ineseguibilità degli obblighi di fare laddove il debitore non sia verosimilmente “consenziente”.
Nella fattispecie non appare, peraltro, congrua l’emissione di un provvedimento di condanna ad un facere poiché il medico, non costituito, ma comparso in udienza per rendere dichiarazioni spontanee, ha espressamente affermato di essere personalmente favorevole alla pratica di maternità surrogata nonché di essere disponibile all’effettuazione, sottolineando la piena comprensione per la situazione e la sua completa adesione alla richiesta.
D’altra parte venendo in rilievo, dalla prospettazione dei ricorrenti e dalle dichiarazioni del dott. Bilotta, l’inosservanza del Codice Deontologico, che, peraltro ha efficacia interna vincolando soltanto la categoria che regolamenta e non incidendo, quindi nell’ordinamento legislativo preesistente, non potrebbe essere richiesta e, quindi, concessa una tutela civile concernente obbligazioni naturali: spetta, infatti, al giudice, nel caso de quo, il semplice accertamento dell’ammissibilità e della liceità della domanda all’adempimento.
Tale provvedimento, inscindibilmente collegato all’accordo consolidato precedentemente, incide nel contratto di maternità surrogata preferendosi parlare di negozio laddove, come nel caso di specie, difetta il requisito della corrispettività essendo escluso qualsiasi pagamento ed essendo stato concesso il consenso per spirito di liberalità.
Il contratto di maternità surrogata, che deve essere verificato con riguardo alle disposizioni astrattamente applicabili, deve essere ricondotto entro lo schema dell’atipicità: è quindi alla meritevolezza degli interessi sottostanti che il giudice deve guardare nel momento in cui è chiamato a valutarne la validità.
E l’interesse meritevole da parte dell’ordinamento giuridico, richiesto dalla legge quale limite all’autonomia contrattuale deve essere individuato nell’aspirazione della coppia alla realizzazione come genitori. Si afferma da una parte che i figli devono venire solo se ed in quanto desiderati, dall’altra che ogni figlio desiderato deve nascere ed allora sembra quasi inevitabile il passaggio dal riconoscimento del desiderio di un figlio all’affermazione di un vero e proprio diritto a procreare, contribuendo le tecniche di riproduzione assistitata a rendere esplicita ed accentuare questa rivendicazione del diritto al figlio che, peraltro, trova fondamento in quello più ampio, costitituzionalmente garantito e protetto, di manifestazione e svolgimento della personalità.
Ma vi è di più.
Con riferimento alla vicenda ….. tale giudizio di meritevolezza appare avvalorato dalla circostanza che il diritto alla vita dell’embrione è stato oggetto di espresso riconoscimento da parte della Corte Costituzionale la quale ha dichiarato che la vita umana va tutelata sin dal suo inizio.
Nel contratto di maternità surrogata è insita la problematica inerente l’indisponibilità degli status alla quale è estranea l’ipotesi, quale quella di cui a processo, della maternità meramente portante che, come sopra precisato, si verifica quando una donna si limiti a condurre a gestazione un’embrione risultante dalla fusione del materiale spermatico della coppia committente, e, quindi, a lei geneticamente estraneo. Ed infatti come non potrebbe dubitarsi che, in tale ipotesi, si sia effettivamente in presenza di un’abdicazione al ruolo parentale della madre surrogata. E tuttavia, l’irrinunciabile attribuzione delle potestà genitoriali sono da collegare al fatto procreazione laddove il fatto cui ci si riferisce non deve intendersi riduttivamente come fatto materialisticamente considerato, dovendo essere ravvisato in un fatto umano, in un comportamento cioè rivolto alla procreazione, secondo la normale valutazione sociale. Ora, tale significato dell’agire dell’uomo non pare assolutamente rintracciabile nei comportamenti di mera locazione dell’utero, quando sia da ritenere estranea una qualsiasi volontà di assunzione del ruolo genitoriale.
Il sistema in materia di stato familiare, appare, peraltro, essersi avviato in una direzione intermedia tra i due estremi dell’immutabilità assoluta e della piena rimessione al consenso delle parti private: ed allora sembra corretto il superamento dello stato familiare originario solo quando, a seguito dell’accertamento e del controllo giudiziale, si riveli come non più auspicabile il mantenimento di una qualificazione giuridica a mero schema formale quando cioè la famiglia biologica non rappresenti più un luogo privilegiato di sviluppo della personalità del minore, non più suscettibile di apprezzamento.
Comune alla fecondazione artificiale omologa ed eterologa la problematica che si fonda sulla lettura dell’art. 5 c.c. che prevede che gli atti di disposizione del proprio corpo siano vietati quando cagionino la diminuizione permanente dell’integrità fisica.
La donazione dell’utero, nel rispetto delle condizioni di salute della madre surrogata non comporta la diminuizione permanente dell’integrità fisica ove, comunque sarebbe difficile escludere la liceità di un mero prestito di organo, peraltro limitato nel tempo sotto controllo medico, quando il legislatore ha previsto la possibilià di donazioni di organi tra soggetti vivi! Tale liceità viene avvalorata dalla considerazione che se pure non si possa ritenere che “il generare” sia necessario alla salute, non si può escludere che, in determinati casi il desiderio di procreazione non appagato può comportare squilibri psichici dai risvolti patologici, specie per le donne. Il crescente interesse da parte della sociologia nei riguardi delle problematiche legate all’utilizzo delle tecniche di riproduzione assistita è costituito, infatti, dal graduale delinarsi della sterilità come questione sociale. E comunque l’atto dispositivo del proprio corpo di per sé non è certo illecito trovando il suo fondamento, al contrario, nello stesso art. 5 che vietando tali atti quando cagionino una diminuizione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, implicitamente riconosce la liceità di tutti gli altri. Tale potere deve correttamente essere posto in relazione al alcuni principi costituzionali: art. 2, tutela dei diritti fondamentali dell’individuo; art. 3, 2° comma, impegno a rimuovere ogni ostacolo allo sviluppo della personalità; art. 32 tutela della salute quale diritto fondamentale dell’individuo.
In una tale ridefinizione il potere di disposizione del proprio corpo non deve essere visto come espressione del diritto di proprietà o anche di un diritto personale ma come libertà di diporre strumento di attuazione dello sviluppo della personalità ed il corpo non più come come oggetto autonomo e separato dalla persona, ma come elemento inscindibile di essa.
Anche in relazione alle nozioni di ordine pubblico e buon costume deve giungersi alla conclusione che un atto di questo genere sia ammissibile.
Il legislatore ha volutamente lasciato aperti questi due concetti in modo da consentire il continuo modificarsi ed evolversi del loro contenuto in relazione al mutamento della coscienza sociale. Clausole generali destinate a riempirsi di contenuto con riferimento al tempo, al luogo, all’indirizzo politico e all’agire e sentire di una data collettività, non può, pertanto, in un procedimento di ricostruzione dei concetti; essere trascurata l’evoluzione della scienza medica e, quindi, delle nuove tecniche di fecondazione artificiale.
E’ vero che la coscienza morale e sociale non può permettere la commercializzazione di una funzione così elevata e delicata come la maternità, comportando ciò una gravissima lesione della dignità della persona umana, ma tale affermazione deve essere messa in dubbio quando il consenso all’utilizzazione dell’utero sia determinato, come nella vicenda che si esamina, da ragioni di solidarietà e concesso per spirito di liberalità.
Verificata la liceità del negozio di maternità surrogata sulla base dei requisiti dell’oggetto e della causa, escludendosi, comunque, l’illiceità, qualora non sia previsto un corrispettivo, tale valutazione, rapportata ai motivi non integra gli estremi del negozio in frode alla legge, laddove l’accordo delle parti non sia diretto ad eludere le norme sull’adozione e sull’indisponibilità degli status.
Ed ancora una volta il riferimento al caso de quo che esclude possa trovare applicazione la fattispecie di cui all’art. 1344 c.c.: le dichiarazioni della madre surrogata, rilasciate in sede di consulenza psicologica, ove costei espressamente afferma di non essere distolta dalla consapevolezza dell’atto d’amore che compie manifestando seri e profondi aspetti morali e responsabilità nei confronti del bambino ed il desiderio di seguirlo quale madrina confrontandosi con il ruolo di seconda madre.
E d’altra parte esaminato l’accordo intercorso tra le parti, ove il consenso prestato dalla Sig.ra ….. alla maternità surrogata è espresso in termini chiari e precisi, non è dato presumere la volontà, se pure implicita, di superare la disciplina civilisitca e penalistica relativa agli status.
Tale accordo, pertanto, deve essere ritenuto ammissibile, lecito e legittimo.
Da ultimo viene in esame il pericolo di danno irreparabile.
Precisano i ricorrenti che vi è fondato motivo per ritenere che il diritto sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile poiché il rifiuto all’adempimento da parte del dott. Bilotta vanifica la possibilità di procedere all’impianto degli embrioni, lo stato di conservazione dei quali rischia, infatti, di deteriorarsi irreparabilmente con il trascorrere di un periodo di tempo superiore, nel massimo, a cinque anni.
Tale affermazione risulta fondata poiché avvalorata dalle dichiarazioni dello stesso ginecologo e dalla produzione documentale agli atti. E’ verosimile che un ulteriore ritardo nell’effettuazione dell’impianto, comporterebbe un aggravamento alla condizione attuale di vitalità degli embrioni mettendone a rischio l’attività di proliferazione cellulare.
Il ricorso va dunque accolto previo accertamento della liceità e della meritevolezza dell’accordo concluso tra i coniugi ….. ed il dottor Pasquale Bilotta.
P.Q.M.
Visto l’art. 700 c.p.c.
accertata l’esigibilità della prestazione medica dedotta nell’accordo intercorso tra le parti di causa, in adempimento all’obbligazione assunta avente ad oggetto il trasferimento di embrioni crio-conservati ed ottenuti mediante fusione del materiale spermatico dei coniugi (….), autorizzandone l’impianto nell’utero della Sig.ra ……
Il Giudice
Dott. Chiara Schettini
Depositata in Cancelleria in data 17 febbraio 2000
La Corte di Cassazione precisa che non è obbligatorio assicurare lo stesso tenore di vita del matrimonio. Cass. 3792/2000
Non è obbligatorio assicurare lo stesso tenore di vita del matrimonio
Alla ex moglie non spettano tutti i lussi
(Cassazione 3792/2000)
Non tutti i lussi sono dovuti alle ex mogli, nonostante abbiano un ex marito benestante, perché “il mantenimento del tenore di vita goduto durante il matrimonio non può essere assunto come risultato indefettibile della separazione”. Lo ha stabilito la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, che ha negato ad una signora divorziata un ulteriore aumento del già cospicuo assegno dovuto dall’ex marito: più di 5 milioni al mese, oltre alle spese per la scuola del figlio e per le attività connesse, nonché per le cure dentistiche e mediche; per non parlare dei lavori di manutenzione extra dell’ex casa coniugale, anche essi a carico dell’uomo. Tutto questo per la Suprema Corte può bastare, considerato che , come rilevato dai giudici di appello, “il possibile ridimensionamento del precedente elevatissimo standard di vita era essenzialmente da imputare alla scelta di continuare a vivere nella grande e lussuosa casa coniugale”; quindi niente aumento per l’ex moglie che non sa rinunciare ai lussi. (11 maggio 2000)
Sentenza della Prima Sezione Civile n.3792/2000
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C. N., elettivamente domiciliata in ROMA VIA C. B. VICO 1, presso l’avvocato PROSPERI MANGILI FRANCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BALDISSERA DANILO, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
G. G.;
– intimato –
e sul 2° ricorso n° 09494/98 proposto da:
G. G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 29, presso l’avvocato VASI GIORGIO, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
C. N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. B. VICO 1, presso l’avvocato PROSPERI MANGILI FRANCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BALDISSERA DANILO, giusta procura a margine del ricorso principale;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1318/97 della Corte d’Appello di MILANO, Sezione delle Persone, dei Minori e della Famiglia, depositata il 29/04/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/11/99 dal Consigliere Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI:
udito per il ricorrente l’Avvocato Prosperi Mangili che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale;
udito per il resistente e ricorrente incidentale l’Avvocato Vasi che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento dell’incidentale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza dell’8 febbraio – 12 aprile 1994 il Tribunale di Como pronunciava la separazione personale dei coniugi G. G. e N. C., affidava il figlio minore alla madre, assegnava a quest’ultima la casa coniugale, poneva a carico del marito l’obbligo di versare la somma mensile complessiva di L. 5.000.000 per il mantenimento della moglie e del figlio, rivalutabile in base agli indici ISTAT.
Proposto appello dalla C. ed appello incidentale dal G., con sentenza del 28 febbraio – 28 aprile 1997 la Corte di Appello di Milano, in parziale riforma, determinava in L. 3.500.000 l’assegno mensile per il mantenimento della C. con decorrenza dal novembre 1990 e con rivalutazione ISTAT dal febbraio 1995 in relazione al febbraio 1994; determinava in L. 2.000.000 il contributo mensile per il mantenimento del minore, con la stessa rivalutazione ISTAT, e poneva a carico del padre tutte le spese concernenti la frequenza scolastica e le attività connesse, nonché quelle per cure dentistiche ed in generale per cure mediche straordinarie; poneva infine a carico del G. le spese di manutenzione straordinaria della casa coniugale; confermava nel resto.
Osservava in motivazione la Corte di merito che la statuizione in ordine all’ammontare dell’assegno a carico del marito, commerciante nel settore tessile, non poteva fondarsi sulle dichiarazioni dei redditi dal medesimo prodotte, che apparivano del tutto inconciliabili non solo con l’opulento tenore di vita del predetto e della famiglia durante la convivenza, ma con le stesse conclusioni del G., che si era dichiarato disponibile a versare alla moglie somme di importo quasi pari a quello dei redditi dichiarati. Aggiungeva che sulla base delle risultanze istruttorie doveva considerarsi accertato che la famiglia aveva goduto di un tenore di vita assai elevato, vivendo in una prestigiosa abitazione in un ampio parco, godendo di lunghe e frequenti vacanze, affrontando spese voluttuarie ingenti che se pure negli ultimi anni, e soprattutto dopo la separazione, si era verificata una qualche contrazione nei redditi del G., ciò non aveva tuttavia determinato un rilevante abbassamento del suo tenore di vita, e dunque una diminuzione delle sue capacità economiche tale da giustificare una riduzione dell’assegno. Osservava al contrario che la determinazione dell’assegno operata dal primo giudice doveva essere modificata in aumento, essendo emerso che dalla partecipazione ad una società immobiliare la C. traeva redditi saltuari ed assolutamente modesti, dell’ordine di alcune centinaia di migliaia di lire al mese. Riteneva pertanto che l’ammontare complessivo dell’assegno andasse fissato globalmente nella misura di L. 5.500.000 mensili e che occorresse procedere alla sua ripartizione tra la moglie ed il figlio con l’attribuzione alla prima della somma di L. 3.500.000 mensili, in considerazione degli oneri gravanti sulla medesima, ed al figlio della somma residua. Aggiungeva che se pure da tale quantificazione poteva derivare un certo ridimensionamento del tenore di vita precedentemente goduto, tale risultato, peraltro proprio della quasi generalità delle separazioni, era in larga misura imputabile alla volontà della stessa C. di continuare ad abitare nell’enorme e costosa villa familiare.
Avverso tale sentenza la C. ha proposto ricorso per cassazione deducendo due motivi. Il G. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale fondato su due motivi illustrati con memoria, cui ha a sua volta resistito con controricorso la C..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ai sensi dell’art.335 c.p.c., in quanto concernenti la medesima sentenza. Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione del controricorrente di nullità della procura apposta a margine del ricorso, sul duplice rilievo che il suo tenore fa chiaro riferimento al giudizio di merito e che la mancanza di data rende impossibile stabilire con certezza se essa sia stata rilasciata dopo il deposito della sentenza impugnata.
L’eccezione è infondata.
In relazione al primo rilievo va ricordato che costituisce orientamento assolutamente prevalente di questa Suprema Corte, dopo le note sentenze a Sezioni Unite n. 2646 e n. 2642 del 1998 – che deve essere in questa sede riaffermato che la procura speciale rilasciata in calce o a margine del ricorso – ed a seguito della legge n. 141 del 1997 anche la procura rilasciata su foglio separato, ma congiunto materialmente all’atto cui si riferisce, stante la piena equiparazione operata dalla norma dell’ipotesi considerata a quella della procura apposta in calce – pur se priva di specifici riferimenti al giudizio di legittimità, ove non contenga espressioni che univocamente inducano a ritenere che la parte abbia inteso riferirsi ad altro giudizio deve considerarsi provvista del necessario requisito di specificità, assicurato dall’inscindibile collegamento tra la procura stessa ed il ricorso (v. per tutte, più di recente, Cass. 1999 n. 5945; 1999 n. 5519; 1999 n. 463; 1999 n. 288; 1998 n. 10033; 1998 n. 3981; 1998 n. 3425; 1998 n. 3422; 1998 n. 2676 ).
In relazione alla mancata indicazione della data, è da osservare che la circostanza. essenziale ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la procura sia stata rilasciata anteriormente alla notifica del ricorso stesso ed in epoca successiva alla pronuncia della sentenza oggetto di impugnazione può ritenersi comprovata quanto al primo requisito, dal richiamo di detta procura nell’intestazione del ricorso e dalla trascrizione di essa nella copia notificata, e, con riguardo al secondo dato temporale, dalla menzione della sentenza gravata contenuta nell’atto a margine del quale la procura è apposta (v. per tutte, più di recente, Cass. 1999 n. 4038; 1999 n. 1430; 1999 n. 462, 1998 n. 7995; 1998 n. 4357). La presenza di tutti i richiamati elementi nella fattispecie in esame esclude la configurabilità del vizio prospettato.
Con il primo motivo di ricorso, denunciando contraddittorietà di motivazione su un punto decisivo, si deduce che la Corte di Appello, dopo aver accertato la fiorente situazione economica del G., rilevando l’esistenza di suoi interessi anche nel settore dell’edilizia, a fronte della modestissima condizione della C., ha illogicamente e contraddittoriamente aumentato in misura del tutto esigua l’importo dell’assegno determinato dal primo giudice, così da vanificare sostanzialmente l’accoglimento delle censure dalla medesima formulate.
Con il secondo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione di norme di diritto, si sostiene che la Corte di Appello ha dichiaratamente violato il principio secondo il quale il coniuge più debole ha diritto alla conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, affermando l’inevitabilità di un certo ridimensionamento del tenore di vita precedente, pur in mancanza di oggettive difficoltà del marito a garantire alla moglie ed al figlio la continuazione di detto standard.
Con i due motivi del ricorso incidentale, denunciando rispettivamente insufficienza e contraddittorietà della motivazione su punto decisivo e violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 comma 1 e 2729 comma 1 c.c., si deduce che la Corte di Appello ha ritenuto accertata la titolarità da parte del G.di redditi elevati pur in mancanza di qualsiasi elemento di prova ed ha fondato il proprio convincimento al riguardo su circostanze erroneamente considerate come incontestate in giudizio. Si aggiunge che la C. non ha adempiuto all’onere di provare l’inadeguatezza dei propri mezzi a conservare il tenore di vita goduto durante il matrimonio, essendo anzi emerso nel corso del giudizio di merito che la medesima è titolare di redditi da capitale, immotivatamente ritenuti ininfluenti dalla Corte di Appello. Si deduce infine che la stessa Corte non ha tenuto conto dell’utilità che la C. trae dall’assegnazione della casa coniugale, dell’imposizione delle spese per il mantenimento del figlio quasi in via esclusiva a carico del padre, nonché del valore della partecipazione della predetta alla s.r.l. Villa Lalla come cespite patrimoniale, e non solo come fonte di reddito da capitale.
Tutti i motivi così sintetizzati del ricorso principale e di quello incidentale vanno trattati congiuntamente, in quanto riguardanti sotto opposte prospettive la medesima statuizione relativa ai rapporti patrimoniali tra le parti.
Essi sono infondati.
Come è noto, condizioni per l’attribuzione dell’assegno di mantenimento al coniuge cui non sia addebitabile la separazione sono la non titolarità di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e la sussistenza di una disparità economica tra le parti (v. per tutte Cass. 1998 n. 3490; 1997 n. 7630; 1997 n. 5762; 1996 n. 5916; 1995 n. 4720; 1995 n. 2223; 1990 n. 11523;1990 n. 6774).
Si è al riguardo precisato da questa Suprema Corte che il parametro di riferimento ai fini della valutazione di adeguatezza dei redditi, del soggetto che invoca l’assegno, è dato dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del medesimo richiedente (v. per tutte sul punto Cass. 1998 n. 3490, cit.; 1996 n. 10463; 1995 n. 4720, cit.; 1994 n. 7437 )
E tuttavia il mantenimento del tenore di vita precedente non può essere assunto come risultato indefettibile della separazione, imponendo l’art. 156 comma 2 c.c. che la determinazione del quantum sia effettuata “in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato “, ossia con riguardo a tutti gli elementi di ordine economico suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali l’assegnazione al coniuge beneficiario della casa coniugale o la diversa entità delle spese gravanti a seguito della separazione sul coniuge onerato (v. in particolare sul punto Cass.1997 n.7630).
E’ altresì noto che la valutazione delle condizioni economiche delle parti ai fini dell’attribuzione dell’assegno non comporta la necessità di determinare l’esatto importo dei redditi posseduti, attraverso l’acquisizione di dati numerici, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi nel rapporto delle quali risulti consentita l’erogazione a quello più debole di una somma corrispondente alle sue esigenze (così Cass 1999 n. 4679; 1994 n. 6612; 1990 n. 11523 ).
A tali principi si è pienamente attenuta la sentenza impugnata, la quale – investita soltanto della questione relativa all’ammontare dell’assegno (onde il profilo di censura formulato dal G. in ordine alla mancata prova da parte della C. della non titolarità di adeguati redditi propri, in quanto inerente alla spettanza dell’assegno, si profila chiaramente inammissibile) – ha analiticamente esaminato e valutato il tenore di vita dei coniugi durante il rapporto matrimoniale, desumendolo da una serie di circostanze considerate univocamente indicative di una condizione di estremo benessere ha proceduto quindi, anche sulla base di elementi di valutazione prospettati dalla C. e non specificamente contestati dal G., all’apprezzamento delle disponibilità economiche attuali del predetto, ritenendo – con motivazione non censurabile in questa sede – che la crisi in atto nei settori nei quali il medesimo svolge la propria attività non avesse comportato una significativa contrazione dei suoi redditi; ha conclusivamente ritenuto che le entrate complessive dell’intimato consentissero l’erogazione dell’assegno di separazione e del contributo per il mantenimento del figlio nella misura suindicata, oltre il carico delle spese di manutenzione straordinaria della casa coniugale e di quelle concernenti la frequenza scolastica del ragazzo e le attività collegate alla scuola, nonché di quelle dentistiche e mediche straordinarie al medesimo relative; ha infine rilevato che il possibile ridimensionamento del precedente elevatissimo standard di vita era essenzialmente da imputare alla scelta della C. di continuare a vivere nella grande e lussuosa casa coniugale.
In tale complesso argomentativo non si ravvisano carenze o contraddittorietà motivazionali, mentre ogni ulteriore doglianza delle parti diretta a sollecitare un diverso apprezzamento degli elementi esaminati e valutati dal giudice di merito o a proporre la valutazione di altri elementi non considerati non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
Parimenti inammissibile è il profilo di censura svolto nel primo motivo del ricorso principale, nella parte in cui appare diretto a censurare l’esiguità dell’aumento dell’assegno statuito dal giudice di appello in riforma di quello del Tribunale, ormai caducato dalla pronuncia del giudice del gravame, senza estrinsecarsi in una critica autonoma alle argomentazioni che hanno indotto a tale diversa quantificazione.
I due ricorsi devono essere pertanto rigettati.
L’esito della lite giustifica la compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della prima sezione civile il 29 novembre 1999. Depositato in cancelleria il 29 marzo 2000
La Corte di Cassazione precisa che la Convenzione internazione sui diritti del fanciullo impone di tener conto della sua volontà nei rapporti di famiglia
LA CONVENZIONE INTERNAZIONALE SUI DIRITTI DEL FANCIULLO IMPONE DI TENER CONTO DELLA SUA VOLONTA’ NEI RAPPORTI DI FAMIGLIA
Il Giudice può disporre che in caso di divorzio egli non sia costretto a incontrare il padre non affidatario (Cassazione Sezione Prima Civile n. 317 del 15 gennaio 1998, Pres. Finocchiaro, Rel. Spirito).
Il Tribunale di Bari, dichiarando cessati gli effetti civili del matrimonio concordatario tra i sigg. A.G. e R.L. ha disposto l’affidamento alla madre del loro figlio minore, precisando che il padre aveva la facoltà di vedere il figlio “subordinatamente, peraltro, e al consenso, volta per volta, del minore”.
La Corte d’Appello ha confermato questa decisione. Il padre è ricorso in Cassazione sostenendo che il diritto di visita del genitore non affidatario non può essere subordinato al consenso del minore.
La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 317 del 15 gennaio 1998, Pres. Finocchiaro, Rel. Spirito) ha rigettato il ricorso affermando che ogni provvedimento del Giudice riguardante i figli deve avere, in base alle norme vigenti in materia di separazione e divorzio, come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale della prole. Questo principio – ha osservato la Corte – è stato rafforzato dalla convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176 del 27 maggio 1991. In particolare la Corte ha richiamato gli articoli 9 e 12 di tale convenzione. Nell’art. 9 si afferma che “gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”.
L’art. 12 sancisce che “gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa; tali oponioni vanno debitamente prese in considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia per il tramite di un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”.
Il patto internazionale – ha osservato la Corte – attribuisce, quindi, all’opinione, ai sentimenti ed agli interessi del minore capace di discernimento un rilievo del tutto nuovo rispetto al quadro della nostra precedente legislazione, mirando ad attribuire all’infanzia, ed alle componenti affettive e sentimentali di cui essa si nutre, la priorità che le spetta nell’ambito della società. Di qui la necessità che il giudice della famiglia prioritariamente ed attentamente indaghi, anche a mezzo dei servizi sociali e delle strutture psicopedagogiche, sulla maturità e la capacità di discernimento del minore, accerti i suoi reali sentimenti, le tendenze caratteriali, le opinioni gli interessi intimi e sociali, dopo di che emetta i provvedimenti necessari a rendere piena soddisfazione ed espressione di quel coacervo di pulsioni che si dibattono nell’età adolescenziale e che, se rettamente ed equilibratamente realizzate, pur sempre nel rispetto dei fondamentali valori umani, contribuiscono alla formazione dell’individuo maturo per il suo ingresso nella società.
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La Corte di Cassazione precisa che costituisce reato non educare i figli a frequentare l’altro genitore. Cass. 2925/2000
È perseguibile penalmente chi “elude” un provvedimento del giudice civile
Reato non educare i figli a vedere l’ex coniuge
(Cassazione 2925/2000)
Commette reato il genitore affidatario dei figli minori se non li educa e non li sensibilizza ad avere un rapporto con l’altro genitore dal quale vivono separati, in quanto anche tale comportamento “omissivo” può costituire l’ “elusione” dolosa di un provvedimento del giudice. La VI Sezione Penale della Corte di Cassazione fornisce una interpretazione estensiva dell’art. 388 del codice penale – che disciplina il reato di “mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice” – ricomprendendovi anche il comportamento del genitore separato che, non attivandosi per far sì che i figli minori vedano l’altro coniuge secondo quanto stabilito dal giudice, si riflette negativamente sulla psicologia dei minori stessi.
La Cassazione ha confermato la condanna inflitta da un uomo, padre di due bambine con lui conviventi ma diseducate ad un rapporto costante con la madre, nei tempi e nei modi stabiliti dal giudice civile al momento della separazione, al punto che la donna era stata costretta a non avere più contatti con le figliolette. Nonostante la magistratura avesse emesso ben tre ordinanze per assicurarle il diritto di visita, i provvedimenti erano rimasti inattuati a causa dell’inattività del padre che non si era adoperato in tal senso. Proprio la mancata collaborazione del genitore aveva reso ineseguibili i provvedimenti del giudice civile, e per questo motivo l’uomo era stato condannato.
La Suprema Corte ritiene giusta la condanna, in quanto, considerato il “ruolo centrale” che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’ex coniuge, l’ “atteggiamento omissivo” del genitore che non educa e sensibilizza i figli a vedere l’altro genitore finisce con l’eludere il provvedimento con il quale il giudice aveva imposto il diritto di visita; tale comportamento finisce inoltre con il riflettersi negativamente sulla psicologia dei minori, indotti essi stessi a “contrastare gli incontri con il genitore non affidatario”, proprio perché non “sensibilizzati” ed “educati” al rapporto con l’altro genitore. (16 marzo 2000)
Sentenza della Corte suprema di Cassazione Sezione VI penale 2925 del 2000 depositata il 9 marzo 2000.
La Corte suprema di Cassazione
(…)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da B. Angelo Antonio, nato a Buccino il 6.10.1958,
avverso la sentenza 7.5.1999 della Corte d’Appello di Salerno;
Visti gli atti, la sentenza denunzia ed il ricorso,
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Milo;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Giuseppe Veneziano
Che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore avv. A.Gaeta, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Fatto e diritto.
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza 7 maggio 1999, confermava quella in data 21.1.1997 del Pretore di Salerno _Sez. Rocca daspide _, che aveva dichiarato Angelo Antonio B. colpevole del reato di cui all’art. 388/2°c.p. [1] e, in concorso delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e mesi sei di reclusione.
Si era addebitato all’imputato di essersi sottratto all’adempimento degli obblighi derivanti da tre ordinanze del giudice civile, concernenti l’affidamento delle figlie minori, avendo impedito alla moglie di vederle nei giorni stabiliti dai predetti provvedimenti.
La Corte di merito riteneva di ravvisare, nella condotta tenuta dall’imputato, gli estremi del reato contestatogli, avendo posto la moglie nella condizione di dovere interrompere ogni rapporto con le figlie e di dover ricorrere ripetutamente all’intervento del giudice, proprio per gli ostacoli frappostile dal marito all’esercizio del diritto di incontrare le figlie, senza _ per altro _ che la predetta raggiungesse lo scopo.
Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato e, nel sollecitare l’annullamento della decisione, ha dedotto: 1) difetto di motivazione in relazione alle puntuali e articolate doglianze formulate con l’appello in punto di responsabilità ,nonché in relazione all’entità della pena, eccessivamente severa in rapporto al fatto e alla sua personalità; 2) inosservanza della legge penale, con riferimento all’art. 388/2° c.p. considerato che la integrazione dell’illecito da tale norma previsto poteva configurarsi solo in relazione a una condotta commissiva, che andava provata, e non già in relazione a una mera condotta omissiva.
All’odierna udienza pubblica, le parti hanno concluso come da epigrafe.
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto nei limiti di seguito precisati, mentre per il resto va rigettato.
Prive di pregio sono le doglianze in tema di responsabilità, atteso che la sentenza impugnata fa buon governo della norma di cui all’art. 388/2°c.p. e riposa su un apparato argomentativo assolutamente adeguato e logico, che si sottrae a qualsiasi censura rilevante in questa sede di legittimità.
Ed invero, devesi, innanzi tutto, puntualizzare che, ai fini della sussistenza del reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice che concerna l’affidamento dei minori, il termine “elude” va inteso in senso ampio, essendo comprensivo di qualsiasi comportamento, positivo o negativo, che non esige scaltrezza o condotta subdola per evitare l’esecuzione del predetto provvedimento; se è vero che la semplice inattività, in genere, non integra l’elusione, non può disconoscersi che l’azione negativa dell’obbligato assume rilievo, ai fini della configurazione dell’illecito in esame, ogni volta che il relativo obbligo richieda, per essere adempiuto, una certa collaborazione da parte del soggetto cui è imposto, in difetto della quale, divenendo il provvedimento del giudice difficilmente eseguibile, si ha elusione del provvedimento stesso.
Nella specifica materia in esame, è di intuitiva evidenza il ruolo centrale che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’altro genitore, e ciò a prescindere dall’osservanza burocratica del relativo obbligo imposto col provvedimento giurisdizionale. Ne consegue che il rifiuto di fatto opposto dal genitore affidatario alla richiesta _ verbale o scritta _ dell’altro genitore di esercitare il diritto di visita dai figli concreta l’elusione del provvedimento giurisdizionale che regolamenta tale rapporto, proprio perché l’atteggiamento omissivo dell’obbligato finisce col riflettersi negativamente sulla psicologia dei minori, indotti così a contrastare essi stessi gli incontri col genitore non affidatario, proprio perché non sensibilizzati ed educati al rapporto con costui dall’altro genitore.
Con riferimento al caso specifico, la sentenza impugnata ha sottolineato, in maniera sintetica, ma incisiva, che la parte offesa era stata costretta, a seguito dei ripetuti rifiuti del marito, a fare ricorso al Giudice, senza per altro raggiungere lo scopo, data la persistente ostinazione dell’obbligato; ha aggiunto, inoltre, che l’ostacolo agli incontri della madre con le bambine era da ricercarsi anche nell’influenza negativa che su queste ultime avevano esercitato i congiunti del prevenuto (così come accertato nella c.t.v. acquisita _ a sostanziale rinnovazione del dibattimento _ nel giudizio d’appello), evento questo che lo stesso prevenuto avrebbe avuto il dovere di evitare.
Fondata, invece, è la censura sull’entità del trattamento sanzionatorio. Non è dato, infatti, riscontrare, nella sentenza di primo e secondo grado, una motivazione appagante, che dia ragione dell’esercizio del potere discrezionale del giudice di merito nella scelta della misura della pena, fissata ad un livello apparentemente elevato in relazione alla previsione edittale (reclusione fino a tre anni o multa da L. 200.000 a L. 2.000.000).
Nella determinazione del trattamento sanzionatorio il Giudice gode, infatti, di una discrezionalità vincolata, nel senso che, quanto più si discosta dal minimo edittale, ipotesi questa in cui viene concretamente a mancare la necessità di esplicita motivazione, tanto più deve dare ragione dei criteri legali che sono sintetizzabili nella retribuzione (gravità complessiva del fatto) e nella prevenzione sociale (capacità a delinquere in termini di attitudine del reo a commettere crimini). Non può ritenersi congruo, per giustificare, il corretto esercizio del potere discrezionale, il generico richiamo “all’entità del fatto” e “alla personalità dell’imputato”, ove la scelta si orienti , come è avvenuto nella specie, per una pena notevolmente rigorosa (almeno in apparenza). E’ necessario, in tale ipotesi, non affidare il relativo giudizio a mere clausole di stile, ma analizzare, nel dettaglio, quei criteri tipizzatori di natura oggettiva e soggettiva indicati nell’art. 133 c.p. e individuare quelli ritenuti rilevanti per la scelta che si va a fare, sì da offrire una base argomentativa adeguata a conforto del corretto esercizio del potere discrezionale.
Limitatamente a questo aspetto, la sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, per nuovo giudizio.
E’ il caso di sottolineare che, in sede di rinvio, non può farsi questione in ordine ad un’eventuale prescrizione del reato, considerato che la sentenza è ormai irrevocabile nella parte relativa all’affermazione di colpevolezza dell’imputato (giudicato progressivo). L’annullamento che riguarda solo la parte della sentenza relativa al quantuni (non all’an) della pena, che dovrà eventualmente essere rideterminata ma non potrà essere eliminata, non va ad incidere sulla parte concernente l’affermazione della responsabilità, che resta intangibile (cfr. Cass. S.V. 26.3.97 n. 2, Attinà).
P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza, limitatamente all’entità della pena inflitta, e rinvia, per nuovo giudizio, alla Corte d’Appello di Napoli.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 18.11.1999.
Sentenza depositata il 9 marzo 2000.
La Corte di Cassazione precisa i criteri per la determinazione dell’assegno divorzile, che riveste altra natura rispetto a quello concordato in sede di separazione.
L’ASSEGNO PER IL CONIUGE IN CASO DI DIVORZIO NON VA DETERMINATO SULLA BASE DI QUELLO CONCORDATO PER LA SEPARAZIONE PERSONALE
Ma si deve procedere a una valutazione autonoma secondo diversi criteri
(Cassazione Sezione Prima Civile n. 12400 del 9 dicembre 1998, Pres. Vessia, Rel. Bonomo).
All’assegno di divorzio, secondo la disciplina normativa di cui all’art. 5 della legge n. 898 del 1970, va riconosciuto carattere esclusivamente assistenziale, presupposto della sua concessione essendo la sola inadeguatezza di mezzi del coniuge istante per la conservazione di un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio (inadeguatezza da intendersi in termini di apprezzabile deterioramento delle precedenti condizioni economiche in dipendenza del divorzio che non si risolve, peraltro, nella esistenza di un vero e proprio stato di bisogno). Ne consegue che il giudice di merito, chiamato ad una duplice indagine, è tenuto, dapprima, all’accertamento dell’esistenza del menzionato presupposto dell’inadeguatezza dei mezzi, successivamente alla determinazione concreta della misura dell’assegno, sulla base dei criteri elencati dal comma 6 nella norma di cui al citato art. 5 (le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune o individuale, il reddito di entrambi, la durata del rapporto di coniugio).
La determinazione dell’assegno di divorzio è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, data la diversità delle discipline sostanziali, correlate a diversificate situazioni, e delle rispettive decisioni giudiziali, in quanto l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti, operanti nel regime di convivenza e di separazione, e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio, con la conseguenza che deve essere determinato in base a criteri propri ed autonomi rispetto a quelli rilevanti per il trattamento spettante al coniuge separato. Per differenziare i due tipi di assegni e per non appiattire l’indagine del giudice ad una mera revisione delle conseguenze patrimoniali della separazione, in base ad eventuali circostanze sopravvenute (ciò, infatti, non è consentito dalla legge), occorre conferire il giusto rilievo alla molteplicità degli indici di quantificazione offerti dalla legge, il che consente di evitare che la misura dell’assegno risulti implicitamente ricompresa nel suo criterio attributivo, di guisa che a tali indici resterebbe la funzione di meri riferimenti verbali generici, per giustificare una soluzione già raggiunta in sede di giudizio sull’an.
Collegamento tratto da: http://www.legge-e-giustizia.it/
La Corte di Cassazione precisa i criteri per l’eventuale rivalutazione dell’assegno divorzile. Cass. 958/2000
REVISIONE DELL’ASSEGNO DIVORZILE – RILEVANO I MUTAMENTI DELLA CONDIZIONE ECONOMICA DEL CONIUGE ONERATO CHE RISULTINO PREVEDIBILI E RICOLLEGABILI AD ASPETTATIVE GIA’ ESISTENTI NEL CORSO DEL MATRIMONIO.
Cassazione – Sezione Prima Civile – Sent. n. 958/2000
Presidente M. Delli Priscoli – Relatore F. Felicetti
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. R. C. con ricorso al Tribunale di Roma in data 2 novembre 1995, esponeva che detto Tribunale, con sentenza n. 5587 del 1980, passata in giudicato, aveva dichiarato cessati gli effetti civili del matrimonio da lei contratto con F.G. in data 3 maggio 1958, attribuendole un assegno divorzile di lire 100.000 mensili. Deduceva che, non prevedendo la sentenza alcuna rivalutazione automatica, l’assegno era divenuto del tutto inadeguato, tenuto anche conto della mutata situazione economica degli ex coniugi, che aveva accentuato la disparità di reddito fra di loro. La C. chiedeva, pertanto, che l’assegno fosse aumentato a lire 1.000.000 mensili, rivalutabili automaticamente.
Il F. si costituì, opponendosi alla domanda e chiedendo in via riconvenzionale la soppressione dell’assegno.
Il Tribunale, con decreto in data 26 giugno 1996, aumentò l’assegno a lire 450.000 mensili, rivalutabili dal giugno 1997. Il F. propose gravame, insistendo nel chiedere la soppressione dell’assegno e, in subordine, la reiezione della domanda ovvero, in ulteriore subordine, l’aumento dell’assegno a lire 158.990, pari a quello risultante dagli aumenti ISTAT. La C. chiese la conferma dell’assegno nella misura determinata dal Tribunale.
La Corte di appello di Roma, con decreto in data 23 febbraio l998, rideterminò l’assegno in lire 300.000 mensili a decorrere dalla domanda, rivalutabili annualmente.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso a questa Corte la C., formulando due motivi di gravame. Il F. resiste con controricorso e due motivi di ricorso incidentale, ai quali la C. replica a sua volta con controricorso. Il F. ha anche depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi vanno riuniti per essere decisi unitariamente ai sensi dell’art. 335 c. p. c., riguardando il medesimo provvedimento.
2. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, in correlazione con l’art. 5, come modificato dalla legge n. 74 del 1987.
Si deduce specificamente che dalla succinta motivazione del provvedimento impugnato emerge il dato pacifico del consistente divario fra le situazioni economiche degli interessati, godendo il F. di un reddito annuo di lire 270.000.000 e la C. di lire 40.000.000. Si deduce che, muovendo da tale accertamento di fatto, la Corte di appello ha ritenuto di ridurre l’assegno, quantificato dal Tribunale in lire 450.000, a lire 300.000 mensili, in base alla mera affermazione del principio secondo il quale il ragguardevole divario fra le rispettive situazioni economiche dei coniugi, non legittima di per se l’adeguamento dell’assegno di divorzio tenuto conto che la funzione di esso è quella di evitare il deterioramento delle condizioni economiche dei coniugi rispetto a quelle godute in costanza di matrimonio, e non quella di assicurare vantaggi derivanti da eventuali miglioramenti della situazione economica dell’ex coniuge.
Così statuendo, peraltro, secondo la ricorrente la Corte di appello si sarebbe posta contro il principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale, essendo l’accertamento dell’esistenza del diritto all’assegno di divorzio dipendente dalla verifica della inadeguatezza dei mezzi del richiedente a mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, gli eventuali miglioramenti del reddito dell’obbligato, addotti a sostegno della revisione dell’assegno, debbono rapportarsi all’attività svolta dallo stesso all’epoca del matrimonio, includendo nel parametro di riferimento tutti gli incrementi delle condizioni patrimoniali dell’ex coniuge, che si configurino come ragionevole sviluppo di situazioni e aspettative presenti al momento del divorzio.
Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 737 c.p.c. e la nullità del provvedimento impugnato per mancanza di un requisito di forma indispensabile, per essere questo motivato in maniera tale da non estrinsecare la ratio decidendi in base alla quale è stata determinata la misura dell’assegno, non essendo in alcun modo spiegato in base a quale criterio l’assegno originario di lire 100.000 mensili, elevato dal Tribunale a lire 450.000, sia stato ridotto a lire 300.000, non essendo il richiamo al diminuito potere di acquisto della lira sufficiente a giustificare detta determinazione.
Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione della legge n. 74 del 1987. Si deduce specificamente al riguardo che a seguito delle modifiche introdotte da tale legge l’assegno di divorzio ha natura esclusivamente assistenziale, cosicché non è dovuto ove si sia in grado di mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio. Si deduce che, essendo stato dimostrato dinanzi alla Corte di appello che il tenore di vita durante il matrimonio era assai modesto e inferiore a quello attualmente goduto dalla C., non sarebbe dato di comprendere perché la Corte di appello non abbia eliminato l’assegno di divorzio.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970. Si deduce specificamente al riguardo che ai sensi di tale norma la revisione dell’assegno è condizionata alla sopravvenienza di circostanze nuove che determinino un mutamento della situazione di fatto esistente al momento della pronuncia, la quale non può essere costituita dalla mera svalutazione monetaria, ne dal permanere di una situazione di maggiore redditività del soggetto obbligato, quale riscontrata dalla Corte di appello.
3. Per ragioni di ordine logico il secondo motivo del ricorso principale – con il quale si deduce la nullità del provvedimento impugnato per carenza assoluta di motivazione in ordine alla determinazione della misura dell’assegno – va esaminato pregiudizialmente.
Detto motivo è, peraltro, infondato, tenuto conto che la carenza assoluta di motivazione che dà luogo alla nullità del provvedimento camerale, si verifica solo quando la motivazione sia del tutto assente, ovvero tale da essere inidonea ad esprimere una ratio decidendi. Viceversa, nel caso di specie, la Corte di appello ha enunciato ragioni e criteri idonei ad esprimerla – ed ai fini della infondatezza del motivo ciò è sufficiente – affermando per un verso che la sussistenza di un ragguardevole divario fra le condizioni economiche dei coniugi non legittima, di per se l’adeguamento dell’assegno, che non è diretto ad assicurare al titolare dell’assegno i vantaggi derivanti dal miglioramento della situazione economica dell’ex coniuge, ma ad impedire il deterioramento delle condizioni economiche godute in costanza di matrimonio; per altro verso che l’assegno andava conservato, tenuto conto che il reddito dell’avente diritto era appena sufficiente al soddisfacimento delle necessità essenziali, e andava quantificato in lire 300.000 mensili in considerazione del diminuito potere di acquisto della moneta.
4. Venendo all’esame congiunto del primo motivo del ricorso principale, e del primo motivo del ricorso incidentale, in quanto fra loro strettamente connessi, va considerato che l’orientamento di questa Corte interpretativo dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, nel testo modificato dall’art. 13 della legge n. 74 del 1987 – applicabile anche alle domande di revisione degli assegni di divorzio liquidati prima dell’entrata in vigore di detta legge (Cass. 10 dicembre 1991, n. 13256; 28 luglio 1989, n. 3535) – si è formato in correlazione con quello dell’art. 5 della stessa legge n. 898 del 1970, come modificato dall’art. 10 della legge 74 del 1987.
Secondo tale articolo, l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio va effettuato verificando “l’inadeguatezza dei mezzi (o l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive), raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio”, mentre la liquidazione in concreto dell’assegno, ove sia ritenuto dovuto non essendo il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri soli mezzi detto tenore di vita, va compiuto in concreto tenendo conto, sempre a norma dell’art. 5, delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (Cass. SS.UU. 29 novembre 1990, n. 11490).
In correlazione a ciò si è tratta la conseguenza che la revisione dell’assegno in senso più favorevole all’avente diritto, prevista dall’art. 9 sopra citato in relazione alla sopravvenienza “di giustificati motivi”, è uno strumento volto ad assicurare all’ex coniuge la disponibilità di quanto necessario, nel tempo, per fruire di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico-sociale, nonché ai suoi prevedibili sviluppi. Ciò sulla base di una reiterata valutazione comparativa della situazione delle parti ed in proporzione alle rispettive sostanze.
I motivi sopravvenuti che giustificano detta modificazione consistono in mutamenti delle condizioni patrimoniali e reddituali di entrambi gli ex coniugi, valutati bilateralmente e comparativamente, o anche di uno solo, in quanto siano idonei a variare i termini della situazione di fatto e ad alterare l’equilibrio economico dettato in sede di divorzio (Cass. 26 novembre 1998, n. 12010), con la specificazione che il tenore di vita al quale deve farsi riferimento, non è solo quello riconducibile ai mezzi economici che i coniugi avevano durante il matrimonio, ma anche alla sopravvenienza di miglioramenti di reddito “che si configurino come ragionevole sviluppo di situazioni e aspettative presenti al momento del divorzio” (Cass. 4 aprile 1997, n. 5720) e siano quindi rapportabili “all’attività all’epoca svolta, e/o al tipo di qualificazione professionale” dell’onerato (Cass. 8 gennaio 1996, n. 2273), ovvero, comunque, all’evoluzione economica prevedibile durante il matrimonio (Cass. 16 novembre 1993, n. 11326).
Non si ravvisano ragioni per discostarsi da tale indirizzo interpretativo, che appare in linea con l’esigenza di tutela delle aspettative del coniuge economicamente più debole, sorte durante il matrimonio e pregiudicate dagli effetti della sua cessazione, alle quali la legge n. 74 del 1987 ha inteso dare particolare tutela, come si evince dall’espresso riconoscimento in suo favore (art. 16 di tale legge, che ha introdotto l’art. 12 bis nella legge n. 898 del 1970) – ove titolare di assegno di divorzio – anche del diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, ancorché venga “a maturare dopo la sentenza”.
Questo collegio ritiene peraltro di dovere precisare innanzitutto che, ove parte dei miglioramenti sopravvenuti nella situazione economica del coniuge onerato siano imprevedibili e non ricollegabili con aspettative già esistenti nel corso del matrimonio, di questi non può tenersi conto al fine della determinazione del suddetto tenore di vita, ma deve tuttavia tenersi conto, al fine della revisione dell’assegno, di quegli eventuali minori incrementi di reddito corrispondenti alle aspettative esistenti durante il matrimonio.
Deve ritenersi, inoltre, che il legislatore, subordinando la revisione dell’assegno alla sopravvenienza di giustificati motivi nel senso sopra detto, non ha inteso stabilire un automatismo fra i miglioramenti della situazione economica di un coniuge, successiva al divorzio – se costituenti sviluppo di attività e potenzialità già esistenti durante il matrimonio – e l’aumento dell’assegno.
La situazione, in tale caso, richiede infatti, alla stregua del criterio legislativo della esistenza di giustificati motivi, che si valuti in che misura il coniuge che richiede la rivalutazione dell’assegno possa ritenersi titolare di un affidamento ad un tenore di vita correlato a detti miglioramenti economici, valutazione che va compiuta alla luce degli elementi indicati in via generale dall’art. 5 per la quantificazione dell’assegno, i quali costituiscono metro della modifica e della misura di questa.
Nel caso di specie la Corte di appello, con il provvedimento impugnato, raffrontando un reddito al momento della decisione di lire 270.000.000 annui dell’ex coniuge onerato di un assegno di lire 100.000 mensili, con un reddito annuo del beneficiario dell’assegno di lire 40.000.000 annui, ha sostanzialmente negato in radice che si possa tenere conto, in sede di esame della domanda di revisione dell’assegno, anche in parte, dei miglioramenti della situazione reddituale di un coniuge sopravvenuta al divorzio, senza alcuna distinzione fra incrementi di reddito del coniuge onerato successivi al divorzio, ma riconducibili, almeno parzialmente, ad aspettative presenti nel corso del matrimonio, e incrementi di reddito non riconducibili, nemmeno in parte, a tali aspettative, in quanto interamente correlati a circostanze eccezionali. In tal modo il provvedimento impugnato risulta emanato in violazione dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, nel testo vigente, così come sopra interpretato.
Ne deriva che il primo motivo del ricorso principale deve essere accolto.
Il primo motivo del ricorso incidentale deve invece essere rigettato, risultando da quanto sopra detto che, ai fini della determinazione del tenore di vita al quale va raffrontata la situazione economica delle parti in sede di revisione dell’assegno – contrariamente a quanto sostenuto con detto motivo – deve tenersi conto, ove ne sussistano i presupposti, in fattore e in diritto, nei limiti e nei modi sopra indicati, anche della incidenza degli eventuali incrementi di reddito del coniuge onerato, che si configurino come prevedibili sviluppi di attività e potenzialità in atto durante il matrimonio.
Il provvedimento impugnato va pertanto cassato in relazione al motivo accolto, dichiarandosi assorbito secondo motivo del ricorso incidentale, e rinviandosi la causa ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che farà applicazione del principio di diritto sopra enunciato, provvedendo anche sulle spese di questo giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte di cassazione riunisce i ricorsi. Rigetta il secondo motivo del ricorso principale, nonché il primo motivo del ricorso incidentale. Accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso principale; dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso incidentale. Cassa il decreto impugnato e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di appello di Roma.