Guglielmo Tell, l’eroe nazionale svizzero, ha acquisito valore politico e culturale, quale simbolo di libertà, ben oltre i confini della Confederazione.
Ma nella figura di Tell molti governi hanno anche intravisto una minaccia personale, e l’hanno quindi bandita dalla cultura e dalla politica.
Nella «via cava», Gugliemo Tell uccise il balivo Gessler con un preciso tiro di balestra: fu assassinio o legittima difesa?
Mentre gli uni considerano quello di Tell come un gesto morale di liberazione dall’ingiustizia, per altri non è che un assassinio a tradimento, simbolo di ingiustizia. «Per questo», spiega Katharina Mommsen, studiosa di letteratura tedesca, «la figura di Tell è sempre in bilico tra quella di un eroe e quella di un assassino».
Nel 1789, la rivoluzione francese celebrò Guglielmo Tell quale eroe della libertà. La sua leggenda era perfettamente adatta a giustificare una rivoluzione per cui, rappresentandola spesso sul palcoscenico, fu presto nota ed apprezzata dal popolo.
Nel 1922, truppe belghe e francesi occuparono la Renania e la regione della Ruhr, per fare pressione sulla Germania, che era in ritardo nel pagamento dei risarcimenti stabiliti nel trattato di pace di Versailles.
Le forze francesi d’occupazione proibirono quindi le rappresentazioni del «Tell» a Wiesbaden, Koblenz, Essen e Bochum, a causa delle manifestazioni che suscitavano.
Tell e i nazisti
Anche Adolf Hitler voleva appropriarsi dei contenuti del «Tell», per giustificare i suoi obbiettivi politici. Dopo l’ascesa al potere del «Führer», il «Guglielmo Tell» fu molto apprezzato quale opera drammatica nazionale. Non solo dava corpo al pensiero nazionalsocialista, bensì anche al suo concetto di una comunità dei popoli e alla figura del condottiero ideale.
Tell il rivoluzionario
Il passaggio allora più citato era quello del giuramento del Grütli, che avrebbe dovuto servire a rafforzare l’unità politica e spirituale della Germania. Il giuramento fu integrato anche nel programma di molte manifestazioni e riunioni politiche.
Ma accanto a Tell, i nazisti citavano anche Stauffacher quale figura di condottiero. L’allora capo della propaganda del Reich, Joseph Goebbels, adattò il dramma di Schiller per i propri bisogni: «Il popolo oppresso deve obbedire con ferrea autodisciplina al condottiero della sua stessa stirpe e della sua stessa razza, come gli Svizzeri al saggio e lungimirante Stauffacher.»
Improvviso scetticismo
In seguito ai vari attentati falliti contro Hitler, tra cui anche quello di uno svizzero, il «Führer» si preoccupava per la sua sicurezza. E improvvisamente il «Guglielmo Tell» non fu più tanto apprezzato, poiché nel dramma l’uccisione del tiranno, nelle vesti del balivo Gessler, viene celebrata in lungo e in largo.
Non destò quindi sorpresa l’ordine del 3 giugno del 1941: «Il Führer desidera che l’opera teatrale di Schiller “Guglielmo Tell” non sia più rappresentata».
Con questa decisione, per il pubblico tedesco il «Guglielmo Tell» di Friedrich Schiller cessò di esistere. Il «Tell» fu così l’unico testo classico tedesco colpito da un divieto di rappresentazione e di lettura sotto il regime nazista.
Eroe della libertà o terrorista?
Anche i rivoluzionari russi si rifecero a Guglielmo Tell. Per tentare di opporsi all’estradizione del rivoluzionario Nechaev voluta dal governo degli Zar, Michail Bakunin si appellò a Guglielmo Tell, «l’eroe dell’assassinio politico».
Nonostante l’abolizione della monarchia in molti paesi, la soppressione dei tiranni non è passata di moda. Anzi, in relazione al termine di «terrorismo», il tema di Guglielmo Tell rimane più che mai attuale.
La lotta dei terroristi è rivolta contro governi che opprimono parte del popolo. E così ci sono governi che definiscono volentieri la resistenza quale terrorismo. In quest’ottica, la tematica della soppressione dei tiranni è tuttora al centro delle discussioni.
Tell rimane per gli uni un terrorista, per gli altri è un combattente per la libertà. Per gli austriaci, Guglielmo Tell era certamente un terrorista. Per gli inglesi nella Palestina degli anni 40, Menachem Begin e Ytzhak Shamir, dirigenti di organizzazioni clandestine, erano pure terroristi. Ma, ironia della sorte, entrambi ricoprirono in seguito la carica di primo ministro di Israele.
Perciò non deve stupire, se gli estremisti palestinesi che nel 1969 tirarono su un aereo della compagnia israeliana El-Al all’aeroporto di Zurigio, si rifacevano esplicitamente a Guglielmo Tell.
Nell’immagine che ce se ne fa in giro per il mondo, Tell, il semplice cacciatore e contadino urano, incarna sia la figura dell’apostolo della libertà dei popoli, sia quella del terrorista.
swissinfo, Etienne Strebel (traduzione: Fabio Mariani)
CONTESTO
Attraverso i secoli, la leggenda di Guglielmo Tell ha trovato apprezzamenti, ma anche decisa opposizione da parte dei potenti. Spesso la lettura del mito veniva adattata alle necessità locali.
L’uccisione del balivo Gessler era, secondo il caso, ritenuta un cattivo esempio, un’istigazione alla rivolta e al tirannicidio.
Ancora nel Ventesimo secolo, l’esempio storico di Tell veniva collegato al terrorismo sovversivo. Si tratta di una questione di prospettiva e illustra simbolicamente il filo sottile che divide lotta per la libertà e terrorismo.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 16:20:192016-07-28 16:20:19Tell nel mondo: simbolo di libertà o terrorista?
foto tratte dal sito della Scuola media di Breganzona TI
Indice:
1. Il Ponte del Diavolo
2. La Buca d’Uri
3. Animali da soma nel XVIII secolo
4. La Tremola
5. La diligenza
6. La Gotthardbahn
7. L’elettrificazione della linea
8. L’autopostale
9. La nuova strada del passo
10. Il tunnel autostradale
1. Nel XIII secolo nasce la “Twerrenbrücke” per superare le gole della Schöllenen, sostituita poi dal vecchio e dal nuovo Ponte del Diavolo (1830), qui attraversato dalla diligenza.
2. Nel 1707-1708 viene aperta al transito la “Buca d’Uri” tra Göschenen e Andermatt, qui in un quadro del 1790
3. Raffigurazione del passaggio sulla mulattiera con gli animali da soma sul passo del San Gottardo nel XVIII secolo, durante la stagione invernale.
4. 1830: apertura della strada carrozzabile, qui sul versante ticinese: la vecchia Tremola, una vera e propria concentrazione di pericoli, in una fotografia scattata nel 1930.
5. Con la carrozzabile, viene anche inaugurato il servizio di diligenza del San Gottardo, qui raffigurata all’uscita dal villaggio di Hospenthal nel 1843.
6. Il 1º giugno 1882, viene aperta la galleria ferroviaria: qui il treno inaugurale.
7. Tra il 1919 ed il 1924, avviene l’elettrificazione della linea ferroviaria che è ancora oggi quella di allora. Nell’immagine una locomotiva Be 4/6 del 1920.
8. Nel 1926 l’autopostale prende il posto dell’ormai vetusta diligenza…
9. 1970: rimodernamento del tracciato del passo del San Gottardo con l’apertura della nuova strada che si affianca alla Tremola.
10. Il 5 settembre 1980 si inaugura il traforo autostradale.
11. AlpTransit: per ora è un’immagine virtuale del grande salto di qualità che è previsto per la ferrovia che tornerà ad essere competitiva con l’automobile, forse dal 2010.
Il Passo del San Gotttardo ( in Inglese Saint Gotthard, francese Saint-Gothard, tedesco Sankt Gotthard ) è un elevato valico alpino svizzero che mette in comunicazione Airolo nel Canton Ticino e Andermatt nel cantone Uri; in senso lato costituisce un collegamento tra la parte settentrionale della Svizzera, di lingua tedesca, e la parte italiana della confederazione, aprendosi sulla strada che porta a Milano. Sebbene la via fosse conosciuta sin dalla più remota antichità, iniziò ad essere praticata solo dal XIII secolo. Il principale ostacolo lungo il percorso era costituito dalla Schöllenen Gorge, una stretta ed impervia gola scavata dal fiume Reuss sopra Andermatt, solitamente travolta dalle nevi sino nella bella stagione inoltrata. Secondo le tradizioni orali dei paesi limitrofi, questo punto cruciale causava diversi decessi ogni anno, nel tentativo di raggiungere la sommità del San Gottardo. Il ponte che venne edificato sul Reuss venne denominato “Ponte del Diavolo” in quanto, narrano le leggende, pare essere stato costruito dal Demonio in persona! Il viadotto aprì la possibilità di seguire il corso del Reuss sino alle sue sorgenti e di salire sul colle sovrastante; esattamente sullo spartiacque continentale tra il Reno che scorre verso il Mare del Nord e il Po che si tuffa nel Mediterraneo. Il passo vide effettuarsi solo spostamenti a piedi o tramite animali da soma sino al 1775, quando la prima carrozza riuscì a compiere il percorso su di una strada notevolmente migliorata. Già dal 1236 il valico fu dedicato al bavarese San Gottardo di Hildersheim.
Nel 1882 venne inaugurato un tunnel ferroviario lungo 15km che passa al di sotto del massiccio, per la realizzazione del quale si sacrificarono 177 vite degli operai impiegati nell’opera; nel 1980 venne aperta un’altra galleria, questa volta stradale, lunga 17km al costo, anch’esso impressionante di 53 morti. Al momento è in costruzione un secondo tunnel ferroviario, la “Galleria di Base del San Gottardo”: quando sarà ultimata diverrà la galleria più lunga del mondo e misurerà 57km. Quest’ultimo tunnel in combinazione con altri due, più corti, nei pressi di Zurigo e Lugano ridurrà di un’ora il tempo impiegato per percorrere il tratto Milano-Zurigo (attualmente 3h e 40min).
STORIA
In epoca Romana, pur essendo il percorso attraverso il San Gottardo il più breve per superare le Alpi, furono altre le vie preferite per muoversi verso nord dalla Lombardia. I valichi del Settimo e del Lucomagno erano molto più adatti al trasporto di merci soprattutto in quanto dotate di una strada carrabile, mentre il Gottardo poteva essere superato solo a piedi o con animali da soma; considerando che un mulo poteva trasportare circa un terzo della merce di un carro risulta chiaro come il Settimo e Lucomagno potessero essere preferiti nonostante costringessero i passanti a percorrere una lunghezza quasi doppia. Inoltre la via del Gottardo presentava degli ostacoli notevoli sia sul versante italiano, in Leventina, che su quello svizzero con la già citata gola di Schöllenen. Nel XII sec. i Walser valicando il Passo della Furka giunsero in vall’Orsera, una piccola vallata a monte dell’impervia gola e con le loro tecniche, avanzatissime per il tempo, edificarono il Ponte del Diavolo sul Reuss, nonché una passerella di una sessantina di metri sospesa sulla viva roccia che apriva l’accesso al ponte. Con queste realizzazioni il passo assunse un’importanza europea e divenne determinante per le popolazioni dei due versanti. A metà del XIII sec. il passo compare nel Annales Stradenses, una sorta di guida per i pellegrini che dal nord Europa intendono raggiungere Roma ed in quegli anni, più precisamente nel 1230, vengono edificati una cappella dedicata a San Gottardo ed un ospizio: il quarto. A questo punto il valico era dotato di un’adeguata rete di assistenza ai viandanti. Le vallate a meridione avevano ottenuto la totale libertà dai signori locali, sancita dal Patto di Torre del 1182: le comunità di Blenio e Leventina si allearono ed ammisero come unica autorità quella della Chiesa. Le comunità a nord del passo, invece, riuscirono ad ottenere la libertà dai vincoli con gli Asburgo, ponendosi sotto la diretta giurisdizione imperiale, grazie al denaro ricavato dai traffici lungo il Gottardo. In questa situazione le popolazioni locali detenevano l’effettivo controllo sul valico; ciò costituiva una grande fonte di ricchezza, ma anche un notevole dispendio di risorse per mantenere agibile la strada in tutte le stagioni. A nord si andò formando la Lega Svizzera che dal 1439 al 1803 riuscì a dominare anche la Leventina, sotto controllo del cantone Uri, e quindi del lato italiano del Gottardo. In quel tempo il colle era denominato La via delle genti delineando bene quale fosse la sua funzione: un percorso molto comodo per le persone, ma non per le merci. Secondo dei dati giunti ai giorni nostri e che coprono il periodo tra il 1498 ed il 1502 transitavano sul San Gottardo 170 tonnellate di merci annue, mentre attraverso il Brennero si era già a 4500t. Nel 1708 si ebbe un sostanziale miglioramento allorché venne costruita una galleria di 60m presso la gole di Schöllenenche facilitava di molto l’accesso al ponte rispetto alla passerella costruita 500 anni prima. Nel 1775 venne documentato il primo transito di una carrozza, ma nei tratti più difficoltosi si dovette ancora smontare il mezzo e trasportarlo a dorso di mulo.
L’unico atto di guerra che ebbe per teatro il ben custodito valico avvenne nel 1799, durante le guerre napoleoniche, quando l’armata russa del maresciallo Aleksandr Vasil’evic Suvorov valicò il passo e si scontrò con Francesi nelle gole della Reuss.
Lo scontro avvenne al “Ponte del diavolo” e solo con il sacrificio di più di mille cosacchi Suvorov riuscì a scendere ad Altdorf.
Avuta la notizia della sconfitta dei Russi del generale Korsakov a Zurigo inflitta dal generale Masséna, attraverso le Alpi e dovette ritirarsi fino all’alto Reno e nel Vorarlberg.
quadro dipinto da Vassili Surikov nel 1899. (Museo di Stato, San Pietroburgo)
Alcuni ufficiali russi rendono omaggio al monumento dedicato a Suvorov,ad Andermatt (Canton Uri)(2007)
Nel XIX sec avvenne il grande salto di qualità con la costruzione di una vera e propria carreggiata larga di almeno 5 metri lungo tutto il percorso e di un nuovo ponte alla Gola del Diavolo. Dopodiché avvennero le costruzioni dei tunnel: la galleria ferroviaria, lunga 15km, venne edificata tra il 1872 e il 1882; un secolo dopo, nel 1980, toccò alla galleria autostradale di 17 km ed oggi è in corso d’opera la realizzazione di una seconda galleria ferroviaria da ben 57km che dovrebbe essere pronta per il 2015.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 16:16:312016-07-28 16:16:31La storia del San Gottardo – Dal Ponte del Diavolo ad Alptransit
COSIMO Poichè noi mutiamo ragionamento, io voglio che si muti domandatore, perchè io non vorrei essere tenuto presuntuoso; il che sempre ho biasimato negli altri. Però io depongo la dittatura, e do questa autorità a chi la vuole di questi altri miei amici.
ZANOBI E’ ci era gratissimo che voi seguitassi; pure, poichè voi non volete dite almeno quale di noi dee succedere nel luogo vostro.
COSIMO Io voglio dare questo carico al signore.
FABRIZIO Io sono contento prenderlo, e voglio che noi seguitiamo il costume viniziano: che il più giovane parli prima, perchè, sendo questo esercizio da giovani, mi persuado che i giovani sieno più atti a ragionarne, come essi sono più pronti a esequirlo.
COSIMO Adunque e’ tocca a voi, Luigi. E come io ho piacere di tale successore, così voi vi sodisfarete di tale domandatore. Però vi priego torniamo alla materia e non perdiamo più tempo.
FABRIZIO Io son certo che, a volere dimostrare bene come si ordina uno esercito per far la giornata, sarebbe necessario narrare come i Greci e i Romani ordinavano le schiere negli loro eserciti. Nondimeno, potendo voi medesimi leggere e considerare queste cose mediante gli scrittori antichi, lascerò molti particolari indietro, e solo ne addurrò quelle cose che di loro mi pare necessario imitare, a volere ne’ nostri tempi dare alla milizia nostra qualche parte di perfezione. Il che farà che in uno tempo io mostrerò come uno esercito si ordini alla giornata, e come si affronti nelle vere zuffe, e come si possa esercitarlo nelle finte. Il maggiore disordine che facciano coloro che ordinano uno esercito alla giornata, è dargli solo una fronte e obligarlo a uno impeto e una fortuna. Il che nasce dallo avere perduto il modo che tenevano gli antichi a ricevere l’una schiera nell’altra; perchè, sanza questo modo, non si può nà sovvenire a’ primi, nè difendergli, nè succedere nella zuffa in loro scambio; il che da’ Romani era ottimamente osservato. Per volere adunque mostrare questo modo, dico come i Romani avevano tripartita ciascuna legione in astati, principi e triarii; de’quali, gli astati erano messi nella prima fronte dello esercito con gli ordini spessi e fermi; dietro a’quali erano i principi ma posti con gli loro ordini più radi: dopo questi mettevano i triarii, e con tanta radità di ordini che potessono, bisognando, ricevere tra loro i principi e gli astati. Avevano, oltre a questi, i funditori e i balestrieri e gli altri armati alla leggiera; i quali non stavano in questi ordini, ma li collocavano nella testa dello esercito tra li cavagli e i fanti. Questi, adunque, leggermente armati appiccavano la zuffa; se vincevano, il che occorreva rade volte, essi seguivano la vittoria; se erano ributtati, si ritiravano per i fianchi dello esercito o per gli intervalli a tale effetto ordinati, e si riducevano tra’ disarmati. Dopo la partita de’ quali venivano alle mani con il nimico gli astati; i quali, se si vedevano superare, si ritiravano a poco a poco per la radità degli ordini tra’ principi e, insieme con quegli, rinnovavano la zuffa. Se questi ancora erano sforzati, si ritiravano tutti nella radità degli ordini de’ triarii e, tutti insieme, fatto uno mucchio, ricominciavano la zuffa; e se questi la perdevano, non vi era più rimedio, perchè non vi restava più modo a rifarsi. I cavagli stavano sopra alli canti dello esercito, posti a similitudine di due alie a uno corpo, e or combattevano con i cavagli, or sovvenivano i fanti, secondo che il bisogno lo ricercava. Questo modo di rifarsi tre volte è quasi impossibile a superare, perchè bisogna che tre volte la fortuna ti abbandoni e che il nimico abbia tanta virtù che tre volte ti vinca. I Greci non avevano con le loro falangi questo modo di rifarsi, e benchè in quelle fusse assai capi e di molti ordini, nondimeno ne facevano un corpo, ovvero una testa. Il modo ch’essi tenevano in sovvenire l’uno l’altro era, non di ritirarsi l’uno ordine nell’altro, come i Romani, ma di entrare l’uno uomo nel luogo dell’altro. Il che facevano in questo modo: la loro falange era ridotta in file; e pognamo che mettessono per fila cinquanta uomini, venendo poi con la testa sua contro al nimico; di tutte le file, le prime sei potevano combattere perchè le loro lance, le quali chiamavano sarisse, erano sì lunghe che la sesta fila passava con la punta della sua lancia fuora della prima fila. Combattendo, adunque, se alcuno della prima o per morte o per ferite cadeva, subito entrava nel luogo suo quello che era di dietro nella seconda fila, e, nel luogo che rimaneva voto della seconda, entrava quello che gli era dietro nella terza; e così successive in uno subito le file di dietro instauravano i difetti di quegli davanti; in modo che le file sempre restavano intere e niuno luogo era di combattitori vacuo, eccetto che la fila ultima, la quale si veniva consumando per non avere dietro alle spalle chi la instaurasse; in modo che i danni che pativano le prime file consumavano le ultime. E le prime restavano sempre intere; e così queste falangi, per l’ordine loro, si potevano piuttosto consumare che rompere, perchè il corpo grosso le faceva più immobili. Usarono i Romani, nel principio, le falangi, e instruirono le loro legioni a similitudine di quelle. Di poi non piacque loro questo ordine, e divisero le legioni in più corpi, cioè in coorti e in manipoli; perchè giudicarono, come poco fa dissi, che quel corpo avesse più vita, che avesse più anime, e che fusse composto di più parti, in modo che ciascheduna per se stessa si reggesse. I battaglioni de’ Svizzeri usano in questi tempi tutti i modi della falange, così nello ordinarsi grossi e interi, come nel sovvenire l’uno l’altro; e nel fare la giornata pongono i battaglioni l’uno a’ fianchi dell’altro; e, se li mettono dietro l’uno all’altro, non hanno modo che il primo, ritirandosi, possa essere ricevuto dal secondo; ma tengono, per potere sovvenire l’uno l’altro, quest’ordine: che mettono uno battaglione innanzi e un altro dietro a quello in su la man ritta, tale che, se il primo ha bisogno d’aiuto, quello si può fare innanzi e soccorrerlo. Il terzo battaglione mettono dietro a questi, ma discosto un tratto di scoppietto. Questo fanno perchè, sendo quegli due ributtati, questo si possa fare innanzi, e abbiano spazio, e i ributtati e quel che si fa innanzi, a evitare l’urto l’uno dell’altro; perchè una moltitudine grossa non può essere ricevuta come un corpo piccolo, e però i corpi piccoli e dÃstinti che erano in una legione romana si potevano collocare in modo che si potessono tra loro ricevere e l’uno l’altro con facilità sovvenire. E che questo ordine de’ Svizzeri non sia buono quanto lo antico romano, lo dimostrano molti esempli delle legioni romane quando si azzuffarono con le falangi greche; e sempre queste furono consumate da quelle, perchè la generazione dell’armi come io dissi dianzi, e questo modo di rifarsi, potè più che la solidità delle falangi. Avendo, adunque, con questi esempli a ordinare uno esercito, mi è parso ritenere l’armi e i modi, parte delle falangi greche, parte delle legioni romane; e però io ho detto di volere in uno battaglione dumila picche, che sono l’armi delle falangi macedoniche, e tremila scudi con la spada, che sono l’armi de’ Romani. Ho diviso il battaglione in dieci battaglie, come i Romani; la legione in dieci coorti. Ho ordinato i veliti, cioè l’armi leggieri, per appiccare la zuffa come loro. E perchè così, come l’armi sono mescolate e participano dell’una e dell’altra nazione, ne participino ancora gli ordini, ho ordinato che ogni battaglia abbia cinque file di picche in fronte e il restante di scudi, per potere, con la fronte, sostenere i cavagli e entrare facilmente nelle battaglie de’ nimici a piè, avendo nel primo scontro le picche, come il nimico, le quali voglio mi bastino a sostenerlo, gli scudi, poi, a vincerlo. E se voi noterete la virtù di questo ordine, voi vedrete queste armi tutte fare interamente l’ufficio loro, perchè le picche sono utili contro a’ cavagli, e, quando vengono contro a’ fanti fanno bene l’ufficio loro prima che la zuffa si ristringa; perchè, ristretta ch’ella è, diventano inutili. Donde che i Svizzeri, per fuggire questo inconveniente pongono dopo ogni tre file di picche una fila d’alabarde; il che fanno per dare spazio alle picche, il quale non è tanto che basti. Ponendo adunque le nostrè picche davanti e gli scudi dietro, vengono a sostenere i cavagli e, nello appiccare la zuffa, aprono e molestano i fanti; ma poi che la zuffa è ristretta, e ch’elle diventerebbono inutili, succedono gli scudi e le spade; i quali possono in ogni strettura maneggiarsi.
LUIGI Noi aspettiamo ora con disiderio di intendere come voi ordineresti l’esercito a giornata con queste armi e con questi ordini.
FABRIZIO E io non voglio ora dimostrarvi altro che questo. Voi avete a intendere come in uno esercito romano ordinario, il quale chiamavano esercito consolare, non erano più che due legioni di cittadini romani, che erano secento cavagli e circa undicimila fanti. Avevano di poi altrettanti fanti e cavagli, che erano loro mandati dagli amici e confederati loro; i quali dividevano in due parti e chiamavano, l’una, corno destro e, l’altra, corno sinistro; nè mai permettevano che questi fanti ausiliari passassero il numero de’ fanti delle legioni loro; erano bene contenti che fusse più numero quello de’ cavagli. Con questo esercito, che era di ventiduemila fanti e circa dumila cavagli utili, faceva uno consolo ogni fazione e andava a ogni impresa. Pure, quando bisognava opporsi a maggiori forze, raccozzavano due consoli con due eserciti. Dovete ancora notare come, per l’ordinario, in tuttatrè l’azioni principali che fanno gli eserciti cioè camminare, alloggiare e combattere, mettevano le legioni in mezzo perchè volevano che quella virtù in la quale più confidavano, fusse più unita, come nel ragionare di tuttatrè queste azioni vi si mostrerà . Quegli fanti ausiliarii, per la pratica che avevano con i fanti legionari, erano utili quanto quelli; perchè erano disciplinati come loro e però nel simile modo, nello ordinare la giornata gli ordinavano. Chi adunque sa come i Romani disponevano una legione nell’esercito a giornata, sa come lo disponevano tutto. Però, avendovi io detto come essi dividevano una legione in tre schiere, e come l’una schiera riceveva l’altra, vi vengo ad avere detto come tutto lo esercito in una giornata si ordinava. Volendo io pertanto ordinare una giornata a similitudine de’ Romani, come quegli avevano due legioni, io prenderò due battaglioni, e, disposti questi, si intenderà la disposizione di tutto uno esercito; perchè nello aggiungere più genti non si arà a fare altro che ingrossare gli ordini. Io non credo che bisogni che io vi ricordi quanti fanti abbia uno battaglione, e come egli ha dieci battaglie, e che capi sieno per battaglia, e quali armi abbiano, e quali sieno le picche e i veliti ordinarii e quali gli estraordinarii; perchè poco fa ve lo dissi distintamente, e vi ricordai lo mandassi alla memoria come cosa necessaria a volere intendere tutti gli altri ordini; e però io verrò alla dimostrazione dell’ordine sanza replicare altro. E’ mi pare che le dieci battaglie d’uno battaglione si pongano nel sinistro fianco e, le dieci altre dell’altro, nel destro. Ordininsi quelle del sinistro in questo modo: pongansi cinque battaglie l’una allato all’altra nella fronte, in modo che tra l’una e l’altra rimanga uno spazio di quattro braccia che vengano a occupare, per larghezza, centoquarantuno braccio di terreno e, per la lunghezza, quaranta. Dietro a queste cinque battaglie ne porrei tre altre, discosto per linea retta dalle prime quaranta braccia; due delle quali venissero dietro per linea retta alle estreme delle cinque, e l’altra tenesse lo spazio di mezzo. E così verrebbero queste tre ad occupare per larghezza e per lunghezza il medesimo spazio che le cinque; ma, dove le cinque hanno tra l’una e l’altra una distanza di quattro braccia, queste l’arebbero di trentatrè. Dopo queste porrei le due ultime battaglie pure dietro alle tre, per linea retta e distanti, da quelle tre, quaranta braccia; e porrei ciascuna d’esse dietro alle estreme delle tre, tale che lo spazio che restasse tra l’una e l’altra sarebbe novantuno braccio. Terrebbero adunque tutte queste battaglie così ordinate, per larghezza, centoquarantuno braccio e, per lunghezza, dugento. Le picche estraordinarie distenderei lungo i fianchi di queste battaglie dal lato sinistro, discosto venti braccia da quelle, faccendone centoquarantatrè file a sette per fila; in modo ch’elle fasciassono con la loro lunghezza tutto il lato sinistro delle dieci battaglie, nel modo da me detto, ordinate; e ne avanzerebbe quaranta file per guardare i carriaggi e i disarmati che rimanessono nella coda dello esercito, distribuendo i capidieci e i centurioni ne’luoghi loro; e degli tre connestaboli ne metterei uno nella testa, l’altro nel mezzo, il terzo nell’ultima fila, il quale facesse l’ufficio del tergiduttore, chè così chiamavano gli antichi quello che era proposto alle spalle dello esercito. Ma, ritornando alla testa dello esercito, dico come io collocherei appresso alle picche estraordinarie i veliti estraordinarii, che sapete che sono cinquecento, e darei loro uno spazio di quaranta braccia. A lato a questi, pure in su la man manca, metterei gli uomini d’arme, e vorrei avessero uno spazio di centocinquanta braccia. Dopo questi, i cavagli leggieri, a’ quali darei il medesimo spazio che alle genti d’arme. I veliti ordinarii lascerei intorno alle loro battaglie, i quali stessono in quegli spazi che io pongo tra l’una battaglia e l’altra, che sarebbero come ministri di quelle, se già egli non mi paresse da metterli sotto le picche estraordinarie; il che farei, o no, secondo che più a proposito mi tornasse. Il capo generale di tutto il battaglione metterei in quello spazio che fusse tra ‘l primo e il secondo ordine delle battaglie, ovvero nella testa e in quello spazio che è tra l’ultima battaglia delle prime cinque e le picche estraordinarie, secondo che più a proposito mi tornasse, con trenta o quaranta uomini intorno, scelti e che sapessono per prudenza esequire una commissione e per fortezza sostenere uno impeto; e fusse ancora esso in mezzo del suono e della bandiera. Questo è l’ordine col quale io disporrei uno battaglione nella parte sinistra, che sarebbe la disposizione della metà dell’esercito; e terrebbe, per larghezza, cinquecento undici braccia e, per lunghezza, quanto di sopra si dice, non computando lo spazio che terrebbe quella parte delle picche estraordinarie che facessono scudo a’ disarmati, che sarebbe circa cento braccia. L’altro battaglione disporrei sopra ‘l destro canto,in quel modo appunto che io ho disposto quello del sinistro, lasciando dall’uno battaglione all’altro uno spazio di trenta braccia; nella testa del quale spazio porrei qualche carretta di artiglieria, dietro alle quali stesse il capitano generale di tutto l’esercito e avesse intorno, con il suono e con la bandiera capitana, dugento uomini almeno, eletti, a piè la maggior parte, tra’ quali ne fusse dieci o più, atti a esequire ogni comandamento; e fusse in modo a cavallo e armato che potesse essere e a cavallo e a piè secondo che il bisogno ricercasse. L’artiglierie dell’esercito, bastano dieci cannoni per la espugnazione delle terre, che non passassero cinquanta libbre di portata; de’ quali in campagna mi servirei più per la difesa degli alloggiamenti che per fare giornata, l’altra artiglieria tutta fusse piuttosto di dieci che di quindici libbre di portata. Questa porrei innanzi alla fronte di tutto l’esercito, se già il paese non stesse in modo che io la potessi collocare per fianco in luogo securo dov’ella non potesse dal nimico essere urtata. Questa forma di esercito così ordinato può, nel combattere, tenere l’ordine delle falangi e l’ordine delle legioni romane; perchè nella fronte sono picche, sono tutti i fanti ordinati nelle file, in modo che, appiccandosi col nimico e sostenendolo, possono ad uso delle falangi ristorare le prime file con quelli di dietro. Dall’altra parte, se sono urtati in modo che fieno necessitati rompere gli ordini e ritirarsi, possono entrare negli intervalli delle seconde battaglie che hanno dietro, e unirsi con quelle, e di nuovo, fatto uno mucchio, sostenere il nimico e combatterlo. E quando questo non basti, possono nel medesimo modo ritirarsi la seconda volta, e la terza combattere; sì che in questo ordine, quanto al combattere, ci è da rifarsi e secondo il modo greco e secondo il romano. Quanto alla fortezza dell’esercito, non si può ordinare più forte; perchè l’uno e l’altro corno è munitissimo e di capi e di armi, nè gli resta debole altro che la parte di dietro de’ disarmati; e quella ha ancora fasciati i fianchi dalle picche estraordinarie. Nè può il nimico da alcuna parte assaltarlo che non lo truovi ordinato; e la parte di dietro non può essere assaltata, perchè non può essere nimico che abbia tante forze che equalmente ti possa assalire da ogni banda; perchè, avendole, tu non ti hai a mettere in campagna seco. Ma quando fusse il terzo più di te e bene ordinato come te, se si indebolisce per assaltarti in più luoghi, una parte che tu ne rompa, tutto va male. Da’ cavagli, quando fussono più che i tuoi, sei sicurissimo; perchè gli ordini delle picche che ti fasciano, ti difendano da ogni impeto di quegli, quando bene i tuoi cavagli fussero ributtati. I capi, oltre a questo, sono disposti in lato che facilmente possono comandare e ubbidire. Gli spazi che sono tra l’una battaglia e l’altra e tra l’uno ordine e l’altro, non solamente servono a potere ricevere l’uno l’altro, ma ancora a dare luogo a’ mandati che andassono e venissono per ordine del capitano. E com’io vi dissi prima, i Romani avevano per esercito circa ventiquattromila uomini, così debbe essere questo, e come il modo del combattere e la forma dell’esercito gli altri soldati lo prendevano da’le legioni, così quelli soldati che voi aggiugnessi agli due battaglioni vostri arebbero a prendere la forma e ordine da quelli. Delle quali cose avendone posto uno esemplo, è facil cosa imitarlo; perchè, accrescendo o due altri battaglioni all’esercito, o tanti soldati degli altri quanti sono quegli, egli non si ha a fare altro che duplicare gli ordini e, dove si pose dieci battaglie nella sinistra parte, porvene venti, o ingrossando o distendendo gli ordini secondo che il luogo o il nimico ti comandasse.
LUIGI Veramente, signore, io mi immagino in modo questo esercito, che già lo veggo, e ardo d’uno disiderio di vederlo affrontare. E non vorrei, per cosa del mondo, che voi diventassi Fabio Massimo, faccendo pensiero di tenere a bada il nimico e differire la giornata, perchè io direi peggio di voi che il popolo romano non diceva di quello.
FABRIZIO Non dubitate. Non sentite voi l’artiglierie? Le nostre hanno già tratto, ma poco offeso il nimico; e i veliti estraordinarii escono de’ luoghi loro insieme con la cavalleria leggiere, e, più sparsi e con maggiore furia e maggior grida che possono, assaltano il nimico; l’artiglieria del quale ha scarico una volta e ha passato sopra la testa de’ nostri fanti sanza fare loro offensione alcuna. E perch’ella non possa trarre la seconda volta, vedete i veliti e i cavagli nostri che l’hanno già occupata, e che i nimici, per difenderla, si sono fatti innanzi; tal che quella degli amici e nimici non può più fare l’ufficio suo. Vedete con quanta virtù combattono i nostri, e con quanta disciplina, per lo esercizio che ne ha fatto loro fare abito e per la confidenza ch’egli hanno nell’esercito; il quale vedete che, col suo passo e con le genti d’arme allato, cammina ordinato per appiccarsi con l’avversario. Vedete l’artiglierie nostre che per dargli luogo e lasciargli lo spazio iibero, si sono ritirate per quello spazio donde erano usciti i veliti. Vedete il capitano che gli inanimisce e mostra loro la vittoria certa. Vedete che i veliti ed i cavagli leggieri si sono allargati e ritornati ne’ fianchi dell’esercito, per vedere se possono per fianco fare alcuna ingiuria alli avversarii. Ecco che si sono affrontati gli eserciti. Guardate con quanta virtù egli hanno sostenuto lo impeto de nimici, e con quanto silenzio, e come il capitano comanda agli uomini d’arme che sostengano e non urtino e dall’ordine delle fanterie non si spicchino. Vedete come i nostri cavagli leggieri sono iti a urtare una banda di scoppiettieri nimici che volevano ferire per fianco, e come i cavagli nimici gli hanno soccorsi: tal che, rinvolti tra l’una e l’altra cavalleria, non possono trarre e ritiransi dietro alle loro battaglie. Vedete con che furia le picche nostre si affrontano, e come i fanti sono già sì propinqui l’uno all’altro, che le picche non si possono più maneggiare; di modo che, secondo la disciplina imparata da noi, le nostre picche si ritirano a poco a poco tra gli scudi. Guardate come, in questo tanto, una grossa banda d’uomini d’arme, nimici, hanno spinti gli uomini d’arme nostri dalla parte sinistra. e come i nostri. secondo la disciplina, si sono ritirati sotto le picche estraordinarie, e, con lo aiuto di quelle avendo rifatto testa, hanno ributtati gli avversari e morti buona parte di loro. Intanto tutte le picche ordinarie delle prime battaglie si sono nascose tra gli ordini degli scudi, e lasciata la zuffa agli scudati; i quali guardate con quanta virtù, sicurtà e ozio ammazzano il nimico. Non vedete voi quanto, combattendo, gli ordini sono ristretti, che a fatica possono menare le spade? Guardate con quanta furia i nimici muoiono. Perchè, armati con la picca e con la loro spada, inutile l’una per essere troppo lunga, l’altra per trovare il nimico troppo armato, in parte cascano fenti o morti, in parte fuggono. Vedetegli fuggire dal destro canto; fuggono ancora dal sinistro; ecco che la vittoria è nostra. Non abbiamo noi vinto una giornata felicissimamente? Ma con maggiore felicità si vincerebbe, se mi fusse concesso il metterla in atto. E vedete che non è bisognato valersi nè del secondo nè del terzo ordine; chè gli è bastata la nostra prima fronte a supc,-argli. In questa parte io non ho che dirvi altro, se non risolvere se alcuna dubitazione vi nasce.
LUIGI Voi avete con tanta furia vinta questa giornata, che io ne resto tutto ammirato e in tanto stupefatto, che io non credo potere bene esplicare se alcuno dubbio mi resta nell’animo. Pure, confidandomi nella vostra prudenza, piglierò animo a dire quello che io intendo. Ditemi prima: perchè non facesti voi trarre le vostre artiglierie più che una volta? E perchè subito le facesti ritirare dentro all’esercito nè poi ne facesti menzione? Parvemi ancora che voi ponessi l’artiglierie del nimico alte e ordinassile a vostro modo, il che può molto bene essere. Pure, quando egli occorresse, che credo ch’egli occorra spesso, che percuotano le schiere, che rimedio ne date? E poichè io mi sono cominciato dalle artiglierie, io voglio fornire tutta questa domanda, per non ne avere a ragionare più. Io ho sentito a molti spregiare l’armi e gli ordini degli eserciti antichi, arguendo come oggi potrebbono poco, anzi tutti quanti sarebbero inutili, rispetto al furore delle artiglierie; perchè queste rompono gli ordini e passono l’armi in modo, che pare loro pazzia fare uno ordine che non si possa tenere, e durare fatica a portare una arme che non ti possa difendere.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 16:02:002016-07-28 16:02:00Dell’arte della guerra – Niccolò Machiavelli
La tradizione militare del popolo dei Cantoni ha radici profonde e lontane: «… Gli Elvezi superano con il loro coraggio tutti gli altri popoli Galli, combattendo una guerra senza tregua contro i Germani, volta ora a difendere le proprie frontiere, ora a superarle di slancio…, in effetti, una popolazione numerosa, la gloria delle armi, il loro coraggio rendono angusto un paese, che misura appena 240’000 passi di lunghezza per 14’000 di larghezza…».
Così scriveva Giulio Cesare nel 58 a. C., aggiungendo che nella lunga ed incerta battaglia della Borgogna: «… Dalla settima ora fino a tarda sera, nessun Elvezio fu mai visto volger le spalle…» [1].
Pure il grande storico latino, Tacito, aveva detto: “Gli helvetii sono un popolo di guerrieri, famoso per il valore dei suoi soldati.”
Forti di questa esperienza, gli Elvezi rientrati nel loro paese si mescolarono ai Romani e continuarono a fornire all’Impero valorosi contingenti ampiamente impiegati nell’aspra lotta contro i Barbari, i quali incalzavano senza sosta alle frontiere.
Questa tradizione militare venne ulteriormente sviluppata nei secoli successivi, fino a divenire una delle fonti principali di sostentamento in un paese scarsamente dotato di ricchezze naturali.
Machiavelli cita il valore degli Svizzeri (Il Principe, Capitolo 12*) quando auspica che venga dismessa, nelle Signorie italiane, l’abitudine di usare truppe mercenarie, ed il Principe si doti di un proprio apparato militare, ritenendo esservi correlazione tra forza e libertà, ed auspica, (“Dell’arte della guerra”, Libro terzo**), che si voglia imitare il comportamento degli Svizzeri per reprimere la codardia.
(*) E per esperienza si vede i principi soli e le repubbliche armate fare progressi grandissimi, e l’armi mercenarie non fare mai se non danno; e con più difficultà viene all’ubbidienza di un suo cittadino una repubblica armata di armi proprie, che una armata di armi forestiere.
Stettero Roma e Sparta molti secoli armate e libere.
I Svizzeri sono armatissimi e liberissimi.
(**) ….. ed imitare i Svizzeri, i quali non schifarono mai giornata sbigottiti dalle artiglierie; anzi puniscono di pena capitale quegli che per paura di quelle o si uscissero della fila o facessero con la persona alcuno segno di timore.
ure lo storico Francesco Guicciardini, il più grande genio della storiografia italiana con Machiavelli, e che muore nel 1540, scrive sugli Svizzeri le sue impressioni, che dovevano essere le conoscenze più comuni per allora, formulando una descrizione analoga:
“Sono i Svizzeri quegli medesm che dagli antichi si chiamavano Elvezii, generazione che abita nelle montagne più alte di Giura, dette di san Claudio, in quelle di Briga e di san Gottardo; uomini per natura feroci, rusticani, e per la sterilità del paese più tosto pastori che agricoltori. Furono già dominati da’ Duchi di Austria; da’ quali ribellatisi, già è grandissimo tempo, si reggono per loro medesimi, non facendo segno alcuno di ricognizione nè agl imperatori nè a altri principi. Sono divisi in tredici popolazioni, essi li chiamano Cantoni; ciascuno di questi si regge con magistrati, leggi e ordini proprii. Fanno ogni anno, o più spesso secondo che accade di bisogno, consulta delle cose universali; congregandosi nel luogo il quale, ora uno ora l’altro, eleggono i deputati di ciascuno Cantone: chiamano, secondo l’uso di Germania, queste congregazioni diete; nelle quali si delibera sopra le guerre, le paci, le confederazioni, sopra le dimande di chi fa istanza che gli sia conceduto, per decreto pubblco, soldati o permesso a’ volontari di andarvi, e sopra le cose attinenti allo interesse di tutti. Quando per pubblico decreto concedono soldati, eleggono i cantoni medesimi tra loro uno capitano generale di tutti, al quale con le insegne e in nome pubblico si dà la bandiera. Ha fatto grande il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l’unione e la gloria delle armi, con le auli, per la ferocia naturale e per la disciplina dell’ordinanze, non solamente hanno sempre valorosamente difeso il paese loro, ma esercitando fuori del paese la milizia con somma laude: la quale sarebbe stata senza comparazione maggiore se l’avessino esercitata per lo imperio proprio, e non agli altri stipendii e per propugnare lo imperio di altri, e se più generosi fini avessino avuto innanzi agli occhi, a’ tempi nostri, che lo studio della pecunia; dall’amore della quale corrotti, hanno perduta l’occasione di essere formidabili a tutt l’Italia, perchè non uscendo dal paese loro se non come soldati mercenari, non hanno riportato frutto pubblico delle vittorie, assuefandosi, per la cupidità del guadagno, a essere negli eserciti, con taglie ingorde e con nuove dimande, quasi intollerabili, e oltre a questo, nel conservare e nell’ubbidire a chi li paga, molto fastidiosi e contumaci”. (F. Guicciardini, “Storia d’Italia”, libro X, cap. VIII).
C’erano 15’000 uomini disponibili per questo tipo di lavoro, che era “organizzato” e sotto il controllo della piccola Confederazione dei Cantoni, la quale conferiva la autorizzazione per la leva di uomini e, come contropartita, riceveva grano, sale o altri privilegi commerciali.
Gli Svizzeri, in genere, concepivano la guerra come un’emigrazione temporanea, estiva e, perciò, partecipavano a guerre brevi e grandi, per poi tornare a casa a passare l’inverno con il “soldo” e il bottino: essi erano i migliori soldati del tempo. Senza cavalleria e con poca artiglieria, questa gente aveva inventato una tattica di movimento superiore a tutte le altre, e per questo essa era richiesta e invitata sia dalla Francia che dalla Spagna.
Erano come delle muraglie semoventi, irte di ferro e impenetrabili.
La forza elvetica, oltre che nell’audacia, prontezza, decisione, disprezzo della fatica e del pericolo, era nelle armi che usavano: le picche (*).
(*) La picca era un’arma con asta assai lunga, che appartiene alla stessa categoria dell’alabarda e della partigiana: si componeva di un’asta di legno, lunga da 5 a 7 metri, alla cui estremità veniva assicurato un puntale di ferro, molto robusto, lungo circa 50 cm. a forma di lingua o di lancia. La lunghezza e la robustezza erano tali da frenare l’impeto della cavalleria.
Già nel 13° e 14° secolo, dopo l’indipendenza svizzera, un gran numero di gente militava in Germania e Italia e poiché i Cantoni non erano capaci di impedire questo tipo di emigrazione, cercarono, perlomeno, di organizzarlo.
Oggi si stima che almeno un milione di soldati svizzeri abbiano militato sotto i Re di Francia tra il 1472 ed il 1830 e che almeno 700’000 uomini siano periti nell’espletamento del proprio dovere [2].
Le truppe, spesso definite con tono dispregiativo mercenarie, venivano assoldate sulla base di accordi diplomatici ben definiti, stipulati tra i cantoni di provenienza e la monarchia francese e chiamati «capitolazioni militari».
Lo stipendio era individuale per ogni sodato, e collettivo ai Cantoni che si impegnavano a consegnare i combattenti; e diventava una specie di pensione annua quando il servizio militare era stabile a lunga scadenza.
Naturalmente, dal servizio come mercenari alla politica di conquista per se stessi, (nel Cinquecento),il passo era breve. La guerra dunque divenne una professione sociale, e la nazione svizzera diventa il popolo più guerriero di tutta Europa.
Esse impegnavano i soldati a «servir le Roi et la France dans les ordres de la personne du Roi, considéré comme le seul et unique représentant de la nation» [3].
Queste capitolazioni, che possiamo paragonare in senso lato ai moderni contratti di collaborazione tra imprese industriali e Stato, rappresentavano per il soldato un vincolo indissolubile, da onorare fino all’estremo sacrificio della propria vita. Quanto e come venisse osservato quest’impegno, lo confermò Napoleone, affermando testualmente che: «Les meilleures troupes, celles en qui vous pouvez avoir le plus de confiance, ce sont les Suisses… Elles sont braves et fidéles».
Dopo la caduta dell’ Impero Romano, la cavalleria, nuova forza d’urto della tecnica bellica, dominò incontrastatamente i campi di battaglia per oltre un millennio, relegando la fanteria al rango di manovalanza di infimo livello. Furono i Cantoni Svizzeri a rivalutare il ruolo della fanteria, trasformandola in un corpo di specialisti altamente qualificati nella lotta corpo a corpo. Selezione accurata della truppa, allenamento fisico e morale spinti all’estremo, ampio utilizzo delle ultimissime armi bianche e poi da sparo, sviluppo di nuove tecniche di lotta in piccole unità mobili affiatate, portarono la Svizzera a diventare nel primo Cinquecento la maggior potenza militare d’Europa [2].
Dal punto di vista storico, il servizio straniero o mercenarismo (Fremdendienst) ha rappresentato per circa un millennio una importante valvola di sfogo economico per i Cantoni. Esso ha permesso l’emigrazione militare periodica di uomini da regioni troppo affollate e con scarse possibilità occupazionali. L’arruolamento avveniva di regola indipendentemente dai confini politico-regionali, laddove era possibile creare una unità militare operativa con un Comandante, in qualità di unico responsabile verso la truppa della corresponsione del soldo e dell’osservanza degli obblighi assunti. I Reggimenti erano formati dai 1500 ai 2000 uomini ed il loro Comandante ha rappresentato tra il XV fino alla metà del XIX secolo la figura principale del singolo imprenditore.
Ruolo paragonabile a nostro avviso a quello del moderno Capitano d’industria. Normalmente, i Comandanti rispondevano in solido per la corresponsione del soldo e si racconta di vari Comandanti finiti sul lastrico per l’insolvenza degli Stati datori di lavoro, contro i quali era difficile anche a quei tempi ricorrere in giudizio! Da un punto di vista storico globale, andrebbe anche tenuto in debito conto quanto l’arruolamento interregionale abbia contribuito al profondo e continuo processo di integrazione tra le popolazioni dei differenti Cantoni [3].
Dopo tanti secoli di gloria, guadagnata attraverso indicibili sacrifici e sofferenze subite ed inferte, il popolo dei Cantoni diceva no a guerra e violenza, abbracciando una nuova strategia di sopravvivenza civile, quella della neutralità armata al solo ed unico fine della legittima difesa. Nasceva così lo Stato Confederale, citato ad esempio nel travagliato dibattito politico dell’Europa dell’Otto-Novecento, dibattito che perdura tuttora [4].
Truppe svizzere furono al servizio dei Principi di Casa Savoia, sia quando erano sovrani di terre al di là dei monti, sia dopo.
Dal 1241 (prima alleanza di Berna con Amedeo IV) al 1814 (ultima capitolazione di Vittorio Amedeo I con i Grigioni) sono 23 le capitolazioni firmate ed una trentina i reggimenti forniti dai Cantoni: altrettanti i generali.
Gli Svizzeri, quando combattono, combattono per davvero. Numerosi sono i fatti d’arme: la Madonna dell’Olmo, la guerra delle Alpi, ecc.
Dal 1609 i 100 Svizzeri formano la guardia personale del Duca, che tale resta fino al 1832, ultima delle truppe capitolate ad essere sciolta: resta in loro ricordo il salone degli Svizzeri nel palazzo reale di Torino. Gli ultimi sette abati di San Gallo (1654-1796) vengono tutti insigniti dell’Ordine Supremo della SS. Annunciata. Antica amicizia e probabile riconoscenza per i molti reggimenti forniti dagli Abati ai Savoia.
Seguendo l’esperienza della monarchia francese e dei Principi di Savoia, anche i Borbone affidarono ai Reggimenti Svizzeri la difesa del loro trono. Questi Reggimenti venivano inquadrati a volte in formazioni autonome, a volte nell’esercito del paese ospitante, come fece nel 1788 Ferdinando IV quando, sciolti i Reggimenti Svizzeri, li incorporò in due «Reggimenti Esteri». L’importanza della presenza militare svizzera a Napoli viene confermata dal fatto che, tra il 1734 ed il 1828, 25 ufficiali elvetici raggiunsero gradi superiori. Tra questi, Emanuel Burckhardt quello ambitissimo di Capitan Generale [6,7].
Testo tratto parzialmente da Bruno J. R. Nicolaus
Bibliografia e Note
[1] Giulio Cesare, De Bello Gallico, Libro I.
[2] Jérome Bodin, Les Suisses au Service de la France, Editions Albin Michel, Paris 1988.
[3] Heribert Kueng, Glanz und Elend der Soeldner, 1993, Desertina Verlag, CH-7180 Disentis.
[4] Emilio R. Papa, Storia della Svizzera, Bompiani, 1993.
[5] Hans Adolph Voegelin, Militaers in fremden und einheimischen Diensten, pp.225-230, in CKDT (Basel) Streiflichter auf Geschichte und Persoenlichkeiten des Basler Geschlechtes Burckhardt, Herausgeberin: Burckhardtsche Familienstiftung, 1990 Buchverlag Basler Zeitung, 4002 Basel.
6] Carlo Knight, Emanuel De Bourcard, generalissimo svizzero al servizio di Ferdinando IV di Borbone, Atti della Accademia Pontaniana, Napoli, vol. XL, pp. 1-33 (1991).
[7] Carlo Knight, Un Generale Svizzero al Servizio dei Borbone, in Sulle orme del Gran Tour- Uomini Luoghi Società del Regno di Napoli, Electa Napoli, pp. 41-65 (1995).
A fine Medio Evo l’Europa si trova in un difficile momento. Francesi ed Inglesi si affrontano in una serie di battaglie su territorio francese, si tratta della guerra dei Cento Anni. Le cattive condizioni climatiche provocano carestie che mietono numerose vittime. L’Europa non è certo risparmiata dalla peste nera che, proveniente dall’Asia, colpisce ripetutamente l’enorme territorio e uccide un terzo della popolazione. Anche la Svizzera non sfugge al flagello. La popolazione alpina viene parzialmente risparmiata ma nelle campagne numerosi villaggi scompaiono. Tra il 1350 e il 1450 la popolazione diminuisce. Nello stesso periodo, tuttavia, la Confederazione conosce una fase di espansione e prosperità. Nelle campagne i contadini, sempre meno numerosi, abbandonano le terre che sono divenute meno fertili e utilizzate successivamente per l’allevamento del bestiame. L’abbandono dei campi porta all’ingrandimento delle proprietà fondiarie, mentre la rotazione triennale è generalizzata. Le eccedenze vengono smerciate nelle città in pieno sviluppo. Le regioni di montagna si specializzano nell’allevamento di bovini quando le richieste del mercato garantiscono un certo profitto. Gli abitanti delle vallate isolate, costretti all’autarchia, coltivano cereali anche in altura.
L’aumento della popolazione urbana è significativa ed indica la prosperità delle città. Sono numerose anche se di modeste dimensioni e devono la loro ricchezza ai traffici internazionali che transitano su territorio elvetico. Nelle zone che non sono coinvolte nella guerra dei Cento Anni, particolarmente nell’Italia settentrionale e nel sud della Germania, si sviluppano nuovi centri di produzione industriale. Tra questi due poli si stabiliscono tre grandi correnti commerciali: la prima, lungo la valle del Reno e i valichi grigionesi, la seconda attraverso Basilea o Zurzach, Lucerna e il San Gottardo, la terza attraverso l’Altopiano verso Ginevra (in modo trasversale, da est ad ovest), le cui celebri fiere raggiungono l’apice proprio nel periodo tra il 1400 e il 1460.
I traffici favoriscono lo sviluppo di importanti centri industriali in Svizzera come, per esempio, San Gallo, dove si producono tessuti di lino o Friburgo, famosa per i suoi panni. Utilizzando tecniche avanzate come l’arcolaio e la gualchiera (Macchina a martelli azionati ad acqua per ammorbidire i tessuti di lana e renderli compatti), i fabbricanti di lana producono annualmente da 6’000 a 12’000 pezze nel periodo tra il 1400 e il 1460. I tessuti, convenienti e qualitativamente forti, sono esportati da Ginevra nell’area mediterranea e nel Vicino Oriente. Come Berna, Friburgo si specializza nella produzione di cuoio e Zurigo in quella della seta.
L’arricchimento dei borghesi e le difficoltà dei nobili
Grazie alle vie commerciali attraverso la Svizzera, le città hanno raggiunto, nel XV secolo, una ricchezza notevole. Questo è testimoniato dall’agio di cui i borghesi godono. A Berna nel 1445 dichiarano un patrimonio globale di 800’000 fiorini che corrisponde a circa 160 fiorini a testa. La ricchezza è però distribuita in modo disuguale: a Friburgo il 2% della popolazione possiede la metà del patrimonio complessivo, mentre i più poveri, servitori, manovali e operai, sono dieci volte più numerosi artigiani e piccoli commercianti, che costituiscono il gruppo sociale più importante, vivono in situazioni economiche diverse, ma in generale possiedono tutti un’abitazione. L’arricchimento delle città, di riflesso, incide sulle condizioni generali di vita. Nella costruzione delle case si diffonde l’uso della pietra. Tubi in legno di quercia forniscono l’acqua potabile alla città e le fontane si moltiplicano. Le strade vengono lastricate e si costruiscono fogne in muratura. Le fonti amministrative e le disposizioni pubbliche fanno pensare ad un miglioramento nell’alimentazione. Si consumano più carne, uova, formaggio e burro. La vita rimane comunque dura per la maggior parte della popolazione. Il cibo è spesso insufficiente e la mancanza d’igiene è alla base di frequenti malattie che provocano un alto tasso di mortalità.
La borghesia si arricchisce ma la nobiltà, confrontata con gravi difficoltà, si indebolisce. I conflitti armati come quello di Laupen e di Sempach ne sfoltiscono i ranghi. Anche la peste nera non li risparmia. Sono infatti molti i testamenti redatti nella primavera del 1349 quando la prima ondata di epidemia giunge a noi. Le spartizioni ereditarie causano numerose liti e provocano il frazionamento delle proprietà. Le persone che abbandonano la terra per stabilirsi in città sono sempre in maggior numero, di conseguenza il reddito del signore diminuisce. Le piccole monete d’argento utilizzate dai coloni per il pagamento dei canoni si svalutano rispetto alla moneta d’oro, molto apprezzata nel commercio internazionale; il signore ha bisogno quindi di sempre più monete d’argento per ottenere i ducati e i fiorini necessari all’acquisto di cavalli o tessuti di valore.
Il signore vive al di sopra dei suoi mezzi. Il gusto per il lusso lo trascina in spese eccessive che lo costringono ad ipotecare i suoi possedimenti. Incapace di far fronte ai debiti, è spesso obbligato a vendere proprietà e diritti feudali ai creditori, che di regola sono borghesi. Capita anche che il signore aumenti i canoni o introduca nuove tasse esponendosi così al rischio di vedere i suoi soggetti in rivolta, come avviene nel conflitto che oppone l’abate di San Gallo ai contadini d’Appenzello ad inizio XV secolo.
Nuova espansione della Confederazione
Dopo Sempach, Austriaci e Confederati si concedono una tregua. La pace, rinnovata più volte, non impedisce alle parti di continuare nella loro politica di annessioni. I Confederati prima con metodi pacifici; acquistando le terre dai signori indebitati, e con le armi poi, quando la situazione lo richiedeva. Gli Urani approfittano dei disordini nel ducato di Milano per occupare il versante meridionale del San Gottardo e assicurarsi il controllo dei traffici. Nel 1415, quando l’imperatore invita i suoi sudditi ad appropriassi dei beni di Federico IV d’Austria, bandito dall’impero, Berna e poi gli altri cantoni invadono l’Argovia, dove la presenza di grandi vie commerciali con ponti e traghetti procura ulteriori e maggiori profitti. Nel 1460 la Turgovia subisce la stessa fine.
A volte si accendono conflitti tra i cantoni; Zurigo e Svitto si contendono, in una guerra molto dura, le terre del conte del Toggenburgo, morto senza eredi nel 1436. Zurigo vorrebbe controllare i passaggi verso i Grigioni mentre Svitto vogliono allargare la loro influenza ad est. I cantoni non accordano autonomia ai territori occupati. I borghesi, che governano Zurigo e Berna, impongono la propria autorità proprio come avevano fatto i signori feudali e si fanno versare dei tributi anche se sono più inclini alla democrazia.
I territori conquistati vengono chiamati paesi soggetti proprio perché i loro abitanti vengono considerati dai borghesi come tali (analogamente agli abitanti di un territorio soggetti al signore feudale). Il cantone è rappresentato, in queste terre, dal landfogto che amministra la giustizia e preleva le imposte. Un territorio appartenente a più cantoni è denominato baliaggio comune. La sua amministrazione, che richiede riunioni e discussioni tra i cantoni sovrani, è all’origine della Dieta federale.
La Confederazione continua ad ingrandirsi e sono diversi i territori che cercano l’alleanza (Soletta, Friburgo Basilea, le comunità rurali di Appenzello e Grigioni). Anche i signori feudali come l’abate di San Gallo e il conte della Gruyère cercano questa alleanza. Anche se devono aiuto militare ai cantoni sovrani, questi alleati dispongono alla Dieta solo di pochi diritti o non sono neppure rappresentati.
Le guerre di Borgogna
La Borgogna, nel XV secolo, è un grande principato che il duca Carlo vuole ingrandire, desideroso di ricostituire l’antico regno di Lotario, dalle Fiandre all’Italia. Per questo è pronto a qualsiasi cosa e sfrutta ogni minima occasione. Nel 1469, per esempio, per un prestito di 10’000 fiorini, Sigismondo d’Austria gli cede in pegno alcuni possedimenti che si trovano in Alsazia e nella Foresta Nera. Berna intuisce il pericolo che incombe sulle vie commerciali dell’Altopiano. I tentativi di controllo sul corso superiore del Reno sono però bloccati dalla presenza borgognona. Anche la Savoia diviene un satellite di Carlo il temerario. Berna, Friburgo e Soletta rischiano di essere accerchiate.
Luigi XI, Re di Francia desidera ridimensionare le ambizioni del suo potente vassallo e, con prudenza ma destrezza, convince Sigismondo d’Austria a riconciliarsi con gli Svizzeri. La pace, sottoscritta agli inizi del 1473, vuole soprattutto liberare l’Alsazia dalle angherie del balivo di Borgogna, Peter von Hagenbach. Durante l’estate Luigi XI, su suggerimento del bernese Niklaus von Diesbach, suo consigliere e ciambellano, firma un’alleanza militare con i cantoni confederati. Così, Carlo, che amava definirsi e farsi chiamare “Grand Duc d’Occident”, finisce per trovarsi contro il Re di Francia, il duca d’Austria e gli Svizzeri.
Verso la fine del 1474 l’Alsazia si ribella al Temerario che però non vuole cedere. I Confederati colgono l’occasione e gli dichiarano guerra. I primi scontri terminano con alcune conquiste nella Contea. Berna lancia poi un’offensiva nel Paese di Vaud per porre un ostacolo tra la Borgogna e la Savoia. I Waldstätten e Zurigo si rifiutano di seguire il loro alleato nell’impresa, sospettandolo di voler soddisfare le sue ambizioni. Luigi XI, costretto alla prudenza, giunge alla tregua col duca di Borgogna.Gli Svizzeri si trovano così soli contro Carlo il Temerario, quando nella primavera del 1475 egli torna nel Paese di Vaud e rioccupa la fortezza di Grandson. Il primo scontro fu vinto dai confederati; i vinti abbandonano sul campo un ricco bottino. A Morat, nel 1476, l’esercito del duca viene nuovamente sconfitto e l’anno seguente viene ucciso in battaglia, vicino a Nancy. Il suo cadavere viene spogliato e mutilato e in seguito gettato in una palude.
Per gli Svizzeri i vantaggi politici e geografici di queste vittorie sono miseri; si assicurano unicamente il possesso di Orbe, Morat, Echallens e Grandson, che divengono baliaggi comuni. Sono invece Luigi XI e Massimiliano d’Austria che si spartiscono il ricco principato.
Cinque nuovi cantoni
Nella seconda metà del XV secolo l’attività industriale entra in crisi e causa disoccupazione e difficoltà materiali. Molti poveri trovano rimedio alla loro miseria nella guerra grazie al saccheggio. Sono avidi e crudeli e il livello morale scende paurosamente. Inoltre si crea una netta separazione tra i cantoni rurali e quelli urbani. Gli ultimi rimproverano ai primi di avere un peso eccessivo nella Confederazione; li accusano di essersi accaparrati gran parte del bottino delle guerre di Borgogna, Le città desiderano una maggiore unità tra i cantoni, specialmente in caso di pericolo e conflitti, e auspicano un forte potere in grado di ristabilire l’ordine e le azioni violente dei contadini. è il caso di quella che viene chiamata la “folle Vita”, una spedizione di migliaia di giovani esaltati che semina il terrore nella Svizzera occidentale nella primavera del 1477. Sentendosi minacciate, le città concludono un’alleanza separata che irrita i cantoni rurali; la tensione cresce.
In questa atmosfera si discute l’ammissione di Friburgo e Soletta nella Confederazione. Uri, Svitto, Untervaldo e Glarona temono che si possa creare uno squilibro a vantaggio delle città e bocciano la richiesta. Dal loro canto le città sono intenzionate a mantenere la loro alleanza separata se la proposta non viene accettata. Alla Dieta di Stans, riunita nella primavera del 1481, ogni intesa sembra impossibile. Si trova però un compromesso all’ultimo momento, grazie ai consigli dell’eremita Nicolao della Flüe; Friburgo e Soletta sono accolte nella Confederazione con alcune restrizioni; la loro politica è sottomessa all’approvazione della maggioranza dei cantoni. Un nuovo patto, la Convenzione di Stans, consolida la pace interna, stabilisce le norme per la spartizione del bottino di guerra e prevede un aiuto reciproco nella repressione di agitatori e fautori di disordini.
I delegati si recano dall’eremita Nicolao ed ottengono parole di pace e concordia
Alla fine del XV secolo tutti i cantoni godono dell’immediatezza imperiale. Nel 1486 Massimiliano d’Austria, appena eletto Re di Germania, sull’esempio di Luigi XI, desidera trasformare il suo impero in uno stato centralizzato con un unico esercito ed un tribunale permanente. Cerca di prelevare un’imposta generale che però i Confederati non accettano. Massimiliano ricorre allora alla forza. Confederati e grigionesi, loro alleati, sono così coinvolti nella Guerra di Svevia (1499) nella quale sconfiggono il nemico, costringendolo a firmare la pace. Nel trattato che la sancisce, nessuna clausola prevede la separazione dalla Confederazione dall’Impero ma il testo lascia intravedere una rinuncia del Re ai suoi diritti di sovranità sui cantoni. I Confederati sono ormai sciolti da ogni legame di dipendenza.
Le nuove vittorie spingono Basilea e Sciaffusa a chiedere la loro ammissione nella Confederazione, cosa che avvenne nel 1501. Nel 1513 è la volta di Appenzello. Da questo momento la Svizzera conterà 13 cantoni e questo per i prossimi tre secoli.
Gli Svizzeri in Italia
Agli inizi del XVI secolo i cantoni rurali della Svizzera centrale, trovano nelle guerre d’Italia l’occasione per realizzare il loro sogno di espansione verso sud. Da molto tempo gli Urani tentano di controllare il versante meridionale del San Gottardo. Già padroni della Leventina, ambiscono alla conquista di Bellinzona, piazzaforte allo sbocco della valle. Non sono però i soli a volersi espandere a sud; i grigionesi, loro alleati, guardano alla Valtellina e i Vallesani a Domodossola. Numerose battaglie hanno luogo senza però portare i frutti desiderati.
Luigi XII, Re di Francia, in virtù dei diritti ereditari, rivendica il ducato di Milano. Promette pensioni allettanti e compensi territoriali e ottiene l’appoggio degli Svizzeri. Nella primavera del 1500 diventa il padrone di Milano. Non tiene però fede ai suoi impegni creando il malcontento tra gli alleati che si rifanno occupando i territori promessi. Il Re di Francia continua d’altra parte ad arruolare soldati attirandosi l’ostilità di coloro che in Svizzera denunciano gli aspetti negativi del servizio mercenario* : perdite umane, violenze e saccheggi. Alcuni intravedono nella presenza francese al sud delle Alpi una minaccia per le relazioni commerciali, almeno questa è l’opinione di Mathias Schiner, vescovo di Sion che riesce a convincere gli Svizzeri ad appoggiare la coalizione antifrancese sostenuta da Papa Giulio II della Rovere.
(*) mercenario: Soldato che presta servizio a pagamento per uno stato straniero.
In verità i reggimenti svizzeri, spesso definiti con tono dispregiativo mercenari, venivano assoldati sulla base di accordi diplomatici ben definiti, stipulati tra i Cantoni di provenienza e le monarchie europee (Francia, Spagna. i Savoia, i Borboni di Napoli, il Romano Pontefice, ecc.); accordi chiamati «capitolazioni militari».
Soldato appartenente ad un reggimento svizzero capitolato, al servizio di una potenza straniera
Tutt’oggi resta solo la Guardia Svizzera Pontificia in Vaticano
al servizio dei Romani Pontefici dal 21 gennaio 1506.
Così nel 1512 i Confederati cacciano i Francesi oltre le Alpi e stabiliscono un protettorato su Milano. Il loro dominio non può comunque essere mantenuto a lungo. Inoltre si attirano le ostilità dei Milanesi a causa delle loro pretese finanziarie. Infine non incontrano che indifferenza e passività quando il nuovo Re Francesco I si appresta a riconquistare il Milanese verso la primavera del 1515. Il sovrano propone ai Cantoni di rinunciare alle conquiste per la somma di 700’000 ducati (2,5 tonnellate di oro). L’offerta è ingente e allettante al punto da dividere i Confederati: bernesi, friburghesi e solettesi prendono la via del ritorno, i cantoni centrali e orientali, desiderosi di mantenere le loro conquiste e sollecitati da Mathias Schiner, scelgono di battersi. Il 13 e 14 settembre 1515, 20’000 confederati affrontano nelle vicinanze di Marignano (Melegnano), in realtà Zivido, un esercito di circa 30’000 uomini. Francesco I ha la meglio dopo una lunga battaglia, grazie anche all’intervento della cavalleria e dell’artiglieria, e dell’aiuto dei Veneziani, accorsi nel secondo giorno della battaglia.
Il loro comandante, Bartolomeo d’Alviano, definirà il cruento scontro “Battaglia dei Giganti”.
A ricordo della battaglia dei Giganti, nel 1965 fu posto, nel luogo degli scontri, un bassorilievo,
realizzato con granito del San Gottardo, delle dimensioni di m 3×2,
raffigurante un guerriero dell’epoca che difende un camerata ferito.
La sconfitta comporta la perdita definitiva, da parte svizzera, del Milanese: essi mantengono però il Ticino, e ricevono da Francesco I una consistente indennità di guerra. Cosciente della loro potenza bellica, il monarca vuole conciliarsi con i vinti. Nel 1516 è conclusa una pace perpetua e un’alleanza viene sottoscritta nel 1521. Per 250 anni le relazioni tra i due stati non saranno intaccate.
Per celebrare i primi 500 anni della Guardia Svizzera, nel 2006 si sono svolti eventi, tra i quali la lunga marcia, dalla Svizzera a Roma, a piedi, di un centinaio di ex Guardie.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 15:39:152016-07-28 15:39:15La storia svizzera – Parte 5
Verso l’anno 1000 il territorio occupato dall’uomo è abbastanza limitato. Si tratta spesso di radure attorno alle quali si trovano foreste e paludi che rendono difficili i contatti tra le persone e isolano i villaggi. D’altra parte l’esistenza di vie di collegamento è precaria, i pochi sentieri non sono ben delineati.
Sull’Altopiano, i contadini si raggruppano in villaggi o in fattorie isolate al centro di una proprietà da poco dissodata. Nei campi, suddivisi in strisce, predominano le culture di cereali e affini. Per il lavoro vengono utilizzati attrezzi primitivi e rudimentali come, per esempio, l’aratro di legno che appena riesce a penetrare il terreno. Siccome il concime scarseggia, si opta per il sistema del maggese ovvero parte del terreno viene lasciata incolta, per circa un anno, in modo che possa riposare e ritorni presto fertile. Parte del raccolto deve essere conservata in modo da essere utilizzata l’anno venturo quale semenza, un’altra viene consegnata al signore. L’allevamento è un’attività accessoria; permette di disporre di latte, carne, uova e pelli. Inoltre i bovini vengono utilizzati per il tiro dell’aratro o dei carri. Le bestie come le pecore ed i buoi vengono fatti pascolare sul maggese (concimazione) o su piccoli prati. La foresta che si trova nei paraggi permette ai contadini di disporre del legname da costruzione e da ardere, inoltre le bacche e gli animali selvatici servono per la variazione della dieta, senza calcolare il beneficio di cui traggono come pascolo per gli animali. Il contadino è condizionato nella sua vita quotidiana, dal clima durante le diverse stagioni. Durante le domeniche e le feste religiose si riposa. Alcune di esse rappresentano il giorno del versamento dei tributi ai signori.
La vita dei contadini migliora a partire dall’XI secolo. I campi diventano più redditizi grazie all’efficacia di alcune innovazioni della tecnica quali gli attrezzi di ferro o l’aratro a ruote e il nuovo sistema di attacco del cavallo. Viene inoltre applicato un nuovo sistema di semina e cioè quello della rotazione triennale: un terzo del terreno viene seminato con cereali invernali, un terzo con cereali primaverili o piante leguminose e un terzo rimane maggese; tutto ciò a rotazione. L’aumento dei contadini richiede nuove terre da dissodare e con uno sforzo comune, vengono dissodati i terreni confinanti o penetrano nelle foreste per costruire fattorie isolate, nelle radure.
Con lo sviluppo delle città, la domanda di prodotti agricoli aumenta. I contadini possono così smerciare le eccedenze e trarne un ricavo. Alcuni si specializzano in produzioni particolari; soprattutto cereali. Su terreno meno fertili, invece, sorgono le vigne che i monaci diffondono anche sulle sponde del Lemano. L’allevamento passa in modo sempre più preponderante agli abitanti della Svizzera centrale e delle regioni alpine.
Signori e contadini
Verso l’anno 1000 quasi tutti vivono di agricoltura. I contadini dell’Altopiano dipendono quasi tutti da un signore fondiario o proprietario. Il signore divide le sue proprietà in fondi lavorati da servi (individui che dipendono direttamente dal signore con diritti limitati) o coloni (individui giuridicamente liberi, ai quali un signore accorda loro l’uso di fondi in cambio di prestazioni). In cambio i contadini gli devono tributi in natura (parte del raccolto) o in denaro (censo); devono pure eseguire lavori negli edifici del signore o aggiungersi ai servi che già vivono e lavorano sulle sue terre.
Questi impegni variano a dipendenza della signoria a cui si appartiene. In taluni casi il signore rivendica un diritto sull’eredità o ingloba i beni di servi deceduti senza eredi. Inoltre, il signore, esige delle tasse da coloro che vogliono sposarsi fuori dal suo dominio e può obbligare con la forza al ritorno coloro che hanno abbandonato senza autorizzazione i fondi dove lavorano.
Il signore vive nel castello, simbolo del suo potere. Protegge i suoi uomini accogliendoli tra le mura in caso di pericolo. Questa protezione è molto apprezzata dai contadini che vivono in ambiente ostile, segnato da carestie, epidemie guerre e vendette. Il grande signore esercita il banno (diritto dell’autorità, in primo luogo del Re, di comandare e proibire; per esteso anche il territorio in cui veniva esercitato). Infligge multe e preleva tasse per l’uso del forno, del mulino, del torchio e del frantoio. Per macinare il grano e cuocere il pane, i contadini, possono usare solo le sue attrezzature. Anche l’uso delle terre non coltivate e delle foreste come pure il diritto di caccia e pesca sono diritti riservatigli.
Tra le tasse che deve versare il contadino vi sono anche la taglia e la decima (parte della produzione agricola, ca. 10%, prelevata dall’autorità ecclesiastica per il mantenimento del clero).
Nelle Alpi i contadini sono generalmente liberi; la lontananza e le precarie vie di comunicazione rendono difficilmente controllabile la situazione. Per far fronte in modo migliore a tutti i bisogni e alle difficoltà, si organizzano in comunità. La ripresa dei traffici commerciali risveglia le rivendicazioni signorili ma alcune comunità, per esempio quella di Uri, difendono a denti stretti la loro posizione di privilegio.
L’aumento della produzione agricola tra il XI e il XIII secolo permette il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini in modo che numerosi servi possono così riscattare la libertà. Il signore, sempre più bisognoso di denaro, divide i possedimenti, riduce canoni e corvée (impegni e/o lavori che il contadino deve eseguire per conto del signore) per trattenere i contadini attirati dalle vicine città.
La vita nel castello
I castelli più antichi, edificati nel X e XI secolo, sono costruzioni di legno, semplici, circondate da palizzate e situati su alture artificiali. Solo più tardi compaiono edifici di pietra protetti da mura, costruiti di preferenza su colline o speroni rocciosi. Il mastio, torre principale, serve da abitazione e bastione di difesa. Dato che è poco confortevole vengono aggiunte ben presto nuove costruzioni. Con il passare dei secoli altri edifici e installazioni di difesa conferisco al castello la forma che conosciamo.
Rimane pur sempre un’abitazione poco confortevole vista anche la sua mole. La grandezza dei locali li rende difficilmente riscaldabili anche se i camini sono molto grandi. Il piano terreno viene adibito, durante l’inverno, a stalla per le capre e maiali anche perché così ne viene sfruttato il calore. Il pavimento è sudicio e vi sono vermi e topi in quantità.
Le opere d’arte quali i dipinti e le stoffe si trovano unicamente nei locali utilizzati per le feste e i ricevimenti. I mobili sono assai primitivi e comprendono panche, sedie e tavoli di legno, cassapanche per abiti e generi alimentari. I letti, a baldacchino per la protezione da parte degli insetti, servono per più persone contemporaneamente. Le vettovaglie più utilizzate sono delle scodelle di legno, il coltello e il cucchiaio. La forchetta non viene utilizzata perché sovente si utilizzano le dita. Il “lavandino” (acquamanile) serve per la pulizia delle mani che vengono asciugate nella tovaglia. Gli alimenti che vengono consumati sono in genere il pane, la zuppa di cereali e legumi e, per il signore, la carne di bue o di maiale allo spiedo. Il pesce viene mangiato nei giorni di magro. Quali bevande si fa ricorso a latte e vino; per occasioni speciali si consumano birra e idromele.
Il signore gode del privilegio del bagno con acqua riscaldata preparata in un grande catino di legno. porta i capelli lunghi come pure la barba. La moda di radersi apparirà solo qualche secolo più avanti. Si veste con un abito di lana o lino e cammina a piedi nudi. Per l’inverno fa uso di una pelliccia. Per le occasioni speciali (visite o ricevimenti) usa portare una veste lunga e indossa calzature di cuoio. Verso la fine del Medioevo, vengono sostituiti da una veste corta e fasce strette attorno alle gambe.
I lavori pesanti, soprattutto quelli agricoli, sono attribuiti ai servi ma i piccoli signori devono arrangiarsi nel momento del raccolto. Qualche giorno viene dedicato alle udienze o al ricevimento dei coloni che giungono al castello per il versamento dei tributi. Gran parte del tempo è comunque dedicata alla caccia di orsi e cinghiali che vengono uccisi con una lancia mentre la caccia di cervi e caprioli vengono abbattuti con arco e frecce. La piccola selvaggina è catturata con l’aiuto del falco o dello sparviero.
I divertimenti del signore sono la musica, le gare di abilità o giochi con la scacchiera. Giostre e tornei sono allietati da feste e danze.
Il feudalesimo
A partire dal 1033 tutto il territorio dell’attuale Svizzera fa parte del Sacro Romano Impero Germanico che si estende dall’Italia alla Sassonia e dalla Borgogna alla Slesia. Sfidando l’autorità dell’imperatore*, conti e duchi si appropriano di terre, di cui erano semplici governatori in età carolingia, e le trasmettono ai loro discendenti, come se fossero proprietà di famiglia. Per sottolineare la loro indipendenza costruiscono castelli e accrescono la loro potenza con nuovi possedimenti. I più deboli cercano appoggio presso i potenti o devono subirne il dominio. Un contratto con obblighi reciproci lega le due parti. Il protetto o vassallo (Colui che si sottomette a un signore, promettendo aiuto e obbedienza, ricevendo in cambio feudo e protezione) giura fedeltà al suo padrone e gli deve aiuto finanziario e militare. Il protettore o signore feudale gli cede un feudo, cioè un territorio o dei diritti (amministrazione della giustizia, prelievo di tasse, ecc.). Il sistema feudale (si tratta di un sistema sociopolitico ed economico basato su rapporti di dipendenza tra signori e vassalli. La sua base materiale è il feudo.) si può immaginare come una piramide con l’imperatore al vertice e il popolo alla base e tra i cui estremi esiste una fitta rete di dipendenze tra i signori.
(*) Nel Sacro Romano Impero viene prima eletto Re di Germania da un’assemblea di principi. Dal Papa riceve poi il titolo di imperatore con la corona d’Italia. È anche chiamato Re dei Romani.
Alcune famiglie sono riuscite a consolidare la loro autorità. Ad ovest Umberto Biancamano fonda la dinastia dei Savoia. Dai loro possedimenti attorno a Grenoble essi controllano i valichi delle Alpi occidentali; nel XII e XIII secolo dominano il Basso Vallese e il Gran San Bernardo dai punti chiave di Saint-Maurice e di Chillon (nei pressi di Montreux), estendendo infine la loro autorità a nord del Lemano nel Paese di Vaud. Le loro ambizioni sono in antitesi con quelle degli Zähringen e degli Asburgo. I primi ereditano vasti domini dal Lemano all’Aar e consolidano la loro autorità nella regione fondando borghi fortificati come Friburgo, Thun e Berna. La famiglia si estinse però nel 1218. Nell’XI secolo gli Asburgo, oltre i domini alsaziani, posseggono poche terre in Argovia ma le loro conquiste sono rapide; la famiglia eredita dapprima una parte dei beni degli Zähringen nella Svizzera centrale e poi Rodolfo si appropria dei beni dei Kyburg, compera e ottiene col matrimonio possedimenti in Argovia e nella Svizzera centrale. Attorno al 1270 gli Asburgo hanno dominio su quasi tutto il territorio tra l’Aar e il lago di Costanza.
Anche la chiesa, dal suo canto, è una potenza feudale; i vescovi, le abbazie e i conventi detengono diritti di proprietà, costruiscono fortezze e si circondano di vassalli.
La rinascita delle città
Tra le antiche città gallo-romane numerose e fiorenti, alcune sono scomparse durante le invasioni, altre sopravvivono a fatica, circondate da palizzate che proteggono la dimora di un vescovo o di un signore, qualche bottega di artigiano, una chiesa, alcuni campi e orti.
Dall’XI secolo in poi la vita ricomincia a fiorire anche nelle città. I contadini, ormai divenuti troppi per lavorare i campi, si stabiliscono, in parte, nelle città dedicandosi all’artigianato e al commercio. Antiche città come Basilea, Ginevra, Losanna si rianimano e sorgono nuovi quartieri attorno alle prime mura, si tratta di sobborghi. Il piccolo borgo di Zurigo, per merito del suo mercato, diventa una delle città più importanti di tutto l’Altopiano. La volontà dei signori permette ad altre città di sorgere. Gli Zähringen fondano Friburgo nel 1157 e Berna nel 1191, punti chiave nel territorio che la famiglia vuole controllare. Tommaso I° di Savoia pensa soprattutto ai vantaggi economici quando fonda Villeneuve sulla grande via commerciale che collega l’Italia alla Germania attraverso il Gran San Bernardo. Verso il 1400 nel solo Paese di Vaud si contano da 30 a 40 città.
La città si differenzia dal villaggio per le mura di protezione, per i privilegi di cui godono i suoi abitanti e per l’attività soprattutto artigianale e commerciale che vi si svolge. Non tutte le città hanno avuto la stessa sorte: alcune sono rimaste centri importanti, altre sono ritornate modesti villaggi, altre ancora sono scomparse, poiché i cittadini dei dintorni non erano abbastanza numerosi per assicurare l’approvvigionamento e l’acquisto della produzione artigianale.
Gli artigiani fabbricano oggetti di uso corrente, oppure si specializzano in produzioni particolari che interessano una clientela più vasta e, a volte, più lontana. La città è anche un luogo di scambio; nei mercati e nelle fiere si commerciano prodotti della terra, manufatti artigianali e articoli di lusso che provengono anche da regioni lontane.
Artigianato e commercio portano prosperità ai cittadini che a poco a poco si rendono conto della loro forza. Le città estendono la loro influenza sulle campagne vicine. Questo per ottenere il controllo delle strade e dei corsi d’acqua e quindi assicurarsi nuovi sbocchi e nuove fonti di approvvigionamento per rafforzare quindi la loro sicurezza.
Gli artigiani e i commercianti si organizzano in corporazioni (Associazioni di artigiani della stessa professione o di mercanti con scopi prevalentemente professionali. In alcune città hanno avuto un ruolo politico determinante). Esse cercano di abolire l’autorità del signore feudale e di amministrare da sole la città. Iniziano ad esercitare funzioni di polizia e ad amministrare la giustizia. Per sbarazzarsi definitivamente della tutela del signore, alcune città ottengono l’immediatezza imperiale*. Si tratta di Berna, Basilea, Zurigo e Soletta. Dato che l’imperatore vive molto lontano e non ha forza sufficiente per garantire un efficace protezione, le città sono costrette all’alleanza a scopo difensivo, come pure fanno le comunità rurali della Svizzera centrale.
(*) Condizione giuridica di quei territori e dei loro abitanti non sottomessi a un signore feudale ma dipendenti direttamente dall’imperatore. Tutti i cantoni Svizzeri la ottengono, uno dopo l’altro, tra il XIII e il XV secolo.
La chiesa
Durante il Medioevo gli uomini sono mossi da una fede profonda che ne guida l’esistenza e la chiesa esercita su di loro un’importante influenza. Nelle campagne il curato vive tra i contadini prestando il proprio servizio nelle parrocchie, coadiuvato occasionalmente da un cappellano. Al parroco spetta la decima che ogni contadino deve prelevare dal raccolto e usufruisce dei prodotti agricoli dei terreni della chiesa che sono lavorati da fittavoli o da lui stesso. La chiesa non è solo un luogo di culto ma in essa vengono discussi anche problemi della comunità e si concludono contratti.
I preti devono sottostare all’autorità del decano che a sua volta obbedisce al vescovo; egli è a capo di una diocesi e officia in una cattedrale, aiutato da un capitolo di canonici che spesso dirigono una scuola. Il vescovo visita la diocesi consacrando chiese, giudicando e amministrando sacramenti. Egli non esercita unicamente il potere spirituale, ma anche quello temporale. Per esempio, nel XII secolo, il vescovo di Losanna è anche conte del Paese di Vaud, dove è il solo a poter coniare monete. Inoltre fortifica città e mercati per proteggere i suoi beni, possiede una proprietà notevole e riceve un quarto delle decime versate alle parrocchie della sua diocesi. Il vescovo, come del resto l’abate di un monastero, è un vero e proprio signore feudale.
I monaci svolgono una funzione spirituale e materiale molto importante. Sono sollecitati da più parti a fondare monasteri, beneficiando di doni diversi, terre e diritti. I cluniacensi (Da Cluny, monastero borgognone fondato nel 910. Obbedisce alla regola benedettina; da qui parte un movimento riformatore che si estende a tutta la Cristianità nel XI e XII secolo. Esonerati dal lavoro manuale, i monaci possono consacrarsi totalmente alla preghiera e alla meditazione) si consacrano essenzialmente a celebrare le lodi divine con la preghiera mentre i cistercensi* si stabiliscono su terre da dissodare, conducendo una vita austera. Alternando le orazioni al duro lavoro manuale, essi diventano presto i pionieri nello sviluppo delle tecniche agricole e ridonano vita a numerose attività artigianali. Essi conoscono anche abbastanza bene le leggi architettoniche e sono eccellenti costruttori. Altre comunità si stabiliscono lungo le vie di comunicazione ed accolgono nei loro ospizi, mercanti e pellegrini; curano i feriti e gli ammalati negli ospedali o nei lebbrosari. I conventi sono anche luoghi di cultura. I monaci infatti, insegnano, copiano manoscritti illustrandoli riccamente con miniature e sviluppano il canto liturgico. Sotto questo profilo spicca l’abbazia di San Gallo, la cui fama si propaga in tutta l’Europa.
(*) Da Cîteaux, abbazia borgognona fondata nel 1098; questo ordine raggruppa monaci rigorosamente fedeli alla regola di San Benedetto “ora et labora”, che riabilitano il lavoro manuale e vivono in grande povertà.
Nel XIII secolo compaiono gli ordini mendicanti. I francescani (Religiosi dell’ordine di San Francesco d’Assisi (1182 – 1226); vivono in povertà, predicando l’umiltà, l’amore verso Dio e gli uomini.) e i domenicani (Religiosi dell’ordine di San Domenico (1170 – 1221), prete spagnolo che cerca di convertire gli eretici, predicando e dando esempio di povertà.). Essi si stabiliscono nelle città e predicano alle folle la rinuncia ai beni materiali e l’amore per il prossimo. Seguendo il loro esempio, dei laici fondano confraternite per soccorrere i più bisognosi. I pellegrinaggi sono numerosi e testimoniano la profonda fede di questo periodo. I fedeli intraprendono lunghi viaggi per vedere e toccare le reliquie dei santi, per ottenere l’intercessione; si recano così ad Einsiedeln, San Gallo, Saint-Maurice, al Mont-Saint-Michel, a San Giacomo di Compostella, a Roma e in Terra Santa.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 15:17:292016-07-28 15:17:29La storia svizzera – Parte 3
La Repubblica romana ha conquistato, verso la fine del II° secolo a.C., buona parte della costa settentrionale del Mediterraneo; manca solo la Gallia, territorio che si estende dal Lemano al mare. I Galli (popolazioni celtiche della Gallia) non si lasciano sottomettere facilmente. Un episodio che i romani non potranno scordare fu, verso il 390 a.C., quando i Galli saccheggiarono Roma.
La Svizzera attuale è quindi sul confine del dominio romano. Verso la fine del II° secolo a.C. è occupato da svariate tribù celtiche stabilitesi in Europa nel periodo sopra citato. In prevalenza si tratta di Raurici, Alloborghi, Sequani, Nantuati, Seduni, Veragri ed Elvezi, provenienti dal sud della Germania. I Leponti e i Reti non hanno una sicura origine celtica ma ne hanno sicuramente subito l’influenza.
Verso il 120 a.C. alcune tribù provenienti dal mare del Nord invadono lentamente il sud Europa. Migliaia di persone, uomini, donne e bambini, alla ricerca di terre migliori e più fertili. Si aggiungono a questa marea di gente, due tribù elvetiche, tra cui i Tigurini di Divicone. Nel 107 a.C., nei pressi di Agen (sud-ovest dell’attuale Francia), sbaragliano un esercito romano obbligandolo a passare sotto il giogo. La reazione romana è determinata, al punto di sconfiggere il nemico. I Tigurini tornano sui loro passi e si stabiliscono sull’Altopiano svizzero, nella regione dei laghi di Neuchâtel, Morat e Bienne. Evidentemente, i romani, che sono interessati alla conquista della Francia del sud, non sopportano di questi popoli irrequieti (es.: gli Elvezi). L’Altopiano svizzero, poco abitato dopo la partenza di alcune tribù, rischia di venire invaso da popoli provenienti dalla Germania che si trovano sulla frontiera del Reno.
Gli Elvezi si preparano ad un nuovo esodo. Nel 58 a.C., condotti da Divicone e seguiti da altre tribù celtiche, lasciano il loro territorio. Si tratta di circa 400’000 persone secondo Giulio Cesare.
Sicuramente, secondo gli storici, più di 200’000.
Per convincere tutti a lasciare il loro territorio, secondo il “De bello gallico” di Cesare, bruciano le città ed i villaggi. Alcune prove sono state trovate a Berna, Basilea e al Mont-Vully. I romani impediscono però agli Elvezi di passare oltre il Rodano e quindi sono costretti a prendere la strada in direzione del Giura. Una terribile battaglia viene combattuta a Bibracte nei pressi di Autun, in Francia.
In questo conflitto sono coinvolti anche donne e bambini. Per gli Elvezi è la rovina, tornano sconfitti nel loro territorio che, ormai, è aperto alla conquista romana.
La conquista dei punti strategici
La Svizzera ha confini naturali ben delineati. A sud-ovest e a nord-est i laghi Lemano e di Costanza ciascuno, come prolungamento, con un fiume importante quali il Rodano e il Reno. A sud vi è la catena delle Alpi che era difficilmente valicabile; a nord-ovest le montagne del Giura; tutto a formare una forma tipo quadrilatero.
Verso la fine del II° secolo a.C. il territorio degli Alloborghi fino a Ginevra diventa una zona controllata dai Romani. Attorno al 45 a.C viene fondata la Colonia Julia Equestris che porta il nome di Giulio Cesare che si trova dove oggi sorge la cittadina di Nyon. La nuova configurazione porta ad una chiusura ad ovest degli Elvezi. La nuova Colonia è abitata per lo più da veterani (soldato romano oltre i 45 anni che ha portato a termine il suo servizio) della cavalleria romana (dal latino, appunto, il nome Equestris) ciò che permette anche di tenere sotto controllo tre popolazioni che qui si incontrano: Sequani, Alloborghi ed Elvezi. Come tutte le città romane importanti, Nyon possiede la sua piazza pubblica (forum) e la sua basilica.
Era però anche necessario controllare il passaggio chiave tra il Giura e il Reno, per tenere separati gli Elvezi dai Raurici loro alleati. Nel 43 a.C. i romani fondano ad Augst nelle vicinanze di Basilea, la Colonia di Augusta Raurica (Kaiser Augst), pure destinata ai veterani. Circa dieci anni prima della nascita di Cristo vengono sottomessi anche i Reti e le tribù celtiche del Vallese.
Infine, con la fondazione della città di Aosta e l’ampliamento dell’antico insediamento celtico di Octodurus (Martigny), ribattezzato Forum Claudii Vallensium, è possibile congiungere le due località con l’importante strada alpina del Gran San Bernardo, carrozzabile su tutto il percorso. Così i Romani si sono assicurati il controllo dei grandi assi stradali, sia da nord a sud che da est a ovest e dominano il quadrilatero elvetico.
L’urbanizzazione dell’Elvezia: Avenches
La civiltà romana si diffonde prevalentemente sotto forma di urbanizzazione. Infatti all’interno del quadrilatero elvetico, cioè sull’Altopiano, sorgono centri urbani, spesso dove in precedenza esisteva un villaggio o un insediamento celtico. Tra le città più importanti per estensione e funzione possiamo citare Nyon, Augst, Martigny e Avenches.
Il nome di quest’ultima deriva da Aventicum, strettamente legato a quello di Aventia, dea degli Elvezi, che avevano fatto di questa località il loro capoluogo. Le prime costruzioni dell’Avenches romana che risalgono all’inizio della nostra era, furono costruite in legno prima ed in pietra poi. Sotto l’imperatore Vespasiano, verso il 73 d.C. la città diventa colonia per i veterani dell’esercito.
Avenches, come Nyon e Augst, viene edificata secondo uno schema a scacchiera. Le strade si incrociano ad angolo retto, formando così una quarantina di insulae (isolati). Ognuna di queste misura circa 70 per 110 metri; alcune con abitazioni, negozi di artigiani e commercianti, edifici pubblici (templi, terme, ecc.) e altre costruzioni che sono situate attorno al foro. Poco lontani dal centro vi sono il teatro e l’anfiteatro. La città è protetta da una cintura di muri dalla lunghezza di circa 6 Km, con 73 di torri e 4 porte da dove passano le vie di accesso principali. Questa colonia accolse circa 20’000 abitanti che, per l’epoca, erano un numero abbastanza elevato.
L’unico porto della Svizzera romana, si trovava nella parte sud del lago di Morat, il cui livello era più alto di quello attuale. Il suo molo era lungo 100 metri. Lungo lo stesso si trovavano numerose botteghe di artigiani e stalle per gli animali (buoi) che trainavano i carri merci sulla strada che collegava il porto alla città. Il passo successivo fu quello di scavare un canale molto esteso che permettesse il trasporto di blocchi di pietra dalla cava di Concise, lago di Neuchâtel, fino ad Avenches.
Campagna e piccoli agglomerati
Oltre che di grandi città, l’altopiano è disseminato di numerosi agglomerati di estensione minore. Si tratta spesso di piccoli centri (vicus: vico; Vico Morcote, Vico Soprano, Sonvico, …) che hanno funzioni diverse a dipendenza dei casi.
Uno di questi, Lousonna (Losanna), è una vera città formata di quartieri con foro, tempio e basilica. La sua posizione favorevole nel cuore del bacino lemanico, le permette di divenire un importante centro di scambi tra Rodano e Altopiano. Il suo ruolo economico è testimoniato da un’iscrizione latina che parla dell’esistenza di un’associazione di battellieri del Lemano e da una carta stradale dell’epoca romana che da il nome di Losonne al lago.
Altre piccole località sono per esempio Salodurum (Soletta), Genava (Ginevra), Viviscus (Vevey), Minnodunum (Moudon), Pennelocus (Villeneuve), Ad Fines (Pfyn). Il vicus Vindonissa (Windisch, nei pressi di Brugg) è quello che raggruppa per lo più, i mercanti e i locandieri; infatti questo vico è legato al campo militare omonimo, capace di alloggiare un’intera legione (ca. 5’000 uomini). Si tratta di una parte del dispositivo di difesa e sorveglianza della frontiera sul Reno.
Oltre gli agglomerati gli insediamenti sono dispersi. Centinaia di villae (villa; villaggio), complessi agricoli o residenze di lusso, sono disseminate sull’Altopiano, soprattutto nella parte romanda, lungo gli assi stradali importanti e in prossimità dei centri rurali o urbani. Il paesaggio rurale è stato profondamente modificato dalla conquista romana, soprattutto a causa dell’intenso dissodamento. È a partire da questo momento che il paesaggio assume l’aspetto che noi conosciamo; infatti numerosi villaggi attuali sorgono dove erano situate “villae” romane. Lo studio dei toponimi e le molte ricerche archeologiche fatte, hanno portato a numerosi risultati; per esempio si è scoperto che il nome Payerne deriva da Paternacus, la cui abitazione si trovava dove oggi sorge la famosa chiesa abbaziale.
La civiltà gallo-romana
Per quattro secoli circa, la civiltà dei Celti, di origine nordica e quella dei Romani, di provenienza mediterranea, sono coesistite nel quadrilatero elvetico. Il risultato di questa convivenza è la profonda impronta lasciata dai Romani tra le popolazioni celtiche. Questa decisiva influenza si riflette ad esempio nel campo delle costruzioni: compaiono nuove tecniche fino ad allora sconosciute ai Celti. Numerosi mosaici decorano il pavimento di alcune dimore di lusso; un sistema di riscaldamento, rivoluzionario per l’epoca, permette di distribuire aria calda sotto i pavimenti e nei muri; mattonelle d’argilla cotta sono utilizzate per costruire colonne e si diffonde anche un nuovo sistema per la copertura dei tetti con grandi tegole ad orlo rialzato i cui cocci, ancora presenti nel suolo costituiscono un indizio prezioso per gli archeologi.
La civiltà romana ha dato un grande contributo anche in altri campi. è tipica la ceramica sigillata di color rosso e decorata con motivi in rilievo; anche la vite è introdotta dai Romani nella Svizzera occidentale e lungo il Reno. È forse necessario ricordare che la lingua latina ha dato origine a molte lingue come l’italiano, il francese e lo spagnolo*
(*) Le lingue derivanti dal latino portano il nome di neolatine o romanze e sono: il portoghese, il castigliano, il catalano, il francese, il franco-provenzale, il provenzale, l’italiano, il sardo, il ladino, il dalmatico e il rumeno.
Nonostante il dominio e l’influenza esercitata dal mondo romano, la civiltà celtica è riuscita a preservare molte caratteristiche. Ad esempio, la scultura.
Anche la religione rivela una fusione armoniosa tra le due civiltà, con la convivenza di divinità simili: Marte Albiorix, per es., è un dio nato dalle due religioni (Marte è un dio romano della guerra e Albiorix un dio celtico delle Alpi).
La concezione architettonica che è alla base del tempio “gallo-romano” illustra perfettamente questa fusione. In esso si ritrovano elementi tipicamente romani (colonnato) ed elementi celtici (pianta quadrata). Nel campo linguistico alcune parole di origine celtica si trovano nei nostri dialetti come, nella terminologia riferita al territorio (brüga, froda) e quella casearia (crenca, mascarpa). Anche parole dell’italiano hanno origine celtica come per esempio, Alpi (montagne), carro, betulla e il toponimo Milano (Mediolanum = in mezzo alla pianura.
Pure nei cognomi attestati nelle nostre zone si ritrova l’origine celtica, per esempio: Bordiga (in dialetto lombardo “Burdiga”, dal celtico “burdiga” = siepe di canne).
A partire dal III secolo, la civiltà gallo-romana assumerà pian piano nuove caratteristiche con l’arrivo sull’altopiano degli invasori germanici.
I primi cristiani
Il cristianesimo, dalla sua culla in Palestina, si espande in tutto l’impero romano. I legionari romani dall’Italia portano la nuova fede anche in Svizzera, dove si propagherà partendo dall’ovest. Non esiste, per ora, nessuna testimonianza diretta anteriore alla fine del III secolo. è in effetti ad Avenches che sono stati portati alla luce, da una tomba, due bicchieri di vetro, uno dei quali con un’iscrizione cristiana, risalenti al 300 ca.. Questo non significa che fino a quel momento nessun cristiano sia vissuto in Svizzera, ma sono le scoperte archeologiche che fanno stato.
Avenches è una città ed è appunto negli agglomerati urbani e in centri importanti che il cristianesimo si sviluppa, grazie alla gente che viaggia ovvero i commercianti, i legionari e i funzionari. A Sion è stata scoperta la più antica iscrizione cristiana della Svizzera risalente al 377. Nelle campagne, invece, le popolazioni rurali sono meno aperte alle nuove idee e si mostrano diffidenti verso la nuova religione.
La diffusione del cristianesimo verrà ostacolata dalle persecuzioni scatenate nei territori dell’impero. Roma vede in questa nuova fede un attentato alle pratiche tradizionali e una fonte di sconvolgimenti politici. Inoltre teme che il culto e la posizione dell’imperatore possano subire una perdita di potere. Verso la fine del III secolo una legione stazionata ad Agaunum (St. Maurice) fu massacrata. I soldati della legione, tra i quali San Maurizio, avevano rifiutato di offrire sacrifici agli idoli pagani. Gli storici non concordano però sull’interpretazione di questo fatto.
La religione cristiana avanza man mano che la minaccia dei popoli germanici cresce. Nel III secolo gli Alemanni invadono l’Altopiano svizzero e le strutture create dai Romani iniziano a cedere. Nel 313 lo stato romano, fino allora persecutore dei cristiani, autorizza con l’editto dei Milano, la pratica di questa religione che diventerà addirittura la religione ufficiale alla fine del IV secolo.
Da qui in poi saranno i pagani che rifiutano di convertirsi ad essere perseguitati. La chiesa si organizza pian piano, già nel IV secolo sorgono alcune diocesi in antiche località romane come, per es., Avenches e Martigny. Queste due sedi episcopali saranno trasferite a Losanna e a Sion a causa della minaccia degli invasori e della loro avanzata. Il cristianesimo è quindi ben radicato in Svizzera fin dal IV secolo ma la pratica del paganesimo (insieme dei riti pagani, da paganus; abitante della campagna) resisterà per molto tempo ancora.
L’alto Medio Evo (400 – 900)
La Svizzera degli Alemanni, dei Burgundi e dei Goti
Il sistema di fortificazioni romane lungo il Reno e il Danubio ha fatto in modo che per molto tempo i popoli germanici rimanessero situati oltre la frontiera dell’Impero spesso non senza qualche problema.
Nel III secolo gli Alemanni compiono le prime incursioni sull’Altopiano Svizzero. Le fortificazioni cadono, Augst viene distrutta, Avenches non viene risparmiata ma poi viene in parte ricostruita. Molti villaggi vengono invasi. Baden viene incendiata ben tre volte in poco meno di 100 anni. Quasi tutte le “villae” vengono distrutte. Ogni volta che i Romani reagiscono respingono l’invasore ottenendo una breve tregua. Questo permette la ricostruzione delle fortificazioni. Nel 410 Roma viene saccheggiata dai Visigoti, nel 455 dai Vandali. Una nuova era si delinea lentamente all’orizzonte; il Medioevo*
(Si tratta del periodo storico situato tra l’antichità e l’era moderna; la prima parte di questo periodo è chiamata “alto Medioevo” (476 – 1000), la seconda parte, “basso Medioevo” (1000-1492). Tra antichità e Medioevo non vi è un taglio netto poiché si tratta prevalentemente di periodi dettati dagli storici ma che in realtà sono poco visibili.).
Nel IV secolo i Burgundi si stabiliscono pacificamente nella regione del Lemano (Savoia). Ezio, generale romano, ha acconsentito a ciò. Dopo la sua morte, nel 454, i Burgundi occupano l’intera Svizzera romanda. Sono poco numerosi e si assimilano agli indigeni gallo-romani e ne imparano la lingua. Questi ultimi sotto la pressione degli invasori, si ritirarono ad ovest della Svizzera romanda. Poco tempo dopo il nord e l’est della Svizzera vengono di nuovo invasi dagli Alemanni che si stabiliscono tra il lago di Costanza le alpi e l’Aar. La loro avanzata è lenta e avviene a tappe successive: impiegheranno più di due secoli prima di raggiungere la regione di Berna.
Da allora in poi la Svizzera subisce l’influenza di due civiltà che lasceranno la loro traccia indelebile. Ad occidente i Burgundi, il cui territorio sarà annesso alla Borgogna e ad oriente gli Alemanni, nelle regioni che andranno poi a formare la Svizzera tedesca.
Nel 476 l’Impero romano d’Occidente si sgretola. nel V secolo altri popoli barbarici spingendosi a vicenda ne abbattono le frontiere. I Franchi si stabiliscono nel nord della Gallia mentre il sud e la Spagna sono occupati dai Visigoti. Gli Ostrogoti sottomettono l’Italia, il Ticino e la Rezia. I Vandali invadono l’Africa del Nord. L’Impero romano d’Oriente, separato a partire dal 395 da quello d’Occidente, sopravviverà ancora per altri dieci secoli.
Elmo germanico del VI secolo simile a quello ritrovato alla foce del Rodano, nel Lemano
La Svizzera dei Franchi e dei Longobardi
Nel VI secolo quasi tutta la Svizzera passa sotto la dominazione dei Franchi merovingi (discendenti di Meroveo, Re franco del V secolo.) Sotto la guida del loro Re, Clodoveo, conquistano un immenso territorio. Nel 496 sottomettono gli Alemanni e nel 534 pongono fine al regno burgundo. Solo il Ticino sfugge a questo invasore per essere però incorporato nel regno longobardo. I Longobardi sono un popolo germanico che si è stabilito in Germania nel VI secolo. All’interno del vasto regno franco, all’apogeo verso l’inizio del IX secolo con Carlo Magno*, i popoli sottomessi mantengono i propri caratteri. Così, sia i Burgundi che i Gallo-Romani, sia gli Alemanni che i Reti ed i Longobardi (sottomessi nel 774) conservano la loro propria cultura. Sono però costretti ad accettare il nuovo ordinamento politico imposto dai Franchi che insediano i loro funzionari nei centri urbani come Ginevra, Losanna e Basilea.
(*) Figlio di Pipino il Breve che diede inizio, con la sua ascesa al trono nel 751, alla dinastia dei Carolingi, denominazione, quest’ultima, derivante da Karolus (Carlo), assai comune tra i Franchi. (es.: Carlo Magno, Carlo Martello (nonno di Carlo Magno), ecc.).
Nell’814 Carlo Magno muore. Il potere passa al figlio e successivamente ai tre nipoti che si trovano però in discordia. Nell’843, dopo lunghe lotte, si spartiscono l’Impero. La parte occidentale, regno di Carlo il Calvo, è all’origine della Francia. La parte orientale è attribuita a Ludovico il Germanico, prenderà corpo la Germania; a questo regno appartiene anche la Svizzera orientale mentre l’ovest è inglobato nella parte centrale dell’antico impero franco, il regno di Lotario, che presto si dividerà. Sulle sue rovine sorgeranno il regno d’Italia nell’870 e il secondo regno di Borgogna nell’888, al quale apparterrà la svizzera ad ovest della Reuss.
La religione cristiana si diffonde in Svizzera grazie all’influenza dei Burgundi che si sono convertiti; saranno però i Franchi a diffonderla anche nelle campagne, rimaste per molto tempo pagane. Nell’VIII secolo, per esempio, il Re dei Franchi ordina a missionari irlandesi, tra cui Gallo e Colombano, di evangelizzare il territorio elvetico. Parallelamente, anche su iniziativa di grandi proprietari, furono erette chiese, conventi ed abbazie, che diventano centri di irradiazione della cultura come, per esempio, Romainmôtier (VD) verso il 450, Saint-Ursanne (JU) e San Gallo verso il 620.
L’eredità culturale dell’alto Medioevo
Alemanni, Burgundi e Franchi vivono soprattutto in villaggi sparsi nelle campagne in abitazioni prevalentemente di legno. Al contrario dalle numerose rovine di pietra lasciate dai Romani, i reperti archeologici sulle popolazioni germaniche scarseggiano.
La maggior parte delle informazioni provengono però dalle diverse tombe, portate alla luce sul nostro territorio. In queste tombe sono state scoperte delle fibule (fermagli metallici per abiti), placche di cinture incrostate con l’argento, bracciali, gioielli e armi. Non è comunque facile distinguere a quale civiltà appartengano tutti questi reperti. Ciò a dimostrazione dell’influenza delle diverse culture tra loro.
Con l’affermazione del cristianesimo durante il dominio dei Franchi, le usanze funebri si modificano; i cimiteri non possono quindi più essere utilizzati quale fonte di informazione archeologica.
Se il dominio franco è stato essenzialmente politico, le civiltà burgunda e alemannica hanno determinato la geografia linguistica del nostro paese. La toponomastica; disciplina che studia l’origine dei nomi di luogo, lo conferma. Ad esempio i suffissi “ingen”, “ens”, “engo” sono di origine germanica. Il primo si ritrova in più di mille nomi di luogo nella Svizzera tedesca, dove i Gallo-Romani, ritiratisi verso ovest, hanno lasciato spazio alla germanizzazione. Il secondo invece, testimone dell’influenza Gallo-Romana, erede della cultura romana, è più presente nella Svizzera romanda, dove i Gallo-Romani, mescolati ai Burgundi, sono la maggioranza (regione vodese e friburghese). Il terzo suffisso è presente in vari nomi di paesi al sud delle Alpi e principalmente in Leventina. Questo è il risultato dell’occupazione dei popoli germanici; una Svizzera fortemente germanizzata ad est, dove si imporrà lo schwyzerdütsch; ad ovest fortemente romanizzata si imporrà la lingua romanza (derivata come già visto dal latino). La lingua germanica dei Burgundi, mescolata col latino già alterato da nomi celtici è dunque all’origine dei dialetti romandi. Il Ticino, incorporato prima nel regno ostrogoto e poi in quello longobardo, è rimasto nell’orbita italiana subendone l’influenza sia nella lingua che nella cultura. Nella Rezia, poco toccata dalle invasioni, l’impronta della civiltà latina è rimasta preponderante ed è all’origine del romancio.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 14:38:072016-07-28 14:38:07La storia svizzera – Parte 2
La lunga evoluzione fino al paleolitico (da 3,5 miliardi di anni fa fino al 10000 a.C.)
Dai primi segni di nascita della vita (forme acquatiche prima e rettili poi) era l’acqua a farla da padrone su gran parte del territorio Europeo. Le uniche testimonianze di quell’epoca consistono in alcuni fossili (ca. 200 milioni di anni fa) trovati nelle Alpi vallesane. La lunga spiaggia sabbiosa sulla quale vivevano i primi rettili a cui appartenevano i fossili, nel corso dei secoli si è innalzata, per il fenomeno relativo alle placche tettoniche, fino a raggiungere i 2400 metri circa dando origine alla catena alpina. (30 milioni di anni fa).
1 milione di anni fa fino a circa 10000 anni fa, il clima si è lentamente raffreddato. Questo tratto di storia è un alternarsi di periodi freddi e periodi temperati. A dipendenza del clima i ghiacciai formatisi ricoprirono grande parte dell’attuale territorio elvetico mentre altre volte si ritirano fino alle Alpi (alcuni esistono ancora). È proprio nel periodo delle glaciazioni che fa la sua comparsa nelle nostre regioni l’uomo. Si tratta di un predatore nomade che sopravvive con quanto la natura gli mette a disposizione. Si accampa lungo i fiumi o i laghi oppure, in montagna, vive nelle caverne risparmiate dal ghiaccio. Le armi che gli servono per cacciare vengono ricavate dalla pietra (Periodo paleolitico).
Il neolitico (5000 – 2000 a.C.)
Il periodo che succede al paleolitico è denominato neolitico (5000 – 2000 a.C.). Con il miglioramento progressivo del clima avviene il fenomeno del ritiro dei ghiacciai fino alla situazione attuale. La foresta si allarga e prende piede su gran parte del territorio. Gli uomini sono ostacolati nei contatti e gli animali, abituati a climi più freddi, emigrano verso nord. Questo caratterizza un periodo di cambiamenti tanto profondi nella vita e nella società umana da far pensare ad una vera e propria rivoluzione.
Con il cambiare del clima e di conseguenza del territorio, l’uomo si trasforma da predatore (nomade) in produttore (sedentario). L’agricoltura inizia ad essere pratica così anche come l’allevamento di bestiame. La caccia e la pesca sono attività sempre praticate ma in misura inferiore al periodo passato.
In questo periodo l’uomo impara a tessere e a prodursi abiti di tessuto e non di sola pelle; la pietra non è più scheggiata ma viene lavorata (levigatura). Questo è anche il periodo dei carri con le ruote di legno piene. L’uomo impara a sfruttare meglio un mezzo primitivo quale è il fuoco; grazie all’introduzione della ceramica e della terracotta, sfrutta questo mezzo per la cottura degli alimenti.
Iniziano in seguito a formarsi i primi villaggi (comunità organizzate). I primi insediamenti sorgono sulle rive dei fiumi o dei laghi, sull’altopiano, vista l’impossibilità di inoltrarsi nel territorio a causa della presenza delle foreste. Le abitazioni non erano del tutto costruite sull’acqua ma, l’instabilità del terreno esigeva che grandi pali venissero conficcati nel suolo per donare una certa qual resistenza alle abitazioni che spesso erano isolate dal suolo. Per la maggior parte si trattava di abitazioni di circa 10 metri per 4 con un focolare, necessario per la cottura dei cibi. In questo periodo storico sono stati eretti i primi monumenti (megaliti o dolmen) di cui però si ignorano ancora le funzioni (rituali o religiose). Alcune scoperte archeologiche hanno portato alla luce alcune tombe (ancora rare) che ci forniscono preziosi dati sui nostri avi neolitici.
Vi è quindi stata una riorganizzazione sociale completa ed è per questo che il neolitico è un periodo a carattere rivoluzionario. La società assume aspetti gerarchici e si specializza.
L’età dei metalli (dal 2000 a.C all’anno 0)
A questo periodo fa seguito L’età del rame e del bronzo (dal 2000 al 750 a.C.). Il ritrovamento in Svizzera di moltissimi oggetti costruiti col rame, spiega il lento e progressivo passaggio (senza improvvise rotture) da una civiltà all’altra.
Da questo momento in poi il metallo è il materiale che contribuisce in modo decisivo allo sviluppo della civiltà visto che grazie agli stampi in pietra, gli oggetti possono venire riprodotti in serie o riutilizzati (fusione). La scoperta e l’utilizzo del bronzo soppianta piano piano il rame che è un metallo più fragile. Il bronzo, alle nostre latitudini, è apparso circa verso il 1800 a.C.. La scoperta del bronzo modifica in modo veramente importante nel campo economico; esso è alla base delle origini delle vie commerciali dell’Europa (chiamate vie dello stagno – in effetti il bronzo è una lega di rame e stagno in proporzione 9/1). Anche le armi traggono vantaggi essendo più resistenti e arricchendo il campo bellico.
Oltre all’agricoltura e all’allevamento, che riveste buona parte delle attività delle genti, l’artigianato prende piede, infatti gli oggetti di terracotta, di metallo e i tessili sono entrati a far parte della vita organizzata di queste civiltà.
Anche le usanze funerarie subiscono mutamenti. Dapprima si seppelliscono i morti in una fossa sistemata con pietre e ricoperte da un tumulo. In un periodo subito successivo si usa cremare il morto per seppellirne le ceneri in un vaso.
Dal 750 a.C fino all’anno 0 è il periodo chiamato età del ferro.
All’inizio di questo periodo preistorico vi furono abbondanti precipitazioni che causarono la crescita di laghi e fiumi rendendo impossibile la vita nelle loro vicinanze. L’uomo abbandona i villaggi lacustri per trasferirsi in altura. Vi sono poche informazioni su questi villaggi, malgrado ve ne fossero molti. Uno dei più conosciuti si trova sull’altopiano, a Châtillon-sur-Glâne, nelle vicinanze di Friburgo. Questo villaggio era un noto ed importante nodo commerciale posto sulla strada dello stagno e del sale (collegamento isole britanniche – Grecia).
La novità di questo pezzettino di storia riguarda l’uso del ferro che da, appunto, il nome a questa era. Inizialmente era un metallo prezioso perché poco conosciuto e raro come l’oro. Quando l’uso del ferro viene generalizzato vengono costruite le prime armi e compare la spada. La comparsa del ferro e la sua conseguente lavorazione producono un disboscamento piuttosto vasto (alimentazione dei forni per la fusione) che permette all’uomo di disporre di nuove terre per l’allevamento e l’agricoltura.
Anche in questo periodo le usanze funebri sono quelle della tumulazione seguite però, poi, dall’incenerimento. Nelle necropoli si sono trovate tombe piatte poste l’una accanto all’altra.
In questo periodo avviene anche la migrazione di un popolo dell’Est, proveniente dalla Germania (secoli V e IV a.C.), i Celti. Questo popolo invade tutta l’Europa occidentale. Numerose tribù celtiche si insidiarono nel nostro attuale territorio, tra cui gli Elvezi che occupano l’Altopiano che figura essere la regione più fertile. Si tratta in prevalenza di allevatori e agricoltori che vivono in villaggi costituiti da abitazioni di legno, terra e paglia con pavimento di terra battuta. Essi costruirono pure fortificazioni in altura che fungono da rifugio nei momenti di pericolo (Mont-Vully, Berna, Basilea).
Con la comparsa dei Celti, compare anche il tornio per vasai che da la possibilità di fabbricare le ceramiche dalle forme più diverse. Anche la lavorazione del ferro migliora; l’introduzione di aratro, falce, sega e martello portano benefici agli artigiani, allevatori e contadini. Appaiono pure l’oreficeria e la moneta (sul modello della Grecia) che viene utilizzata negli scambi, soprattutto, con i popoli dell’area del mediterraneo. Questa è l’ultima tappa della preistoria.
Quella che viene definita Storia ha inizio dalla nascita di Cristo (anno 0) ad oggi ed è caratterizzata da una moltitudine di eventi.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 14:27:312016-07-28 14:27:31La storia svizzera – parte 1
I membri della Commissione
Indipendente d’Esperti Svizzera – Seconda guerra mondiale
(Ex-membri della CIE)
Jean-François Bergier, Presidente Storico
Jean-François Bergier è nato a Losanna nel 1931. Studi a Losanna, Monaco, Parigi (Ecoles des Chartes) e Oxford. 1963–1969 professore di storia economica a Ginevra, dal 1969 cattedra di storia al Politecnico federale di Zurigo (Istituto di storia), 1976–1978 professore ospite all’Università Paris-Sorbonne , presidente onorario dell’Associazione internazionale di storia economica, presidente del comitato scientifico dell’Istituto internazionale di Storia economica F. Datini (Prato, Italien) e dell’Associazione internazionale per la storia delle Alpi. Membro corrispondente dell’Académie des Sciences morales et politiques (Parigi) e dell’Académie Royale de Belgique. Jean-François Bergier ha lavorato soprattutto nel campo della storia economica della Svizzera e dell’Europa fra il XIII e XVIII secolo e della storia dell’industrializzazione.
Le pubblicazioni più importanti:
Genève et l’économie européenne de la Renaissance, Parigi 1963.
Histoire économique de la Suisse, Zurigo 1982/Losanna 1983.
Guillaume Tell, Parigi 1988 (tradotto in tedesco e italiano).
Europe et les Suisses, Ginevra 1992, 19972 (traduzione tedesca in
preparazione).
Pour une histoire des Alpes, Moyen Age et Temps modernes, Londra 1997.
Wladyslaw Bartoszewski Storico
Wladyslaw Bartoszewski è nato a Varsavia nel 1922. Internato a Auschwitz dal 1940 al 1941, diventa poi combattente della resistenza. Dopo la guerra è per sei anni detenuto politico dello stalinismo. Dopo la sua liberazione è redattore ed editore e professore di storia contemporanea all’Università di Lublin (Polonia) e di scienze politiche alle università di Monaco, Eichstätt e Augusta. Nel 1963 gli viene conferito il riconoscimento di «Giusto fra le Nazioni» dall’Istituto per la memoria
dell’holocaust ; Nel 1991 ottiene la cittadinanza onoraria dello stato d’Israele. Altri incarichi: 1990–1994 ambasciatore della Polonia in Austria; 1995 ministro degli esteri della Polonia; dal 1997 membro del senato della Repubblica della Polonia.
Le pubblicazioni più importanti:
Aus der Geschichte lernen?, Monaco 1986.
Membri della CIE
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Das Warschauer Ghetto – wie es wirklich war. Zeugenbericht eines Christen, Francoforte sul Meno 1983, 1986(2).
Uns eint vergossenes Blut. Juden und Polen in der Zeit der “Endlösung”, Francoforte sul meno 1987.
Auschwitz-Birkenau, Friburgo (D), Basilea, Vienna 1989 (in collaborazione con Elie Wiesel, Kardinal Jean Marie Lustiger e Rita Süssmuth).
Es lohnt sich anständig zu sein. Meine Erinnerungen. Mit der Rede zum 8. Mai 1995, Friburgo (D), Basilea, Vienna 1996.
Saul Friedländer Storico
Saul Friedländer è nato nel 1932 a Praga. Durante la seconda guerra mondiale fuggì in Francia dove sopravvisse la guerra nascosto. Cattedra universitaria di storia in Israele e Stati Uniti; i suoi temi centrali di ricerca sono la seconda guerra mondiale e le relazioni internazionali.
Le pubblicazioni più importanti:
Auftakt zum Untergang. Hitler und die Vereinigten Staaten von Amerika 1939–41, Stoccarda 1965.
Pius XII und das Dritte Reich. Eine Dokumentation, Amburgo 1965.
Wenn die Erinnerung kommt, Stoccarda 1979.
Kitsch und Tod. Der Widerschein des Nazismus, Monaco 1984.
Das Dritte Reich und die Juden. Die Jahre der Verfolgung 1933–1939,
Monaco 1998.
Harold James Storico
Harold James, nato nel 1956, studiò all’Università di Cambridge. Attualmente insegna storia all’Università di Princeton (New Jersey, USA). Soggiorni in Germania, Austria e Svizzera; nel 1996 era professore ospite all’Istituto universitario di alti studi internazionali a Ginevra.
Le pubblicazioni più importanti:
The German Slump: Politics and Economics 1924–1936, OUP 1986. A German Identity, Weidenfeld and Nicolson 1989.
International Monetary Cooperation Since Bretton Woods, OUP 1996.
Membri della CIE
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Die Deutsche Bank 1870–1945, Beck Verlag 1995 (coautore).
Helen B. Junz
(membro della Commissione dal febbraio 2001) Economista
Helen B. Junz è cittadina americana. Studi in Olanda e Stati Uniti. Dal 1962 al 1979 è un alto funzionario del governo federale statunitense (Board of Governors of the Federal Reserve System, the Council of Economic Advisers and the Department of the Treasury). Dal 1982 al 1994 lavora per il Fondo monetario internazionale. Prima e dopo questo impiego occupa diversi posti nell’economia privata.
Nel 1996 fonda una propria ditta di consulenza economica a Londra. Fra le più importanti pubblicazioni del periodo seguente figura uno studio, eseguito su incarico del «Comitato Volcker» (Independent Committee of Eminent Persons, ICEP), sulla stima dei beni appartenenti alla popolazione ebrea prima del 1939 nei paesi controllati dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Dal 1999 al 2000 dirige la ricerca in un progetto sui patrimoni della Presidential Advisory Commission on Holocaust Era Assets in the United States. È stata inoltre anche consulente economica della International Commission on Holocaust Era Insurance Claims (ICHEIC).
Le pubblicazioni più importanti:
Pubblicazione di numerosi articoli in riviste di scienze economiche.
Georg Kreis Storico
Georg Kreis è nato nel 1943 a Basilea. Studi all’Università di Basilea. Professore di storia moderna all’Università di Basilea (relazioni internazionali e questioni nazionali) e direttore dell’Istituto europeo di Basilea. È presidente della Commissione federale contro il razzismo e scrive per parecchie riviste.
Le pubblicazioni più importanti:
“Entartete” Kunst für Basel. Die Herausforderung von 1939, Basilea 1990.
Die Schweiz in der Geschichte. 1700 bis heute, Zurigo 1997 (versione
francese Zurigo 1997).
Vier Debatten und wenig Dissens (Zur Historiographie über die Schweiz im
Zweiten Weltkrieg), in: Schweizerische Zeitschrift für Geschichte 47, 1997, pag. 451–476.
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Neutralitätsrecht und Neutralitätspolitik. Der Stellenwert der Neutralität in der aktuellen Debatte um die Rolle der Schweiz während des Zweiten Weltkriegs, in: Fluchtgelder, Raubgut und nachrichtenlose Vermögen, a cura dell’ Archivio federale svizzero, Dossier 6, Berna 1997, pag. 59–64.
Die schweizerische Flüchtlingspolitik der Jahre 1933–-1945, in: Rivista storica svizzera 47, 1997, pag. 552–579.
Jacques Picard Storico
Jacques Picard è nato nel 1952 a Basilea. Studiò storia alle Università di Berna e Friburgo. Soggiorno di ricerca negli Stai Uniti. Studi postdiploma di direzione d’impresa, psicologia e comunicazione. Docente di storia e cultura alla scuola universitaria professionale di Berna, dove dal 1994 al 1997 è stato capo di un dipartimento della scuola ingegneri a Bienne. Professore all’ università di Basilea, Direttore del Istituto per gli studi ebrei.
Le pubblicazioni più importanti:
Die Schweiz und die Juden 1933–1945, Zurigo 1994 (dissertazione).
Swiss made oder: Uhrenfabrikanten im Räderwerk von Politik und
technischem Fortschritt, in: Allmende 36/37, Friburgo 1993.
Vom Zagreber zum Zürcher “Ornament”, Wandel und Exil einer
Kulturbewegung 1931–1951, in: Exilforschung, Internationales Jahrbuch 10,
Monaco 1992.
On the Ambivalence of Being Neutral, Switzerland and Swiss Jewry Facing the Rise and Fall of the Nazi State, Washington, D.C. 1998.
Die Vermögen rassisch, religiös und politisch Verfolgter in der Schweiz und ihre Ablösung von 1946 bis 1973, Berna 1993 (traduzione inglese Zurigo 1993).
Jakob Tanner Storico
Jakob Tanner è nato nel 1950 a Root (canton Lucerna). Studi all’Universitä di Zurigo. Diversi soggiorni all’estero (Parigi, Londra). 1996/97 Sostituto di una cattedra all’Università di Bielefeld (Germania). Dal 1997 professore di storia generale e svizzera all’Università di Zurigo. Redattore e editore di parecchie riviste.
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Le pubblicazioni più importanti:
Bundeshaushalt, Währung und Kriegswirtschaft. Eine finanzsoziologische Analyse der Schweiz zwischen 1938–1953, Zurigo 1986 (dissertazione).
Banken und Kredit in der Schweiz/Banques et credit en Suisse 1850–1930, Zürich 1993 (edito in collaborazione con Youssef Cassis).
Finanzwirtschaftliche Probleme der Schweiz im Zweiten Weltkrieg und deren Folgen für die wirtschaftliche Entwicklung nach 1945, in: Probleme der Finanzgeschichte des 19. und 20. Jahrhunderts, a cura di Dietmar Petzina, Berlino 1989, pag. 77–98.
Property rights, Innovationsdynamik und Marktmacht. Zur Bedeutung des schweizerischen Patent- und Markenschutzes für die Entwicklung der chemisch-pharmazeutischen Industrie (1907–1928), in: Die neue Schweiz? Eine Gesellschaft zwischen Integration und Polarisierung (1910–1930), a cura di Andreas Ernst e Erich Wigger, Zurigo 1996, pag. 273–303.
Die internationalen Finanzbeziehungen der Schweiz zwischen 1931 und 1950, in: Rivista storica svizzera 4, 1997, pag. 492–519.
“Bankenmacht”: politischer Popanz, antisemitischer Stereotyp oder analytische Kategorie?, in: Zeitschrift für Unternehmensgeschichte, n. 1, 1998, pag. 19–34.
Daniel Thürer (membro della Commissione dal aprile 2000)
Giurista
Daniel Thürer è nato nel 1945 a S. Gallo. Studia giurisprudenza a Zurigo e altro a Ginevra, S. Gallo e Cambridge (LL.M.). Dal 1983 professore di diritto internazionale, diritto europeo, diritto pubblico e amministrativo all’Università di Zurigo. Visiting Research Professor presso la Harvard Law School e la Stanford School of Law. Presidente fondatore della sezione svizzera della «Commissione Internazionale dei Giuristi». Nel 1991 viene eletto membro del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Nel 1992 è cofondatore del Europa Instituts Zürich (EIZ). Altri incarichi: membro della presidenza della Società svizzera di diritto internazionale, dal 1996 presidente della «Commission juridique» del CICR. È anche coeditore di tre riviste scientifiche.
Le pubblicazioni più importanti:
Das Selbstbestimmungsrecht der Völker – Mit einem Exkurs zur Jurafrage, Berna 1976 (dissertazione).
Bund und Gemeinden – Eine rechtsvergleichende Untersuchung zu den unmittelbaren Beziehungen zwischen Bund und Gemeinden in der Bundesrepublik Deutschland, den Vereinigten Staaten von Amerika und der Schweiz (Beiträge des Max-Planck-Instituts zum ausländischen öffentlichen Recht und Völkerrecht, 90° volume), Berlino/Heidelberg/Nuova York/Londra/Parigi/Tokyo 1986 (abilitazione).
Perspektive Schweiz –- Übergreifendes Verfassungsdenken als Herausforderung, Zurigo 1998.
Numerosi saggi sul diritto internazionale, diritto europeo e diritto pubblico.
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Myrtha Welti, Segretaria generale lic. iur., giurista
Myrtha Welti, sposata, con due figlie e un figlio, è nata nel 1945 a Coira. Studia alle Università di Zurigo e Ginevra (phil I e giurisprudenza) ed è poi assistente all’Istituto di diritto dell’Università di Zurigo. Dal 1981 al 1991 è collaboratrice scientifica del segretariato centrale dell’UDC (Unione democratica di centro). Negli anni 1985– 1989 vive con la sua famiglia a Londra, Inghilterra. Nel periodo 1992–1994 è segretaria generale aggiunta e dal 94 al 96 segretaria generale dell’UDC. Segue un soggiorno con la famiglia a Bonn, Germania (1996–98). Al suo rientro si stabilisce a Zurigo dove lavora come consulente libera professionista.
Mandati (fa altri):
Vicepresidente della fondazione «Science et Cité»
Vicepresidente del consiglio d’amministrazione dell’istituto di ricerca gfs
Membro del consiglio d’amministrazione dell’Ospedale universitario di Berna,
Insel
Membro della direzione alliance F, Alleanza delle società femminili svizzere
Membro della presidenza dell’Associazione svizzera di politica estera (ASP))
Membro della Commissione federale degli stranieri (CFS)
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 14:18:252016-07-28 14:18:25I membri della Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera – Seconda guerra mondiale
Negli ultimi tempi il nostro Paese si è inaspettatamente trovato di fronte a pesanti critiche provenienti dall’estero. Da alcuni mesi a questa parte siamo sommersi da rimproveri, accuse, sospetti e giudizi sommari a causa del nostro comportamento durante e dopo la Seconda guerra mondiale.
Siamo stati tacciati di disonestà, testardaggine e arroganza. La reputazione del nostro Paese è messa a repentaglio perché a livello mondiale viene suscitata l’impressione che la Svizzera si sia arricchita durante la guerra, ne abbia approfittato e che le banche abbiano cercato per 50 anni di tenere per sé i beni appartenuti alle vittime dell’Olocausto.
Con queste accuse si insinua che il benessere svizzero sia fondato sulla ricettazione e che sia stato possibile solo a scapito di terzi.
Si tratta di una critica estremamente grave che mina non soltanto le basi economiche del nostro Paese, ma anche i nostri fondamenti etico-morali. Buona parte della nostra popolazione si sente profondamente scossa e rimette in discussione la propria immagine. Le domande che sorgono sono molte: perché? Perché soltanto ora e perché proprio la Svizzera, che non ha partecipato alle deportazioni né ha conosciuto movimenti antisemiti violenti, e perché proprio noi e non anche altri?
Ma anche sul fronte opposto gli interrogativi diventano sempre più accesi: c’è stato qualcosa di marcio alla base del nostro Stato? La difesa armata del nostro Paese, con le sue vittime, i suoi sacrifici, le paure della popolazione durante la Seconda guerra mondiale sono forse stati inutili, sono forse stati soltanto una facciata per nascondere la collaborazione fra le potenze politiche ed economiche? Da ultimo, in molti si chiedono se non stiamo forse pagando oggi per esserci mantenuti in disparte nella scena internazionale.
Secondo buona parte del popolo svizzero, il Consiglio federale è venuto meno al suo compito di informazione e di chiarezza. Con la presente dichiarazione non si può certo anticipare i risultati della Commissione di storici (Bergier) appositamente istituita o addirittura trarne le debite conclusioni. Lo scopo che si prefigge oggi è piuttosto quello di contribuire a rendere più oggettivo un dibattito sinora caratterizzato da aspetti fortemente emotivi e di rispondere ad alcune domande che preoccupano profondamente popolo e Parlamento.
Agli occhi del Consiglio federale è determinante come e soprattutto con quale atteggiamento affronteremo le tormentose domande, le accuse e i giudizi sommari che ci vengono rivolti. Ancora oggi, di fronte al dramma dell’Olocausto, alle indicibili barbarie del nazionalsocialismo, alla profondità imperscrutabile delle sofferenze inflitte sul piano fisico e psicologico, alle conseguenze inconcepibili di una tale distruzione di vite umane, non ci rimane che chinare il capo e tacere. Un dramma di questa portata allunga la sua ombra su tutta l’umanità e grava sulla coscienza universale. Per questo motivo, è per me un vero e proprio bisogno quello di confrontarci con il passato dando prova di umiltà, rispetto reciproco e obiettività. Colgo qui l’occasione per ringraziare la comunità ebraica in Svizzera per aver ampiamente contribuito, con la sua compostezza, a fare in modo che questa spinosa questione fosse trattata con moderazione e dignità.
In un primo tempo, il Consiglio federale, il Parlamento e l’economia hanno preso troppo poco sul serio le critiche rivolteci e ne hanno sottovalutato l’importanza. Ci siamo lasciati cogliere di sorpresa, abbiamo reagito troppo tardi, non sempre nel modo giusto e – di fronte alla mostruosità di quanto è capitato – non abbiamo saputo dar prova di sufficiente empatia per il passato degli altri. Ci siamo messi subito sulla difensiva. Purtroppo, all’estero si è così diffusa l’impressione che la Svizzera è disposta a riesaminare a fondo il proprio passato e a trarre le debite conclusioni soltanto se messa sotto pressione.
Dobbiamo accettare questa critica, anche se sappiamo che contiene in sé una buona parte di provocazione.
È più che umano voler vedere soltanto le pagine illustri della propria storia e ignorare quelle oscure. Tuttavia non è ancora troppo tardi per rileggere quest’epoca cruciale della nostra storia in modo esaustivo, aperto e autocritico, ma anche con dignità. Oggi, di fronte alle incalzanti sollecitazioni provenienti dall’esterno, non siamo più liberi di determinare “se”, a partire da quando e con quale passo affrontare i difficili anni della guerra e quelli immediatamente successivi. Improvvisamente, ci rendiamo conto di quanto dipendiamo dagli altri e di quanto siamo vulnerabili.
Dobbiamo confrontarci con la nostra storia recente non tanto perché siamo spinti a farlo dall’esterno, ma perché lo dobbiamo a noi stessi. Dobbiamo accettare il nostro passato così com’è. Il passato non può più essere cambiato, ma può aiutarci a determinare meglio il nostro presente e il nostro futuro. Non possiamo né vogliamo congedarci da questo secolo con i sentimenti di insicurezza, astio o vergogna che oggi animano molti dei nostri concittadini. Sarebbe un’ipoteca che graverebbe ineluttabilmente sulle decisioni del prossimo secolo.
Il modo in cui ci confronteremo con il nostro passato dipende da noi, popolo e autorità della Svizzera. Nessun altro può farlo al nostro posto. Ora intendiamo prendere in mano – anche se in ritardo – questo processo, in parte forse anche doloroso, con una franchezza priva di riguardi, ma anche con dignità, autostima e rispetto delle difficili circostanze in cui i nostri predecessori si ritrovarono a decidere. Per farlo abbiamo la possibilità di scegliere tra due strade: una ci unisce, l’altra ci divide, esponendo il nostro Paese alle lacerazioni che una simile dura prova potrebbe comportare.
La nostra generazione non è responsabile di quanto accadde allora. Per la sensibilità odierna, la colpa è sempre qualcosa di soggettivo. Non può esistere una colpa collettiva, né della popolazione svizzera di allora né di quella attuale. Gli esseri umani possono assumersi responsabilità solo per azioni per le quali, viste le conseguenze, esistono anche alternative.
Risulta dunque chiaro che noi, oggi, siamo responsabili, ma siamo responsabili solo del modo in cui trattiamo il passato e interagiamo con la storia. Il nostro dovere di comunità nazionale è quello di rendere possibile il ricordo e di mantenerlo vivo. Il ricordo ci aiuta a capire e a impedire che agli errori eventualmente commessi vada ad aggiungersi l’ingiustizia dell’oblio e dell’indifferenza. Non può esistere alcun dubbio in proposito: il ritorno dell’ingiustizia si alimenta anche di silenzio e del sonno delle coscienze.
Non dobbiamo per questo riscrivere da capo l’intera storia della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Oggi molti avvenimenti sono infatti incontestabili:
· la maggior parte del nostro popolo era pronta a sacrificarsi e intendeva resistere alla scellerata, violenta e barbarica ideologia del Terzo Reich; era inoltre disposta a difendere incondizionatamente la libertà e la democrazia;
· il nostro Paese offrì protezione, per un periodo più o meno lungo, a circa 300 000 stranieri, contribuendo a salvare numerose vite umane;
· con i mezzi più disparati, le nostre autorità intendevano innanzitutto preservare la Svizzera dalla guerra e garantire la sopravvivenza del nostro popolo. Tutti noi sappiamo che questa politica è stata coronata dal successo e che le ragioni di questo successo consistono in un mescolarsi di resistenza e capacità di adattamento. Sarà la Commissione di storici a esaminare in dettaglio tutti i mezzi impiegati allora e a definire se furono legittimi e inevitabili. Ricordo che uno dei più grandi conoscitori della situazione dell’epoca, sir Winston Churchill, che quegli avvenimenti visse, nel dicembre del 1944 formulò un giudizio positivo: “Cosa importa sapere se la Svizzera fosse in grado di accordarci i vantaggi commerciali da noi auspicati o se, per assicurare la sua esistenza, abbia fatto troppe concessioni alla Germania? E` rimasta uno Stato democratico che dalle sue montagne ha difeso la sua libertà. Nonostante la sua appartenenza culturale, ha condiviso in gran parte le nostre idee”.
In breve: anche se non si dovessero conoscere i fattori ultimi che decisero della salvezza della Svizzera durante il secondo conflitto mondiale, noi oggi non dobbiamo vergognarci di essere stati risparmiati dalla guerra. Ogni Paese pensò innanzitutto ai propri interessi. Questo diritto spettava anche a noi: noi avevamo il diritto di sopravvivere.
Possiamo ringraziare solo Dio e tutti gli esseri umani coraggiosi per essere stati risparmiati da questa guerra. Dobbiamo ringraziare vivamente i nostri predecessori per la loro capacità di resistenza, i loro sacrifici, le loro rinunce e la loro determinazione nel difendere la libertà, il diritto e l’indipendenza. Ringraziamo però anche gli Alleati che, con un tributo umano ancora maggiore, hanno consentito la conclusione della guerra, il sopravvivere della cultura europea e implicitamente anche il nostro futuro fatto di libertà.
Chi come me ha vissuto da bambino il difficile periodo della Seconda guerra mondiale e conserva vivi numerosi ricordi, prova ancor oggi grande rispetto e riconoscenza per il coraggio, il senso disinteressato del dovere, lo spirito di sacrificio e di solidarietà con cui i nostri genitori resistettero in tempi ostili e servirono il nostro Paese.
Dobbiamo però anche chiederci se e in che misura gli Svizzeri hanno affrontato veramente le grandi questioni morali del periodo bellico. È con senso di autocritica e in tutta franchezza che dobbiamo quindi guardare alle pagine più oscure di quel difficile periodo: penso ad esempio alla politica in materia di rifugiati, a certe transazioni di oro della Banca nazionale, al commercio di materiale bellico o alla spietatezza che animò le banche nell’identificazione di averi non rivendicati. Certamente, anche a questo proposito vi sono già numerosi studi, ma le autorità e l’opinione pubblica non si sono finora occupate in modo sufficientemente approfondito di questi aspetti della verità. Da questo punto di vista, abbiamo finora sempre seguito la strada più facile.
Non spetta a noi condannare alla leggera i responsabili dell’epoca. Dobbiamo tuttavia deciderci a fare luce sulle loro azioni e su quanto è accaduto da allora. Veridicità, giustizia e solidarietà: sono questi i tre principi che devono guidarci in questo esame del nostro comportamento durante il periodo bellico, e negli anni che l’hanno preceduto e seguito.
La volontà di giungere alla verità ne rappresenta il fondamento. Vogliamo sapere come è andata e perché è andata così. Per questo motivo, nel dicembre dell’anno scorso, dopo che il Parlamento aveva approvato con un’inabituale unanimità il decreto federale sugli averi non rivendicati, abbiamo nominato una commissione di esperti indipendente presieduta dal prof. Bergier. La commissione Bergier è incaricata di procedere a un’analisi globale di quanto accaduto all’epoca in ambito politico ed economico.
Vogliamo e possiamo guardare in faccia alla realtà, qualunque essa sia. Tuttavia, la verità storica è per lo più complessa e non possiamo quindi pretendere neanche dai migliori esperti che trovino la verità assoluta. Sarebbe già molto se riuscissimo ad avvicinarci il più possibile a essa. Poiché “è sempre l’individuo ad avere l’ultima parola in politica e nella storia”, come affermava in maniera pregnante Jean Rudolf von Salis, stimatissimo storico scomparso l’estate scorsa.
Guardiamoci bene perciò, nell’interesse della verità, dall’appropriarci della storia per obiettivi di politica quotidiana, a scopi ideologici o per meri calcoli partitici. La volontà di trovare tutta la verità presuppone lo sforzo, senza prevenzione di sorta, di cercare luci e ombre nelle loro proporzioni effettive. Questa volontà senza remore di giungere alla verità e la rinuncia a ogni presa di posizione prematura sono condizione irrinunciabile per rileggere e accettare la storia di un periodo carico di conseguenze anche per il nostro Paese. L’ammonimento “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra!” proprio nella ricerca della verità vale per tutti noi.
I fatti e gli avvenimenti storici si collocano in modo ben preciso nel tempo e nello spazio. Occorre quindi valutarli in contesti più ampi, altrimenti il lavoro storico si limiterebbe a pura contabilità. Il Consiglio federale ripone piena fiducia nella capacità della commissione Bergier di analizzare e valutare quanto successo secondo le regole riconosciute della scienza storica. Tuttavia, l’apprezzamento politico-morale del comportamento tenuto allora dalla Svizzera e le conseguenze da trarne non possono essere delegati agli storici; siamo invece noi – Consiglio federale, Parlamento e popolo – a dovervi procedere. Misura e criterio del nostro giudizio dev’essere la giustizia.
La ricerca della giustizia ci impone di considerare con equità le decisioni prese allora, essendo sottile il filo che separava la possibile libertà d’azione dalle imposizioni. Una tale valutazione richiede anche una grande umiltà da parte nostra. Nessuno di noi sa infatti come avrebbe agito nella situazione di insicurezza, minaccia e perfino paura che si viveva in quell’epoca.
La tutela dell’indipendenza del nostro Paese, legittimo obiettivo della nostra politica, non giustificava e non giustifica l’impiego di qualsivoglia mezzo. Rimane valido quanto affermato nel 1995 dal presidente della Confederazione Villiger in occasione del 50esimo anniversario a proposito della politica seguita dalla Svizzera durante la guerra in materia di rifugiati. Pur con tutta la comprensione per le minacce di quel periodo, dobbiamo ammettere che molte persone giunte in grave pericolo ai nostri confini, sono state inviate in modo pusillanime a morte certa, allorquando sarebbe stato possibile e necessario dar prova di maggiore magnanimità.
È probabile che anche nell’ambito delle relazioni economiche private e del commercio di oro della Banca nazionale, la commissione di storici giunga a conclusioni critiche nei confronti di persone che ricoprivano ruoli di responsabilità. Non è escluso che fra i vertici dello Stato e dell’economia vi fosse chi, agendo o astenendosi da ogni azione, essendo a conoscenza dei fatti ma tacendo, si sia reso personalmente colpevole più di quanto si sapesse finora, nuocendo così all’immagine del Paese. Se dovesse risultare che alcune alte cariche abbiano fatto troppo buon viso alla situazione, abbiano dimostrato poco coraggio e scarsa capacità di resistenza, quando sarebbe stato possibile e auspicabile agire diversamente, lo deploriamo vivamente.
Evitiamo però, a causa delle ingiustizie commesse da singoli individui, di vedere la Svizzera come uno Stato ingiusto. Nel nostro odierno Stato di diritto, appare ovvio che eventuali pretese sorte nel periodo bellico nei confronti della Svizzera o di istituzioni private e tuttora pendenti debbano essere adempite.
La vera risposta alla rilettura politica e morale del nostro passato ha nome solidarietà. L’8 maggio 1945, giorno in cui si concluse la Seconda guerra mondiale, il Consiglio federale indirizzò un messaggio al popolo, nel quale tra l’altro affermava: “Giudicare non è nostro compito. Il nostro compito è quello di aiutare, di alleviare le pene e di operare per il Bene”. E proprio questo il popolo e le autorità hanno fatto, in svariati modi fino ad oggi. Il Consiglio federale si rallegra che, tramite numerosi versamenti, le banche e l’economia abbiano permesso la creazione tempestiva di un fundo speciale. In tal modo si potranno soccorrere le vittime dell’Olocausto maggiormente indigenti.
Viviamo in Svizzera in una democrazia diretta. Anche per la rilettura del nostro comportamento nella Seconda guerra mondiale, questo fatto costituisce nel medesimo tempo un’opportunità e una sfida. L’accettazione della nostra storia, con le sue luci e le sue ombre, non può essere imposta a un popolo dall’alto, né tanto meno da fuori. Non abbiamo nessun timore del popolo. Ma è chiaro che questo difficile processo può essere portato a buon termine soltanto insieme al popolo, non senza di esso o addirittura contro di esso. Popolo e autorità devono confrontarsi con il proprio passato affrontarne le conseguenze che ne derivano. Nel nostro Paese, con i suoi istituti di democrazia diretta, qualsiasi tentativo di riscrivere in modo troppo distaccato ed elitario la storia e la sua interpretazione è destinato al fallimento. Una profonda divisione tra popolo e autorità su un argomento che tocca così sensibilmente l’identità stessa del popolo potrebbe influenzare in modo pernicioso l’atteggiamento politico delle nostre concittadine e dei nostri concittadini e avere conseguenze pregiudizievoli per l’avvenire del Paese.
È perciò nostro dovere affrontare questo compito con la massima sensibilità e nel medesimo tempo tutelare verso l’esterno il nostro onore e i nostri interessi nazionali. I giudizi sommari, palesemente ingiusti, sul nostro Paese e le affermazioni ingiuriose non favoriscono certo i passi avanti, ma inducono tutt’al più il popolo svizzero a reazioni stizzite. Invito perciò le istanze internazionali a comprendere che nel nostro Paese la rilettura del passato non può essere guidata unicamente dagli storici, dal Governo e dal Parlamento, ma deve avvenire con il popolo, secondo un processo democratico e nel più assoluto rispetto dei diritti costituzionali, in particolare della libertà d’espressione. Abbiamo fatto tutto il necessario per avviare il processo di accertamento della verità e siamo decisi a confrontarci con il nostro passato. Lo abbiamo già affermato più volte e lo ribadiamo: la Svizzera mantiene le sue promesse.
Vi invitiamo però a comprendere che un simile processo richiede, in una democrazia diretta, tempo e opera di convincimento.
In qualità di presidente della Confederazione, mi rivolgo innanzitutto al nostro popolo e chiedo alle nostre concittadine e ai nostri concittadini franchezza e disponibilità a percorrere insieme al Consiglio federale e all’Assemblea federale questo percorso di ricerca della verità. Dobbiamo gettare ponti di riconciliazione e dare prova di umanità, ognuno secondo il suo ruolo e le sue possibilità. Rivolgo in primo luogo un appello alle generazioni più anziane: dialogate con i giovani e rendeteli partecipi delle esperienze e delle forti emozioni di quei tempi. I giovani comprenderanno così che la resistenza contro la barbarie e la sete di potere è pagante anche quando la situazione appare disperata. E se oggi, insieme, dobbiamo trarre un insegnamento per il futuro, è quello di mantenerci vigili contro ogni accenno di intolleranza e di razzismo, ovviamente anche quando compaiono sotto forma di antisemitismo. Al discredito gettato su una minoranza o su una parte della popolazione ne segue presto un altro. Non bisogna concedere spazio a queste tendenze. La tutela generale della dignità umana, con tutte le sue implicazioni, deve venire prima di ogni altra cosa. E sotto questo aspetto proprio la Svizzera, uno Stato composto di molti popoli che convivono pacificamente, deve fungere da esempio.
Mi rivolgo anche a voi, donne e uomini scelti dal popolo e responsabili della politica nel nostro Paese, per esortarvi a proseguire con coerenza nel cammino che abbiamo intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia, della solidarietà. Nessuna voce, provenga essa dall’interno o dall’esterno, deve fuorviarci. Non abusiamo di un tema spinoso come la rilettura del nostro passato per cercare di profilarci politicamente. Non fomentiamo diffidenze tra popolo e autorità e tra singoli gruppi della popolazione. Partecipiamo insieme, con franchezza e reciproco rispetto, a questo processo di rivisitazione del nostro comune passato, sostenuti dalla profonda convinzione che il confronto consapevole con le sue luci e le sue ombre ci fa maturare e ha un effetto liberatorio. La nostra storia prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale non deve essere né superata ne rielaborata, ma deve essere accettata da noi tutti. Se ci riusciremo, saremo anche in grado di determinare il nostro presente e il nostro futuro.
Allo sguardo al passato, il Consiglio federale desidera tuttavia affiancare anche uno sguardo in avanti.
La miseria, l’indigenza, le ingiustizie, i genocidi e le violazioni dei diritti umani non appartengono solo alla storia; sono anche realtà innegabili e gravi del presente. E’ dunque piú che opportuno creare un opera di solidarietà.
Se vogliamo fare un gesto che si iscriva nella tradizione umanitaria della Svizzera ed esprima la gratitudine per essere stati risparmiati dai due conflitti mondiali, se vogliamo riparare degnamente coloro che hanno sofferto in modo indicibile 50 anni or sono, se vogliamo contribuire fattivamente a rinvigorire l’idea di solidarietà e di civismo, oggi tanto sviliti, all’interno e all’estero, allora dobbiamo intraprendere qualcosa che permetta di mitigare le sofferenze di oggi e di domani, per intima convinzione e volontà esplicita di un Paese consapevole.
E’ in questo senso che il Consiglio federale, d’intesa con la Banca nazionale e in riguardo all’ anno del giubileo 1998, ha proposto l’idea di una “Fondazione svizzera per la solidarietà” il cui scopo essenziale sarebbe quello di alleviare la miseria in Svizzera e all’estero. La fondazione sarebbe finanziata con i proventi della gestione economica della parte di riserve auree della Banca nazionale che, in seguito alle riforme necessarie della relativa normativa finanziaria e monetaria, è a disposizione per altri scopi di natura pubblica. Il patrimonio della futura fondazione dovrebbe aggirarsi attorno ai sette miliardi di franchi. La fondazione avrebbe il compito di gestire tali riserve secondo le regole di mercato e, con una gestione accurata, si potrebbe contare in media e a lungo termine su introiti annui dell’ordine di alcune centinaia di milioni di franchi, da destinare in parti uguali all’interno del Paese e all’estero. I beneficiari sarebbero le vittime di catastrofi, di genocidi e altre gravi violazioni dei diritti umani, ivi comprese le vittime dell’Olocausto / Shoa.
Dovendosi realizzare quest’idea di fondazione svizzera per la solidarietà, il Consiglio federale rinuncerebbe definitivamente a pagamenti basati su contributi di altra natura. Questa fondazione per la solidarietà sostituirebbe la struttura di fondazione prefigurata in precedenza e avrebbe finalità molto piú ambiziose.
La creazione di una fondazione siffatta richiede tuttavia tempo, presuppone determinati accertamenti giuridici e un esame preciso della futura struttura. Per l’aiuto immediato delle vittime dell’Olocausto / Shoa sono a disposizione i mezzi del fondo speciale creato la scorsa settimana. Il Consiglio federale approva pertanto l’intenzione della Banca nazionale di alimentare il fondo con 100 milioni di franchi.
Il Consiglio federale è convinto che la creazione di una Fondazione svizzera per la solidarietà sarebbe un gesto importante e duraturo, capace di produrre effetti benefici ancora fra dieci, venti o cinquant’anni, tanto all’estero che in Svizzera, e tale da ridare nuovo vigore al principio di solidarietà che reputa essenziale per il nostro Stato. Si augura pertanto di poter intraprendere quest’opera con la Vostra collaborazione e con l’appoggio del popolo, che pure dovrà dare il suo sostegno. In questo agire avremmo un segno tangibile della nostra capacità di reagire al passato e di guardare al futuro. Sarebbe un contributo lungimirante per una Svizzera piú solidale.
Commissione di esperti indipendente presieduta dal prof. Bergier Sito ufficiale della Commissione di esperti indipendente presieduta dal prof. Bergier
Le conclusioni della Commissione furono rigorose ed impietose, e suscitarono emozioni contrastanti e sconcerto nella popolazione elvetica.
Qualcuno, indignato, accusò il Parlamento di autolesionismo per avere – all’unanimità – costituito questa commissione di indagine, altri, i più, mostrarono l’orgoglio, dei forti e degli onesti, di appartenere ad una Nazione, forse l’unica al mondo, capace di scandagliare impietosamente il proprio passato senza pudori e vergogne, nello spirito indicato dal Presidente della Confederazione Arnold Koller.
Qualcun altro, in Svizzera, ricordò che, se è ben vero, che la Germania si dissociò dal proprio passato, rinnegandolo, mai costituì una imparziale commissione di indagine, limitandosi ad accusare dei crimini e delle nefandezze Adolf Hitler, quasi che questi non fosse il Capo del governo della Germania.
E ricordò che pure l’Italia si comportò similmente, dando la responsabilità della politica razziale antisemita, delle guerre, dei crimini di guerra (l’uso dei gas, in Libia, da parte del gen. Graziani, le atrocità nei Balcani durante la II Guerra mondiale, ecc.) al Capo del governo, Benito Mussolini, duce del fascismo.
Che nelle piazze gli Italiani rispondessero “cannoni” alla domanda di Mussolini “burro o cannoni”, e che costui fosse stato osannato per ventanni, pare che tutti se ne siano dimenticati!
«I popoli che dimenticano la loro storia – ha sottolineato Josep Borrell, presidente del Parlamento dell’Unione europea (27 gennaio 2005) – sono condannati a ripeterla».
Di seguito l’intervento del Prof. Jean-François Bergier, presidente della CIE alla conferenza-stampa del 22 marzo 2002, testo pubblicato sul sito ufficiale del Governo svizzero. Sito ufficiale
Eccoci all’ultimo incontro tra voi e la CIE, che d’altronde non esiste più dal dicembre scorso. I suoi membri sono orgogliosi di potervi presentare la sintesi finale del loro impegno, pubblicata simultaneamente in quattro lingue. L’incontro ci offre però anche l’occasione di ringraziare la stampa svizzera ed estera e l’opinione pubblica che hanno accompagnato il nostro lavoro con notevole senso critico. Nel corso degli ultimi cinque anni, s’era instaurato un vero e proprio dialogo. Se, a volte, è un po’ mancata la serenità di cui avremmo gradito vederci attorniati, ciò dipende dal fatto che la posta in gioco dava vita a emozioni contrastanti, segni evidenti, a loro volta, dell’importanza e della necessità del compito che ci era stato affidato. Sia come sia, la CIE ha comunque saputo preservare la propria indipendenza in ogni circostanza. Quattro sono gli obiettivi perseguiti dalla sintesi che oggi vi consegniamo:
Riprendere e riassumere i risultati di tutte le nostre indagini, esposti nei 25 volumi di studi, contributi alla ricerca e perizie giuridiche, onde rendere tali risultati più facilmente accessibili a tutti ed evidenziare i più significativi.
– Adempiere al vero senso di un lavoro di sintesi, sforzandosi di mostrare il grado e il modo in cui i vari aspetti studiati interagiscono, venendo a formare un corpo unico, complesso, ma indissociabile: il tutto dà senso alle parti.
– Situare i dati da noi portati alla luce nel loro contesto nazionale e internazionale, in un clima, in un sistema di valori e di riferimenti o, piuttosto, in sistemi contrapposti, il cui scontro avvenuto tra il 1933 e il 1945 generò la tragedia.
– Ricordare, infine, i limiti contro cui cozza la nostra impresa, ciò che non siamo stati in grado di risolvere, per mancanza di fonti o del tempo necessario a trarre profitto di tutti i dati di cui disponevamo; in questo senso, essa apre prospettive a future ricerche.
Nei suoi 5 anni di vita, la CIE ha profuso gran parte delle proprie energie nelle ricerche d’archivio, in fondi pubblici e soprattutto privati. Pochi mesi sono quindi rimasti per la redazione, la traduzione e la pubblicazione del Rapporto finale, avvenute inoltre in condizioni materiali insolite e scomode, di cui porta responsabilità il Consiglio federale. Per questi motivi, il libro non ha tutta la perfezione formale che avremmo desiderato. La fretta traspare nella redazione e nelle traduzioni, dove non mancano le ridondanze, persino lievi contraddizioni nella valutazione di uno stesso fatto ad opera di autori diversi. L’accordo di Washington del 1946, per esempio, è visto nel capitolo 2 come un relativo insuccesso della diplomazia svizzera e nel capitolo 7 come un successo della stessa. : è una questione di punto di vista, come nel caso del bicchiere che per una persona è mezzo pieno e per l’altra mezzo vuoto…Simili dissonanze secondarie sono inerenti ad un lavoro collettivo. Abbiamo preferito accettare questi difetti e rispettare le scadenze di consegna, piuttosto che accumulare ritardi nel rincorrere una perfezione forse illusoria.
Guardando al fondo delle cose, mi preme sottolineare ciò che ritengo essenziale: questo testo, in gran parte scritto personalmente dai membri della CIE, che l’hanno inoltre ampiamente discusso e modificato prima di approvarlo, è sostenuto all’unanimità dalla Commissione. Non c’è voluta nessuna procedura particolare per appianare opinioni contrastanti: tutti noi assumiamo la responsabilità per tutto quanto viene esposto nel Rapporto. Ovviamente, se ognuno avesse avuto la libertà di scrivere da solo questa sintesi, si sarebbe espresso in modo diverso. Non eravamo sempre dello stesso parere sulla forma da adottare per raccontare i fatti ed esporre la loro interpretazione, ma siamo sempre riusciti a trovare un compromesso che, mi sembra, non toglie nulla alla credibilità dell’enunciato, anzi! Per quanto riguarda invece la sostanza dell’opera, la sua struttura e le conclusioni che vi si traggono, siamo tutti d’accordo.
Voi sapete che l’incarico ricevuto non esigeva da noi una storia generale della Svizzera al tempo del nazionalsocialismo e oltre quegli anni. Ci imponeva solo di chiarire alcuni punti controversi o poco noti di quella storia, gli aspetti che sembravano indicare come la Svizzera, cioè i suoi dirigenti politici ed economici, avessero in parte abdicato alle loro responsabilità.
Effettivamente, siamo giunti alla conclusione che in tre campi l’assunzione delle proprie responsabilità è stata carente, addirittura molto carente.
Primo campo: la politica d’asilo della Confederazione e dei cantoni. Si tratta di gran lunga della questione più delicata, poiché riguarda la vita di migliaia di esseri umani. Al pari di parecchi storici che l’hanno preceduta, la CIE ha dovuto constatare che questa politica fu troppo restrittiva e che lo fu inutilmente. L’incertezza riguardo alle cifre e le speculazioni che ne decorrono non cambiano una virgola a quest’affermazione: moltissime persone in pericolo di vita furono respinte senza motivo; altre furono accolte, ma non sempre se ne rispettò la dignità umana. Il coraggio di alcuni cittadini, il loro senso della giustizia e il generoso impegno di ampie cerchie della popolazione hanno un po’ mitigato la politica ufficiale, senza però poterne mutare il corso. Eppure, le autorità erano al corrente del destino che attendeva le vittime, e sapevano pure che un atteggiamento più flessibile e generoso non avrebbe avuto conseguenze insopportabili né per la sovranità del paese né per le condizioni di vita della popolazione, per precarie che fossero. Ciò ci impedisce di lasciar cadere l’affermazione, forse provocatoria nella forma, ma rispettosa della realtà, che la politica delle autorità svizzere ha contribuito alla realizzazione del più atroce obiettivo nazista, quello dello sterminio.
Secondo campo: gli accomodamenti con le potenze dell’Asse consentiti dallo Stato e da una parte dell’economia privata. Questa è una questione ostica, poiché nessuno può dubitare della necessità di arrivare a dei compromessi, senza i quali si rischiava il tracollo politico ed economico della Svizzera. Paradossalmente, un certo grado di cooperazione economica con il regime nazista funse da elemento di resistenza all’influsso dalla potenza tedesca e s’inserì nel dispositivo di difesa nazionale. A quel tempo era difficile valutare qual era il punto oltre cui ci si sarebbe spinti troppo lontano. Ora, noi mostriamo che in effetti si andò spesso troppo lontano, sia a Berna che nelle sedi di certe imprese; certe, ma non tutte, il che rivela che esistevano margini di manovra, i quali furono però individuati e utilizzati in modo diverso, troppo poco sistematicamente. Le nostre ricerche non hanno portato alla luce nessun caso di cooperazione per motivi ideologici o per simpatia verso il regime nazista, né da parte di organi statali né da parte dell’industria. Talune imprese vi hanno visto un’opportunità di guadagno, altre una condizione per sopravvivere – al pari della Confederazione stessa, del resto. Tuttavia, tale collaborazione ha avuto per effetto di ledere il rigoroso rispetto della neutralità. Una neutralità che empiva la retorica ufficiale, che legittimava azioni a volte scabrose o il rifiuto d’agire. Uno slogan multiuso, ma che permise distorsioni dei doveri imposti dal diritto di neutralità, le più palesi delle quali furono il cosiddetto credito del miliardo, la fornitura di materiale di guerra statale, il controllo insufficiente del traffico ferroviario tra la Germania e l’Italia.
Terzo campo di responsabilità mal gestita: la questione delle restituzioni nel dopoguerra. Né la Confederazione, attraverso disposizioni legali insufficienti e inadeguate né le imprese private, le banche, le assicurazioni, i fiduciari, le gallerie d’arte o i musei non hanno adottato con la dovuta serietà e tempestività le misure che s’imponevano, onde permettere a tutti gli aventi diritti di rientrare in possesso dei loro beni. Questa mancanza non dipese da malevolenza, dall’intenzione di arricchirsi a spese delle vittime, ma soprattutto da negligenza, dalla mancata percezione di un problema ritenuto in fondo marginale; oppure dal desiderio di conservare intatti i vantaggi derivanti dalla strategia della discrezione, specialmente quelli del segreto bancario. Questa politica ha creato i cosiddetti “averi in giacenza” ed è all’origine delle rivendicazioni e dei problemi legati alla propria immagine e alla propria storia, che la Svizzera s’è vista costretta ad affrontare in questi ultimi anni, avendoli trascurati quando sarebbe stato il momento di risolverli.
Le questioni appena esposte non sono le uniche che abbiamo cercato di chiarire. Ad esse se ne allacciano altre, per esempio l’impiego di 11’000 lavoratori forzati nelle imprese svizzere in Germania, l’occultamento di interessi tedeschi e italiani, il transito di fondi nazisti (e di criminali in fuga) e l’elenco potrebbe continuare.
D’altro canto, le risposte fornite a queste questioni non sono né complete né definitive. La ricerca deve proseguire.
D’ora innanzi, non potrà fare a meno di superare gli stretti orizzonti nazionali, di organizzarsi a livello mondiale. Poiché la maggior parte dei campi del nostro legittimo interesse oltrepassa le frontiere, sfugge alle prospettive limitate dei singoli Stati implicati. la CIE non c’è più, ma i suoi membri sì; essi veglieranno a che lo slancio preso qui e altrove non si esaurisca.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 14:08:252020-07-19 21:58:31Dichiarazione del Presidente della Confederazione Arnold Koller dinnanzi all’Assemblea federale, del 5 marzo 1997
In attesa di controllo, per contrastare l’ingresso a sabotatori ed elementi di provocazione.
Protetti dalle armi dell’Esercito svizzero, neutrale ma non per questo meno determinato a difendere i confini della Patria da qualsiasi aggressione: un esercito animato pure dallo spirito umanitario di Henry Dunant,
il fondatore ginevrino della Croce Rossa Internazionale.
Ora gli scampati allo sterminio sono al sicuro, rifocillati e curati sotto l’usbergo dello scudo rossocrociato elvetico.
Durante la seconda guerra mondiale la “difesa spirituale” permise agli Svizzeri di vigilare sempre sui passi del nemico. Un nemico frontale, che prometteva, formalmente, invasioni dal nord germanico e dal sud italiano. Una difesa che nasceva dal cuore, dall’amore per la propria terra, dalla voglia di rimanere amici di tutti ma sovrani in casa propria.
L’Esercito elvetico vigila e protegge i profughi dalle aggressioni nazifasciste.
La via verso la salvezza di due bimbi entrati in Svizzera attraverso il varco del Gaggiolo (tra Varese ed il Canton Ticino), che segnava la linea di demarcazione tra la atrocità dei “nuovi barbari” italiani, come li aveva definiti Luigi Einaudi, primo futuro presidente della Repubblica italiana, pure Lui rifugiato in Svizzera, riferendosi ai suoi concittadini, e la civiltà dell’Elvezia.
I bimbi hanno già ottenuto il passaporto della Croce Rossa Internazionale. previsto per gli apolidi, ma si leggono sul volto la preoccupazione ed il sospetto, dopo le terribili esperienze subite in Italia, a seguito delle persecuzioni razziali.
Torna il sorriso, finalmente liberi e spensierati, nonostante, sullo sfondo, si percepisca lo scenario di guerra !
Terminata la guerra, scampato il pericolo, dopo essere stati sfamati, curati e difesi dalla barbarie nazifascista, senza pagare alcunché, alcuni scampati al massacro, o loro familiari, alzarono accuse contro il comportamento della Svizzera durante la II Guerra mondiale.
Costoro, dunque, non rivolsero richieste di risarcimento contro l’Italia e la Germania che li avevano discriminati e deportati con le leggi razziali, e financo neppure contro quest’ultima che aveva commesso contro di loro il genocidio, l”l’Olocausto”.
Ci furono invece accuse contro la Svizzera di eccessiva prudenza, di ambiguità, di opportunismo, dimenticando che questo piccolo Paese,circondato dai belligeranti e senza risorse alimentari, dopo aver dato asilo, per anni, a quasi mezzo milione di profughi stremati, aveva un primario obbiettivo: salvare la propria gente e la propria secolare indipendenza. Col senno di poi, forse, si poteva fare di più.
Sergio Romano (Corriere della Sera, 21 marzo 2002) ammette che la diplomazia elvetica, la magistratura, la polizia dettero prove, anche in condizioni difficili, di coraggio e indipendenza. Concludendo “Chi può dimostrare che in quelle circostanze avrebbe agito diversamente, scagli la prima pietra.”
In ogni caso per illuminare le pagine grigie la Confederazione ebbe il coraggio, unico Paese al mondo, di istituire una Commissione indipendente di esperti sulla Svizzera nella Seconda guerra mondiale» a cui fu permesso di esaminare, scavalcando il segreto bancario, gli archivi delle aziende e delle banche coinvolte nelle vicende economiche della guerra.
Presieduta da uno storico di grande valore (Jean-François Bergier) e composta da studiosi di diversa nazionalità, molti gli Ebrei, la Commissione ha lavorato per cinque anni e ha prodotto un rapporto finale: 504 pagine di analisi, documenti, grafici, dati economici e considerazioni conclusive che sono state presentate il 22 marzo 2002 a Berna con una conferenza stampa.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 14:01:042016-07-28 14:01:04Il ruolo della Svizzera nella Seconda Guerra Mondiale
Già dal 1440 gli Urani occupando definitivamente la Leventina avevano incorporato nella Svizzera un territorio d’altra lingua, italiano per parlata, mentalità e tradizioni.
Alla vigilia della rapida guerra di Svevia, gli Svizzeri s’erano alleati con la piccola Confederazione delle Leghe Grigie, cioè avevano stabilito legami di amicizia e di solidarietà con genti di cultura retoromancia e italiana; le Valli italiane dei Grigioni s’erano ingrandite – quanto a importanza di latinità – con l’acquisto grigionese della Valtellina, di Chiavenna e di Bormio. Ora, mentre queste ultime terre andarono perdute dopo il 1797, cioè al tempo della prima campagna napoleonica, le contrade del Ticino rimasero “signoria” dei Confederati fino al 1798, quando decisero di liberarsi, ma di rimanere tuttavia con gli antichi signori e padroni.
“Liberi e Svizzeri” risuonò il motto dei Luganesi prima, degli altri Ticinesi poi, e la decisione non cessa di stupire lo straniero che si chini sulla storia delle nostre contrade; i Ticinesi, cioè, preferirono restare, da pari a pari, con le genti d’oltre San Gottardo, diverse per razza, lingua, religione, mentalità, piuttosto che aggregarsi alla Repubblica Cisalpina e ai Milanesi che erano della stessa stirpe e religione, mentalità e costumi, e che parlavano la stessa lingua, anzi lo stesso dialetto. Il generale Bonaparte, che aveva consentito il distacco della Valtellina dai Grigioni, approvò invece la decisione del Ticino, forse per non inimicarsi gli Svizzeri dai quali si proponeva (come il Delfino del Quattrocento, come Francesco I° nel Cinquecento) di trarre soldati per le sue avventure in Europa. Le terre ticinesi rimasero dunque svizzere. Nel 1803, anzi, proprio per la Mediazione del Primo Console di Francia, divennero Cantone, cioè Stato autonomo e indipendente.
Da allora, il Ticino seguì la sorte del resto della Svizzera, ma consapevole del proprio destino e intento a costruire il proprio apparato statale sul modello degli altri Stati confederali.
L’Atto di Mediazione di Napoleone Bonaparte nel 1803 permise, quindi, al Ticino l’entrata nella Confederazione Svizzera come “cantone sovrano”. Napoleone pretese però che la Svizzera mettesse a disposizione da 18’000 a 12’000 soldati (la Division Suisse) per il suo esercito.
Contingenti ticinesi, circa 600 uomini,furono incorporati nell’esercito francese e se ne ha particolarmente memoria nella campagna di Russia del 1812 di Napoleone, soprattutto per il passaggio del fiume Beresina, gelato nel freddo inverno russo.
Per un giorno intero, 1’300 soldati svizzeri riuscirono a coprire la ritirata francese dall’impeto di 40’000 soldati russi, mentre il resto dell’esercito francese (o ciò che ne era rimasto) attraversava il fiume su pontoni.
Il numero dei caduti svizzeri fu molto alto, solo 300 soldati sopravissero, ma i francesi furono salvati dalla sconfitta totale.
Qui gli Svizzeri dimostrarono la loro bravura, capacità e resistenza da montanari, comportandosi da veri eroi.
Solo la disastrosa campagna di Russia costringe l’imperatore a ritirare dalla Svizzera le truppe d’occupazione salvando il Ticino.
Malgrado un Ottocento tutto trascorso da traversie e da difficoltà – l’incessante lotta tra i suoi due partiti “storici”, con intemperanze d’ogni sorta; l’inimicizia di talune potenze straniere che lo occuparono militarmente, come avvenne tra il 1810 e il 1812 per opera del Regno Italico di Napoleone e di Eugenio Beauharnais, o lo angariarono in ogni modo, come fece l’Impero Austro-Ungarico; la trasformazione della Confederazione in Stato federativo che tolse al Cantone la direzione della sua politica doganale ed economica, isolandolo crudamente tra la frontiera politica e la barriera delle Alpi – malgrado tante traversie e difficoltà, ripetiamo, il Ticino riuscì a costruire il suo edificio statale e a rivaleggiare con i più anziani Cantoni che godevano di ininterrotta libertà e di un assetto economico secolare.
La particolarità del Ticino di unico Stato di lingua e cultura italiane libero e autonomo in Europa che gli consentì di dare un aiuto tanto considerevole alla causa della libertà e dell’unità italiane; la partecipazione del Ticino (Stato e popolazione) alla vicenda del Risorgimento è la grande pagina della sua storia.
Per fare un solo esempio, basti ricordare l’aiuto che dette il Canton Ticino, (sfidando coraggiosamente le probabili ritorsioni austriache), al principio della seconda guerra d’indipendenza italiana, alla costituzione del corpo dei Cacciatori delle Alpi, volontari posti sotto il comando di Garibaldi, che avrebbe fiancheggiato l’esercito piemontese contro gli austriaci, al fine di liberare la Lombardia. Ricordiamo infatti che, nel 1859, in Piemonte, divenne corposo l’afflusso di fuoriusciti dai vari Ducati, dal Lombardo-Veneto, dal Trentino, in gran parte desiderosi di essere arruolati sotto la bandiera del Re di Sardegna. Si giunse, nel mese di giugno, dopo lo scoppio della guerra, a quasi 40 mila unità.
Nelle sue memorie Garibaldi ricordò la tipica marcia dell’esule dal Lombardo-Veneto: essa passava per la via di Como, lungo i sentieri del contrabbando, guidati dagli spalloni. Entrati nel compiacente Canton Ticino, retto da un governo liberale vicino al Cavour, passate Lugano e Magadino, da Locarno gli esuli venivano trasportati gratuitamente sui vaporetti fino ad Arona per poi proseguire in treno sul territorio piemontese, fino a Torino Porta Susa. Vedi wikipedia
Non può essere sottaciuta l’emigrazione artistica di costruttori, impresari, architetti, artisti che lasciarono in ogni parte d’Europa – da Mosca e da San Pietroburgo (Leningrad) fino alla Spagna, dal Mare del Nord alla Sicilia e a Costantinopoli, ma sopra tutto in Italia, le testimonianze d’una straordinaria genialità e, quasi, di un naturale, prodigioso istinto del costruire.
Allo Stato federativo svizzero, il Ticino ha offerto statisti di vasta operosità e di eccezionale talento, quali Stefano Franscini e Giuseppe Motta; ha offerto e offre scrittori, uomini di scienza, economisti, docenti universitari, magistrati d’alto valore. Dal punto di vista svizzero, si deve quindi salutare con particolare soddisfazione la politica gottardista dei cantoni centrali, che permise la formazione di una Svizzera italiana (Ticino e Valli grigionesi) e, con ciò, la configurazione di una Svizzera quadrilingue, di diverse stirpi e fede religiosa, e tuttavia unita nell’ideale della volontaria collaborazione pacifica, cioè nell’affermazione della ragione e della buona volontà sulle passioni e sugli altri elementi irrazionali.
E che cosa rappresenta per la Svizzera italiana, il fatto di essere parte integrale della Confederazione? Vantaggi d’ordine politico che nessuno può dimenticare: quasi cinque secoli di pace ininterrotta; l’esigenza di un certo livello economico di esistenza; una provata educazione democratica (che si vorrebbe dire frutto d’esperienze secolari) che è disciplina e anche senso di solidarietà tra le classi sociali, che in Svizzera non sono separate da abissi come altrove, ma tendono a un livello di media prosperità; di più, dal punto di vista svizzero, la condizione del Ticino gli ha conferito l’impegno, e però anche il vantaggio, di essere uno “Stato”, se anche non più interamente sovrano, sempre però indipendente e largamente autonomo; questo vuol dire, ancor oggi, certa libertà di movimenti e dovere di emulazione con gli altri Stati confederati, e doveri in genere, obbligo di serio lavoro per sviluppare istituti civili, raggiungere posizioni materiali, conservare dignità di Cantone, anzi di “Svizzera italiana”.
La comunanza etnica e culturale con la gran madre, l’Italia, oltre a dargli l’orgoglio di un’antichissima e umanissima civiltà, il ricordo di mezzo secolo di collaborazione al Risorgimento, gli affida poi delle responsabilità particolari, e dovrebbe dargli, altresì, una sensibilità particolare.
Georg Thürer
Guido Calgari
Le popolazioni — di etnia celto-longobarda*, di cultura e lingua italiane (**), di natura indipendente e di radicata tradizione democratica, di questa regione del Nord della penisola italiana — si opposero con le armi, alla fine del ‘700, all’annessione alla Repubblica cisalpina, di ispirazione giacobina, quasi presagissero l’evolversi di quella Repubblica, centralista sul modello francese, succube di Napoleone, nell’avventuroso e bellicoso Regno italico di Eugenio Beauharnais.
(*) I Longobardi furono i portatori di un preciso e fiero costume di libertà che si estrinsecava nella assemblea deliberante e politicamente responsabile degli arimanni, dei liberi e guerrieri, dei liberi e forti.
(**) il ticinese è dialetto lombardo.
Quell’eroica resistenza* (iniziata a Lugano il 15 febbraio 1798, guidata da due avvocati conservatori di Ponte Tresa: Annibale Pellegrini e Angelo Stoppani), fu valutata nel 1803 nell’Atto di Mediazione di Napoleone** (allora Primo Console della Repubblica Francese, e Presidente della Repubblica Italiana), e risparmiò il Ticino, nella seconda metà dell’800, dall’essere successivamente annesso al Regno d’Italia, voluto dalla Casa di Savoia sul modello unitario e centralista francese, Dinastia che trascinò il Paese conquistato, pressoché l’intera penisola italiana, verso una disastrosa politica di potenza e di espansione
(*) L’opzione elvetica non era un rinnegamento dell’italicità, bensì una scelta consapevole per difendere spazi d’autonomia in una Svizzera plurilingue.
Linguaggio ed identità nazionale non costituiscono una invariabile equazione. Unicità di lingua: mito giacobino che ha omologato e distrutto le minoranze linguistiche in molti Paesi europei.
“Liberi e Svizzeri”: Pellegrini e Stoppani avevano capito che la libertà svizzera non era evidentemente la libertà francese. Essi rigettarono, come tuttora rigettano i loro discendenti, l’uniformità, la centralizzazione della visione razionale giacobina voluta a Parigi.
La visione giacobina francese è riuscita a dominare anche l’attuale Unione europea, imponendo i valori dell’indivisibilità e dell’uniformità:
Un paradiso burocratico” dove tutti i bambini studiano lo stesso soggetto alla stessa ora in ogni scuola, dove tutte le banane hanno la stessa curvatura, e regole uniformi stabiliscono la quantità di grasso vegetale presente nel cioccolato, dal Circolo Artico ai Stretto di Gibilterra”. (Jonathan Steinberg, University of Pennsylvania)
Questa visione di uniformità perfetta ha plasmato gli acquis communautaire” applicata in ogni stato dell’Unione, imposta nella sua interezza ad ogni membro potenziale”.
Questo prezzo la Svizzera, per il diritto di appartenenza all’Unione europea, non è disposta a pagarlo neppure ora.
I Ticinesi dissero nuovamente no (85%), nelle votazioni del Marzo 2001, alla libertà francese (negoziazione per l’adesione immediata all’UE), come i loro antenati due secoli prima.
(**) Nel 1803, Napoleone ridisegna la Svizzera: il Primo Console assegna al paese una nuova Costituzione e ridefinisce – una volta di più, ma con successo duraturo – i confini interni.
Sei regioni ottengono lo statuto di cantoni a pari diritti: Argovia, Grigioni, San Gallo, Ticino, Turgovia e Vaud.
Il nuovo ordine rappresenta un tentativo d’equilibrio fra la tradizione aristocratica dell’antica Confederazione e gli ideali rivoluzionari francesi.
I Savoia pare si fossero dimenticati della avveduta e saggia azione e lezione politica di un grande uomo di Stato, Camillo Benso [1], conte di Cavour, (svizzero, sarebbe oggi con la legislazione attuale, per parte di madre*), che aveva per loro realizzato l’unificazione della Penisola sotto la corona sabauda.
(*) La madre, Adèle de Sellon ( 1846), era Ginevrina.
I Ticinesi, grazie alla eroica resistenza ed alla volontà espressa nel 1798, non subirono le avventurose imprese del Regno sabaudo. I Savoia, infatti, conquistata la corona d’Italia (*), dichiararono rovinose, sanguinose, anacronistiche ed, in definitiva, infruttuose e velleitarie guerre d’avventura, non solo coloniali, invece che dedicarsi alla modernizzazione del Paese conquistato, mediante la scolarizzazione delle plebi e la costruzione di infrastrutture civili.
(*) Forse non è pienamente condivisibile l’indignazione di Antonio Gramsci (in “Ordine Nuovo”, 1920) laddove scrisse che “lo stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri, che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”.
Tuttavia non si può che censurare il sistematico ricorso alla repressione militare (“Legge Pica” del 15 agosto 1863) dei fenomeni di ribellione, ché altro non era, il brigantaggio, che una questione ardente agraria e sociale, che doveva essere affrontata nelle sue cause, rimuovendo le ingiustizie e le arretratezze, e promuovendo lo sviluppo, e non già con la repressione e le fucilazioni, o con il cannoneggiamento di Milano (dal 6 al 9 maggio 1898) da parte del gen. Bava Beccaris. (Le fonti ufficiali registrarono più di 80 morti e 450 feriti, oltre duemila arresti e 823 processi davanti ai tribunali militari). Il canto, scritto in seguito ai fatti di Milano, è noto col titolo “Il feroce monarchico Bava”. Ma si sa che violenza chiama violenza. Uno sconosciuto anarchico (Bresci) venuto dall’America già preparava nell’ombra la vendetta: due anni dopo, a colpi di pistola, crederà di vendicare i morti di Milano uccidendo il re.
Dopo la disfatta terrestre di Custoza [2] e la disfatta navale dell’ammiraglio Persano a Lissa contro la flotta austriaca al comando dell’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, (1866, guerra che, comunque, consentì l’annessione del Veneto al Regno sabaudo), vollero la conquista (risultata effimera) dell’Eritrea, dell’Abissinia, della Libia, dell’Etiopia, della Somalia, dell’Albania, ecc.
E successivamente, nella prima metà del ‘900, il Canton Ticino, democratica e libera Repubblica, non dovette subire le vicende tragiche dei propri fratelli italiani, sudditi del Regno sabaudo. Il re Vittorio Emanuele III di Savoia, infatti, trascinò i propri sudditi nelle immani tragedie della prima e della seconda guerra mondiale, mostrando altresì acquiescenza alla ventennale dittatura fascista [3], ed all’intervento nella guerra di Spagna, promulgando finanche le infami leggi razziali.
D’altra parte non può non ritenersi che quanto accadde nei solo 86 anni di regno sull’Italia non fosse che la inevitabile conseguenza della bellicosa natura dei Principi di Savoia, contro i cui desideri di conquista della Romandìa (in particolare Ginevra e Vaud), i Confederati dovettero combattere per lunghi secoli nel Medioevo.
Sol dopo aver, gli Svizzeri, imposto, con le armi, il rispetto della propria sovranità, nel corso dei secoli, intervennero stretti vincoli militari (capitolazioni)* tra i Cantoni e Casa Savoia [4].
(*) Le truppe, spesso definite con tono dispregiativo mercenarie, venivano assoldate sulla base di accordi diplomatici ben definiti, stipulati tra i Cantoni di provenienza e la Casa di Savoia e chiamati «capitolazioni militari».
I Savoia, quindi, non essendo riusciti ad espandere il proprio dominio ad Oriente, l’Elvezia, si volsero verso Sud, occupando, nei secoli, prima la Valle d’Aosta e poi il Piemonte, le cui popolazioni risultarono di più agevole asservimento [5].
Essi trasferirono la propria capitale, sistematicamente, nel territorio conquistato, parendo dimenticarsi della patria dei propri avi, e dei sudditi che, via via, avevano consentito loro la realizzazione della nuova conquista.
E così, successivamente, da Torino questi monarchi trasferirono la propria capitale a Firenze e quindi a Roma, barattando addirittura la madrepatria, la loro culla di origine, la Savoia, con la Francia, pur di estendere il proprio Regno
Emblematicamente Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia, per palesemente attestare il suo ruolo di “conquistatore”, continuò a chiamarsi coll’ordinativo “II”, calendosene punto dei sentimenti di molti Patrioti del Risorgimento, anche Meridionali, che avevano combattuto per la “Libertà” e la “Unità” e non per darsi un altro monarca.
I Ticinesi quindi non si lasciarono lusingare, durante il periodo fascista*, dai richiami secessionisti – sostenuti dalla becera ostentazione della “grandezza” dell’Impero, “rinato sui colli fatali di Roma….” (con foto di Mussolini, su cavallo bianco, che brandisce la spada dell’Islam….) – richiami provenienti dal Regno d’Italia, la cui legislazione li ha definiti “Italiani non regnicoli” (1), ed oggi, col mutamento della forma istituzionale, “Italiani non appartenenti alla Repubblica”, corpus ordinamentale che li parifica agli Italiani nei diritti d’accesso alle Università**, pubblico impiego ed alle professioni, non considerandoli stranieri***, e quindi, tra l’altro, escludendoli (art. 4) dalle discriminazioni, per esempio in materia matrimoniale, previste dal, non più vigente, Regio Decreto legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, art. 4 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), ecc.
(*) alle elezioni del 1935 i due partiti di estrema destra ticinesi, complessivamente, non raggiunsero il 5% dei suffragi. Fée;dée;ration Fasciste Suisse: 1,2% alle cantonali del Ticino (1935).
(1) quelli cioè che, pur non avendo la cittadinanza italiana, siano originari di territori etnicamente italiani, ma politicamente non facenti parte del Regno (Circolare N. 9270/ Demografia e Razza del Ministro dell’Interno del 22 Dicembre 1938).
(2) (**) R.D. 31 agosto 1933, n. 1592; R.D. 4 giugno 1938, n. 1269; Legge 19 gennaio 1942, n. 86, ecc.
(3) (***) R.D. 18 giugno 1931, n. 773 T.U.L.P.S (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) art. 150, recante il divieto d’espulsione dal regno; R.D.; 30 settembre 1938, n. 1706 (Autorizzazione ad aprire ed esercitare una farmacia); R.D. 21 aprile 1942, n. 444 (accesso in Magistratura nel Consiglio di Stato), ecc. ecc.
I Ticinesi (Rezzonico) risposero pacatamente, allora, con il libro: “Gli Svizzeri a Roma”.
Chi sono gli artefici dell’attuale assetto urbanistico della Città Eterna? A parte il romano Bernini, fenomeno isolato, i principali architetti della Roma papale sono ticinesi, quindi svizzeri: il Borromini, il Longhena, i due Fontana, il Maderna, loro nipote, Domenico Rossi……
Il libro documenta il tutto con dovizia di fotografie lasciando intendere che si dovrebbe parlare di riunione di Roma al Ticino, e non del contrario….
La tradizione di terra d’asilo è stata onorata, con mille difficoltà, nell’ ‘800 e nel ‘900, dando accoglienza ad uomini di ogni idea e nazionalità; da Federico Confalonieri a Giuseppe Mazzini, da Mikhail Bakunin a Carlo Cattaneo, Karl Marx, Andrea Costa, Carlo Cafiero, Anna Kulisciov, Errico Malatesta e Pietro Gori.Sull’emigrazione politica in Ticino di esuli italiani, dopo l’instaurazione sabauda del Regno d’Italia, si veda il libro “Lugano bella, addio” di Maurizio Binaghi.
Ed ancora a Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica italiana, ad Amintore Fanfani e financo ad Edda Mussolini.
Repubblicani o garibaldini, socialisti o anarchici, massoni o irredentisti.
Mille difficoltà giacché in quegli anni il Ticino era strettamente sorvegliato da Berna e spesso anche occupato militarmente.
La Confederazione doveva stare attenta a quanto succedeva in un cantone periferico ma, per la sua vicinanza al Regno d’Italia, centrale da un punto di vista strategico. Per questa ragione, la presenza e l’azione degli esuli nella Svizzera italiana finiva per influire non solo sulla politica cantonale, ma sulle relazioni tra la Confederazione e il Regno d’Italia.
Celeberrima è la canzone “Addio Lugano bella”, scritta nel 1895 da Pietro Gori, in occasione dell’espulsione di anarchici, riparati in Svizzera dopo l’uccisione, per mano dell’anarchico Sante Caserio, del Presidente francese Sadi Carnot.
Con la Repubblica italiana, nata dopo la seconda guerra mondiale coll’unificazione dei territori appartenuti al Regno d’Italia ed alla Repubblica sociale Italiana, (con capitali a Brindisi ed a Salò, rispettivamente), gli attuali rapporti amichevoli e di collaborazione sono tutt’affatto diversi rispetto alla prima metà del ‘900, tanto da far dimenticare le sottili inquietudini, durate decenni, suscitate dalle rodomontiche e del tutto velleitarie mire italiane [6][7] sul Cantone.
E tale irriconoscente protervia del Capo del Governo italiano (Mussolini) nonostante che, nell’aprile del 1904, costui – beneficiando del diritto d’asilo in Svizzera – evitò l’espulsione dalla Svizzera e la galera italiana per effetto di una condanna per renitenza alla leva, grazie all’intervento del Gran Consiglio (Parlamento) e del Consiglio di Stato (Governo) ticinesi [8].
Dopo 50 anni da allora, nel 1997, la Svizzera, non temendo più un’invasione italiana, ha avviato dunque lo sminamento di ponti e viadotti di confine. Tali precauzioni furono necessariamente prese dal governo elvetico in risposta alle rivendicazioni di Mussolini circa l’italianità del Canton Ticino.
Durante la II Guerra mondiale i Ticinesi, correndo rischi personali, offrirono generoso asilo e rifugio agli italiani dei due Stati della Penisola (Regno del Sud e Repubblica sociale di Salò), civili e militari in fuga dalle persecuzioni germaniche, violando le leggi svizzere vigenti, se fu condannato, è oggi pienamente riabilitato. (fonte: Swissinfo)
La città italiana di Domodossola, ai piedi del Sempione, ha inaugurato sabato 2 Ottobre 2004 una piazza dedicata al «Popolo della Svizzera». Nel quadro del 60esimo anniversario della Repubblica partigiana dell’Ossola, la città ringrazia gli Svizzeri per aver accolto migliaia di rifugiati nel 1944. Una piccola piazza del centro di Domodossola ricorda l’aiuto prestato da Vallesani e Ticinesi a migliaia di profughi che erano fuggiti dalle forze italo-germaniche (migliaia di soldati tedeschi, ufficiali SS e «camicie nere» italiane) nell’ottobre del 1944. Tra questi, 2’500 bambini erano stati accolti da famiglie elvetiche. Gli adulti avevano invece trovato rifugio presso strutture della Croce Rossa. «Nel 60esimo anniversario della repubblica partigiana, l’Ossola ricorda il soccorso fraterno e generoso prodigato dagli amici svizzeri», indica la targa commemorativa redatta in italiano, francese e tedesco. (fonte: Swissinfo)
Il passaggio oltre la frontiera elvetica significava la salvezza dalle persecuzioni, dall’odio e dalle barbarie.
Due bimbi rifugiati, con accanto la mappa utilizzata per sfuggire ai persecutori ed agli aguzzini. Il percorso per passare la frontiera verso la salvezza e la libertà fu quello del valico del Gaggiolo, tra la provincia di Varese ed il Canton Ticino.
Nel Paese della Pace e della Concordia finalmente ritrovano la gioia di vivere, lontani dall’orrore delle persecuzioni e della guerra.
Il Ticino ha sempre respinto ogni proposta di apertura all’Unione Europea.
Una delle cause determinanti, se non la principale, è la sua situazione di cantone di frontiera con l’Italia, nazione di cui sente e subisce gli umori e anche ne approfitta. Con una doppia valenza.
Da un lato l’Italia assume la funzione più concreta e visibile di “esempio europeo” ed è un esempio che non entusiasma nessuno: quindi, meglio tenersene fuori. D’altro lato si vive sulla certezza che solamente ciò che è differenza con l’Italia fa il Ticino e può essere utile al Ticino.
Storicamente sono sempre state le disgrazie politiche ed economiche italiane che hanno fatto la fortuna ticinese: fughe dei capitali, disoccupazione e manodopera frontaliera, evasione fiscale, contrabbando, casinò, maggiore efficienza dei servizi, da quelli bancari a quelli attuali sulla fecondazione artificiale ecc…
L’apertura o la liberalizzazione è quindi vista come rischio di omogeneizzazione, fine delle differenze, sicura perdita economica, concorrenza insostenibile, maggiore criminalità. (Silvano Toppi) [10]
NOTE
[1] Cavour ebbe stretti rapporti e relazioni con la Svizzera, e vi soggiornò regolarmente dal 1835 al 1848, ed ebbe amicizie influenti nella Confederazione.
Fu fortemente influenzato dallo zio materno, Jean-Jacques de Sellon, svizzero di Ginevra, che abitava una villa sulle alture di Ginevra, La Fenéetre, col quale era unito da legami di sangue, amicizia ed affinità intellettuale.
Era dei Sellon anche il castello di Allaman, sulla riva destra del lago Lemano. Quando non erano al castello i Sellon villeggiavano e ricevevano gli amici a La Perrière, dove esiste una vecchia sorgente termale.
Per visitarli Cavour doveva attraversare il San Bernardo, scendere sino a Bourg-Saint-Maurice, proseguire per Moîitiers.
I de la Rive, invece, lontani cugini di Cavour, passavano i mesi della villeggiatura a Presinge, un villaggio a nord-est di Ginevra, vicino al confine con la Savoia.
Gli altri zii ginevrini di Cavour, i Clermont-Tonnerre, abitavano a Le Bocage, non lontano da Ginevra, una elegante casa di campagna composta, come un domino, di parti costruite in tempi diversi.
Cavour amava la Svizzera e ne era ricambiato: passando da Ginevra per recarsi a Plombières, fu accolto con ovazioni.
Fu Cavour a volere il trattato di commercio tra Regno di Sardegna e Confederazione Svizzera (1851) poi rinnovato nel 1878 tra il neonato Regno d’Italia e la Svizzera.
[2] Il 1866 è l’anno della terza guerra d’indipendenza, la prima dopo l’unità d’Italia, ed è quella che dovrebbe mostrare la forza militare e il grado di coesione del paese.
L’Italia scende ancora una volta in campo contro l’Austria-Ungheria, a fianco della Prussia. La guerra è stata dichiarata il 20 giugno e solo 4 giorni dopo, il 24, l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza, nei pressi di Verona.
Lo smacco di Custoza non era grave militarmente ma lo era politicamente, perché il giovane Regno d’Italia mostrava la sua inconsistenza nazionale di fronte all’Europa. A questo punto bisognava ottenere una rivincita immediata di Custoza: occorreva una vittoria pronta e convincente e poiché questa vittoria non era in grado di darla l’Esercito, toccava alla Marina.
Una vittoria navale, anziché terrestre sarebbe stato il riscatto. E intervenne, invece, la sconfitta della flotta italiana, al comando dell’ammiraglio conte Carlo Pellion di Persano, a Lissa.
Nella primavera successiva (1867) l’ammiraglio Persano venne messo sotto processo per la sconfitta di Lissa.
L’esercito prussiano a Koniggratz (Sodowa, in Boemia) decideva le sorti della guerra dopo aver battuto l’esercito austriaco. La mediazione di pace di Napoleone III comporterà la cessione del Regno Lombardo-Veneto alla Francia, e successiva cessione del Veneto, dalla Francia, ai Savoia.
[3] Dittatura conclusasi con un “golpe” (colpo di stato) del re Vittorio Emanuele III che fece arrestare dai Carabinieri reali l’inerme Mussolini (allora capo del governo) il 25 Aprile del 1943 durante una visita protocollare di questi a Villa Savoia, dimora privata del re, in Roma, violando, il monarca, i più elementari e sacri doveri dell’ospitalità;.
[4] Truppe svizzere furono al servizio dei Principi di Casa Savoia, sia quando erano sovrani di terre al di là dei monti, sia dopo.
Dal 1241 (prima alleanza di Berna con Amedeo IV) al 1814 (ultima capitolazione di Vittorio Amedeo I con i Grigioni) sono 23 le capitolazioni firmate ed una trentina i reggimenti forniti dai Cantoni: altrettanti i generali.
Gli Svizzeri, quando combattono, combattono per davvero. Numerosi sono i fatti d’arme: la Madonna dell’Olmo, la guerra delle Alpi, ecc.
Dal 1609 i 100 Svizzeri formano la guardia personale del Duca, che tale resta fino al 1832, ultima delle truppe capitolate ad essere sciolta: resta in loro ricordo il salone degli Svizzeri nel palazzo reale di Torino. Gli ultimi sette abati di San Gallo (1654-1796) vengono tutti insigniti dell’Ordine Supremo della SS. Annunciata. Antica amicizia e probabile riconoscenza per i molti reggimenti forniti dagli Abati ai Savoia…
[5] E’ nota la vocazione tradizionalmente monarchica di queste popolazioni.
Sembra riscontrarsi un apparentamento con il “plaisir de servir” tipicamente francese, tanto che, ancor oggi, non è infrequente leggere necrologi sulla Stampa di Torino nei quali il defunto veste ancora la livrea, rectius la tuta, essendo qualificato orgogliosamente “Anziano FIAT”.
[6] ….. perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, ………., a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza – Discorso di Bologna del 3 Aprile 1921
[7] E, alla Camera dei Deputati del Regno d’Italia, dopo essersi doluto che il confine del Regno d’Italia non giungesse sino alle Alpi (per proteggere (sic!) Milano), il futuro duce degli Italiani proseguiva – tra gli applausi – affermando che “……ma d’altra parte in questa Camera e fuori tutti sanno che nel Canton Ticino, che si sta tedeschizzando e imbastardendo, affiora un movimento di avanguardie nazionali, che io segnalo e che noi fascisti seguiamo con viva simpatia”. Camera dei Deputati del Regno d’Italia – 21 giugno 1921.
8] Nell’aprile del 1904, Mussolini, ancora a Chiasso per essere espulso in Italia, viene “graziato” dall’indulgenza del Consiglio di Stato ticinese.
In Italia l’attendeva una sicura pena per renitenza alla leva.
Mussolini trascorre i primi mesi del 1904 tra Ginevra e Annemasse (Alta Savoia), occupandosi di attività politica, sindacale e giornalistica: comizi, conferenze, corrispondenze a riviste socialiste e anarchiche.
Frequenta anche la Biblioteca universitaria, dai cui registri risulta che abbia consultato soprattutto trattati sulle malattie veneree.
Giuridicamente, la sua posizione si fa precaria. In Italia è ricercato per renitenza alla leva; in Svizzera è schedato come sovversivo e sorvegliato dalla polizia; per di più il suo passaporto è scaduto e non può chiederne il rinnovo, siccome “disertore”. (fonte: Swissinfo)
Decide allora di falsificare la data di validità del documento, ma le autorità ginevrine non tardano a scoprire l’irregolarità. In aprile viene arrestato e poi espulso dal cantone.
La polizia decide di farlo accompagnare alla frontiera italiana a Chiasso, ciò che avrebbe significato l’arresto da parte delle autorità del Regno.
Contro l’espulsione di Mussolini si mobilitano gli ambienti socialisti e quelli dell’emigrazione italiana in Svizzera. Giuseppe Rensi, intellettuale socialista rifugiatosi in Ticino e in buoni rapporti con vari esponenti liberali-radicali locali, interviene per farlo liberare.
Lunedì 18 aprile 1904, il deputato radicale al Gran Consiglio ticinese Antonio Fusoni interpella il governo “per sapere se la direzione di polizia ticinese si sia restata o meno alla consegna al confine italiano di certo Mussolino (sic), stato espulso dal cantone di Ginevra”.
L’interpellante trova scorretta la consegna di Mussolini all’Italia: la renitenza al servizio militare essendo un delitto politico, simile espulsione violerebbe il diritto d’asilo.
Evitata la galera
Il consigliere di Stato Luigi Colombi, responsabile del dipartimento di polizia, rassicura l’interpellante.
Avendo avuto conoscenza per via indiretta dell’espulsione ordinata dalle autorità ginevrine “e sapendo non procedere la medesima da nessuna condanna per reato comune”, la direzione di Polizia “diede istruzioni ed ordini nel senso che detto signore non venne né consegnato, né tradotto al confine, ma lasciato libero di scegliere, per abbandonare il cantone e la Svizzera, quella via che più gli convenisse”.
Così, nel 1904, alcuni esponenti politici ticinesi, decisi a far rispettare il diritto d’asilo in Svizzera, anche contro il volere di altre autorità cantonali, evitarono al disertore ed agitatore Benito Mussolini un sicuro soggiorno nelle galere italiane. Sia consentita un’ossrvazione: a testimonianza di riconoscenza, Mussolini si determinò, nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, ad invadere il Ticino, facendo predisporre dal gen. Mario Vercellino il piano di invasione. Non lo fece perchè si rivolse contro la Grecia, con i risultati disastrosi che sappiamo.
[9] La legge per l’annullamento delle sentenze pronunciate nei confronti di coloro che hanno aiutato le vittime delle persecuzioni naziste prevede un doppio meccanismo.
Da un lato tutte le sentenze sono annullate, dall’altro la legge istituisce una commissione a cui è possibile rivolgersi per ottenere l’annullamento di una specifica sentenza.
[10] – 21 maggio 2000: il Ticino respinge con il 57% di no gli Accordi bilaterali – 5 giugno 2005: il Ticino respinge con il 61,9% di no gli accordi di Schengen/Dublino – 25 settembre 2005: Il 63.9% dei votanti ticinesi hanno bocciato l’estensione della libera circolazione ai nuovi membri dell’UE.
https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png00MrzOrgUserAdminhttps://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.pngMrzOrgUserAdmin2016-07-28 13:53:312020-02-25 10:21:35La Svizzera italiana
Tell nel mondo: simbolo di libertà o terrorista?
Guglielmo Tell, l’eroe nazionale svizzero, ha acquisito valore politico e culturale, quale simbolo di libertà, ben oltre i confini della Confederazione.
Ma nella figura di Tell molti governi hanno anche intravisto una minaccia personale, e l’hanno quindi bandita dalla cultura e dalla politica.
Nella «via cava», Gugliemo Tell uccise il balivo Gessler con un preciso tiro di balestra: fu assassinio o legittima difesa?
Mentre gli uni considerano quello di Tell come un gesto morale di liberazione dall’ingiustizia, per altri non è che un assassinio a tradimento, simbolo di ingiustizia. «Per questo», spiega Katharina Mommsen, studiosa di letteratura tedesca, «la figura di Tell è sempre in bilico tra quella di un eroe e quella di un assassino».
Nel 1789, la rivoluzione francese celebrò Guglielmo Tell quale eroe della libertà. La sua leggenda era perfettamente adatta a giustificare una rivoluzione per cui, rappresentandola spesso sul palcoscenico, fu presto nota ed apprezzata dal popolo.
Nel 1922, truppe belghe e francesi occuparono la Renania e la regione della Ruhr, per fare pressione sulla Germania, che era in ritardo nel pagamento dei risarcimenti stabiliti nel trattato di pace di Versailles.
Le forze francesi d’occupazione proibirono quindi le rappresentazioni del «Tell» a Wiesbaden, Koblenz, Essen e Bochum, a causa delle manifestazioni che suscitavano.
Tell e i nazisti
Anche Adolf Hitler voleva appropriarsi dei contenuti del «Tell», per giustificare i suoi obbiettivi politici. Dopo l’ascesa al potere del «Führer», il «Guglielmo Tell» fu molto apprezzato quale opera drammatica nazionale. Non solo dava corpo al pensiero nazionalsocialista, bensì anche al suo concetto di una comunità dei popoli e alla figura del condottiero ideale.
Tell il rivoluzionario
Il passaggio allora più citato era quello del giuramento del Grütli, che avrebbe dovuto servire a rafforzare l’unità politica e spirituale della Germania. Il giuramento fu integrato anche nel programma di molte manifestazioni e riunioni politiche.
Ma accanto a Tell, i nazisti citavano anche Stauffacher quale figura di condottiero. L’allora capo della propaganda del Reich, Joseph Goebbels, adattò il dramma di Schiller per i propri bisogni: «Il popolo oppresso deve obbedire con ferrea autodisciplina al condottiero della sua stessa stirpe e della sua stessa razza, come gli Svizzeri al saggio e lungimirante Stauffacher.»
Improvviso scetticismo
In seguito ai vari attentati falliti contro Hitler, tra cui anche quello di uno svizzero, il «Führer» si preoccupava per la sua sicurezza. E improvvisamente il «Guglielmo Tell» non fu più tanto apprezzato, poiché nel dramma l’uccisione del tiranno, nelle vesti del balivo Gessler, viene celebrata in lungo e in largo.
Non destò quindi sorpresa l’ordine del 3 giugno del 1941: «Il Führer desidera che l’opera teatrale di Schiller “Guglielmo Tell” non sia più rappresentata».
Con questa decisione, per il pubblico tedesco il «Guglielmo Tell» di Friedrich Schiller cessò di esistere. Il «Tell» fu così l’unico testo classico tedesco colpito da un divieto di rappresentazione e di lettura sotto il regime nazista.
Eroe della libertà o terrorista?
Anche i rivoluzionari russi si rifecero a Guglielmo Tell. Per tentare di opporsi all’estradizione del rivoluzionario Nechaev voluta dal governo degli Zar, Michail Bakunin si appellò a Guglielmo Tell, «l’eroe dell’assassinio politico».
Nonostante l’abolizione della monarchia in molti paesi, la soppressione dei tiranni non è passata di moda. Anzi, in relazione al termine di «terrorismo», il tema di Guglielmo Tell rimane più che mai attuale.
La lotta dei terroristi è rivolta contro governi che opprimono parte del popolo. E così ci sono governi che definiscono volentieri la resistenza quale terrorismo. In quest’ottica, la tematica della soppressione dei tiranni è tuttora al centro delle discussioni.
Tell rimane per gli uni un terrorista, per gli altri è un combattente per la libertà. Per gli austriaci, Guglielmo Tell era certamente un terrorista. Per gli inglesi nella Palestina degli anni 40, Menachem Begin e Ytzhak Shamir, dirigenti di organizzazioni clandestine, erano pure terroristi. Ma, ironia della sorte, entrambi ricoprirono in seguito la carica di primo ministro di Israele.
Perciò non deve stupire, se gli estremisti palestinesi che nel 1969 tirarono su un aereo della compagnia israeliana El-Al all’aeroporto di Zurigio, si rifacevano esplicitamente a Guglielmo Tell.
Nell’immagine che ce se ne fa in giro per il mondo, Tell, il semplice cacciatore e contadino urano, incarna sia la figura dell’apostolo della libertà dei popoli, sia quella del terrorista.
swissinfo, Etienne Strebel (traduzione: Fabio Mariani)
CONTESTO
Attraverso i secoli, la leggenda di Guglielmo Tell ha trovato apprezzamenti, ma anche decisa opposizione da parte dei potenti. Spesso la lettura del mito veniva adattata alle necessità locali.
L’uccisione del balivo Gessler era, secondo il caso, ritenuta un cattivo esempio, un’istigazione alla rivolta e al tirannicidio.
Ancora nel Ventesimo secolo, l’esempio storico di Tell veniva collegato al terrorismo sovversivo. Si tratta di una questione di prospettiva e illustra simbolicamente il filo sottile che divide lotta per la libertà e terrorismo.
La storia del San Gottardo – Dal Ponte del Diavolo ad Alptransit
foto tratte dal sito della Scuola media di Breganzona TI
Indice:
1. Il Ponte del Diavolo
2. La Buca d’Uri
3. Animali da soma nel XVIII secolo
4. La Tremola
5. La diligenza
6. La Gotthardbahn
7. L’elettrificazione della linea
8. L’autopostale
9. La nuova strada del passo
10. Il tunnel autostradale
1. Nel XIII secolo nasce la “Twerrenbrücke” per superare le gole della Schöllenen, sostituita poi dal vecchio e dal nuovo Ponte del Diavolo (1830), qui attraversato dalla diligenza.

2. Nel 1707-1708 viene aperta al transito la “Buca d’Uri” tra Göschenen e Andermatt, qui in un quadro del 1790

3. Raffigurazione del passaggio sulla mulattiera con gli animali da soma sul passo del San Gottardo nel XVIII secolo, durante la stagione invernale.

4. 1830: apertura della strada carrozzabile, qui sul versante ticinese: la vecchia Tremola, una vera e propria concentrazione di pericoli, in una fotografia scattata nel 1930.

5. Con la carrozzabile, viene anche inaugurato il servizio di diligenza del San Gottardo, qui raffigurata all’uscita dal villaggio di Hospenthal nel 1843.

6. Il 1º giugno 1882, viene aperta la galleria ferroviaria: qui il treno inaugurale.

7. Tra il 1919 ed il 1924, avviene l’elettrificazione della linea ferroviaria che è ancora oggi quella di allora. Nell’immagine una locomotiva Be 4/6 del 1920.

8. Nel 1926 l’autopostale prende il posto dell’ormai vetusta diligenza…

9. 1970: rimodernamento del tracciato del passo del San Gottardo con l’apertura della nuova strada che si affianca alla Tremola.

10. Il 5 settembre 1980 si inaugura il traforo autostradale.

11. AlpTransit: per ora è un’immagine virtuale del grande salto di qualità che è previsto per la ferrovia che tornerà ad essere competitiva con l’automobile, forse dal 2010.

Il Passo del San Gotttardo ( in Inglese Saint Gotthard, francese Saint-Gothard, tedesco Sankt Gotthard ) è un elevato valico alpino svizzero che mette in comunicazione Airolo nel Canton Ticino e Andermatt nel cantone Uri; in senso lato costituisce un collegamento tra la parte settentrionale della Svizzera, di lingua tedesca, e la parte italiana della confederazione, aprendosi sulla strada che porta a Milano. Sebbene la via fosse conosciuta sin dalla più remota antichità, iniziò ad essere praticata solo dal XIII secolo. Il principale ostacolo lungo il percorso era costituito dalla Schöllenen Gorge, una stretta ed impervia gola scavata dal fiume Reuss sopra Andermatt, solitamente travolta dalle nevi sino nella bella stagione inoltrata. Secondo le tradizioni orali dei paesi limitrofi, questo punto cruciale causava diversi decessi ogni anno, nel tentativo di raggiungere la sommità del San Gottardo. Il ponte che venne edificato sul Reuss venne denominato “Ponte del Diavolo” in quanto, narrano le leggende, pare essere stato costruito dal Demonio in persona! Il viadotto aprì la possibilità di seguire il corso del Reuss sino alle sue sorgenti e di salire sul colle sovrastante; esattamente sullo spartiacque continentale tra il Reno che scorre verso il Mare del Nord e il Po che si tuffa nel Mediterraneo. Il passo vide effettuarsi solo spostamenti a piedi o tramite animali da soma sino al 1775, quando la prima carrozza riuscì a compiere il percorso su di una strada notevolmente migliorata. Già dal 1236 il valico fu dedicato al bavarese San Gottardo di Hildersheim.
Nel 1882 venne inaugurato un tunnel ferroviario lungo 15km che passa al di sotto del massiccio, per la realizzazione del quale si sacrificarono 177 vite degli operai impiegati nell’opera; nel 1980 venne aperta un’altra galleria, questa volta stradale, lunga 17km al costo, anch’esso impressionante di 53 morti. Al momento è in costruzione un secondo tunnel ferroviario, la “Galleria di Base del San Gottardo”: quando sarà ultimata diverrà la galleria più lunga del mondo e misurerà 57km. Quest’ultimo tunnel in combinazione con altri due, più corti, nei pressi di Zurigo e Lugano ridurrà di un’ora il tempo impiegato per percorrere il tratto Milano-Zurigo (attualmente 3h e 40min).
STORIA
In epoca Romana, pur essendo il percorso attraverso il San Gottardo il più breve per superare le Alpi, furono altre le vie preferite per muoversi verso nord dalla Lombardia. I valichi del Settimo e del Lucomagno erano molto più adatti al trasporto di merci soprattutto in quanto dotate di una strada carrabile, mentre il Gottardo poteva essere superato solo a piedi o con animali da soma; considerando che un mulo poteva trasportare circa un terzo della merce di un carro risulta chiaro come il Settimo e Lucomagno potessero essere preferiti nonostante costringessero i passanti a percorrere una lunghezza quasi doppia. Inoltre la via del Gottardo presentava degli ostacoli notevoli sia sul versante italiano, in Leventina, che su quello svizzero con la già citata gola di Schöllenen. Nel XII sec. i Walser valicando il Passo della Furka giunsero in vall’Orsera, una piccola vallata a monte dell’impervia gola e con le loro tecniche, avanzatissime per il tempo, edificarono il Ponte del Diavolo sul Reuss, nonché una passerella di una sessantina di metri sospesa sulla viva roccia che apriva l’accesso al ponte. Con queste realizzazioni il passo assunse un’importanza europea e divenne determinante per le popolazioni dei due versanti. A metà del XIII sec. il passo compare nel Annales Stradenses, una sorta di guida per i pellegrini che dal nord Europa intendono raggiungere Roma ed in quegli anni, più precisamente nel 1230, vengono edificati una cappella dedicata a San Gottardo ed un ospizio: il quarto. A questo punto il valico era dotato di un’adeguata rete di assistenza ai viandanti. Le vallate a meridione avevano ottenuto la totale libertà dai signori locali, sancita dal Patto di Torre del 1182: le comunità di Blenio e Leventina si allearono ed ammisero come unica autorità quella della Chiesa. Le comunità a nord del passo, invece, riuscirono ad ottenere la libertà dai vincoli con gli Asburgo, ponendosi sotto la diretta giurisdizione imperiale, grazie al denaro ricavato dai traffici lungo il Gottardo. In questa situazione le popolazioni locali detenevano l’effettivo controllo sul valico; ciò costituiva una grande fonte di ricchezza, ma anche un notevole dispendio di risorse per mantenere agibile la strada in tutte le stagioni. A nord si andò formando la Lega Svizzera che dal 1439 al 1803 riuscì a dominare anche la Leventina, sotto controllo del cantone Uri, e quindi del lato italiano del Gottardo. In quel tempo il colle era denominato La via delle genti delineando bene quale fosse la sua funzione: un percorso molto comodo per le persone, ma non per le merci. Secondo dei dati giunti ai giorni nostri e che coprono il periodo tra il 1498 ed il 1502 transitavano sul San Gottardo 170 tonnellate di merci annue, mentre attraverso il Brennero si era già a 4500t. Nel 1708 si ebbe un sostanziale miglioramento allorché venne costruita una galleria di 60m presso la gole di Schöllenenche facilitava di molto l’accesso al ponte rispetto alla passerella costruita 500 anni prima. Nel 1775 venne documentato il primo transito di una carrozza, ma nei tratti più difficoltosi si dovette ancora smontare il mezzo e trasportarlo a dorso di mulo.
L’unico atto di guerra che ebbe per teatro il ben custodito valico avvenne nel 1799, durante le guerre napoleoniche, quando l’armata russa del maresciallo Aleksandr Vasil’evic Suvorov valicò il passo e si scontrò con Francesi nelle gole della Reuss.
Lo scontro avvenne al “Ponte del diavolo” e solo con il sacrificio di più di mille cosacchi Suvorov riuscì a scendere ad Altdorf.
Avuta la notizia della sconfitta dei Russi del generale Korsakov a Zurigo inflitta dal generale Masséna, attraverso le Alpi e dovette ritirarsi fino all’alto Reno e nel Vorarlberg.
quadro dipinto da Vassili Surikov nel 1899. (Museo di Stato, San Pietroburgo)
Alcuni ufficiali russi rendono omaggio al monumento dedicato a Suvorov,ad Andermatt (Canton Uri)(2007)
Nel XIX sec avvenne il grande salto di qualità con la costruzione di una vera e propria carreggiata larga di almeno 5 metri lungo tutto il percorso e di un nuovo ponte alla Gola del Diavolo. Dopodiché avvennero le costruzioni dei tunnel: la galleria ferroviaria, lunga 15km, venne edificata tra il 1872 e il 1882; un secolo dopo, nel 1980, toccò alla galleria autostradale di 17 km ed oggi è in corso d’opera la realizzazione di una seconda galleria ferroviaria da ben 57km che dovrebbe essere pronta per il 2015.
Dell’arte della guerra – Niccolò Machiavelli
Libro terzo
COSIMO Poichè noi mutiamo ragionamento, io voglio che si muti domandatore, perchè io non vorrei essere tenuto presuntuoso; il che sempre ho biasimato negli altri. Però io depongo la dittatura, e do questa autorità a chi la vuole di questi altri miei amici.
ZANOBI E’ ci era gratissimo che voi seguitassi; pure, poichè voi non volete dite almeno quale di noi dee succedere nel luogo vostro.
COSIMO Io voglio dare questo carico al signore.
FABRIZIO Io sono contento prenderlo, e voglio che noi seguitiamo il costume viniziano: che il più giovane parli prima, perchè, sendo questo esercizio da giovani, mi persuado che i giovani sieno più atti a ragionarne, come essi sono più pronti a esequirlo.
COSIMO Adunque e’ tocca a voi, Luigi. E come io ho piacere di tale successore, così voi vi sodisfarete di tale domandatore. Però vi priego torniamo alla materia e non perdiamo più tempo.
FABRIZIO Io son certo che, a volere dimostrare bene come si ordina uno esercito per far la giornata, sarebbe necessario narrare come i Greci e i Romani ordinavano le schiere negli loro eserciti. Nondimeno, potendo voi medesimi leggere e considerare queste cose mediante gli scrittori antichi, lascerò molti particolari indietro, e solo ne addurrò quelle cose che di loro mi pare necessario imitare, a volere ne’ nostri tempi dare alla milizia nostra qualche parte di perfezione. Il che farà che in uno tempo io mostrerò come uno esercito si ordini alla giornata, e come si affronti nelle vere zuffe, e come si possa esercitarlo nelle finte. Il maggiore disordine che facciano coloro che ordinano uno esercito alla giornata, è dargli solo una fronte e obligarlo a uno impeto e una fortuna. Il che nasce dallo avere perduto il modo che tenevano gli antichi a ricevere l’una schiera nell’altra; perchè, sanza questo modo, non si può nà sovvenire a’ primi, nè difendergli, nè succedere nella zuffa in loro scambio; il che da’ Romani era ottimamente osservato. Per volere adunque mostrare questo modo, dico come i Romani avevano tripartita ciascuna legione in astati, principi e triarii; de’quali, gli astati erano messi nella prima fronte dello esercito con gli ordini spessi e fermi; dietro a’quali erano i principi ma posti con gli loro ordini più radi: dopo questi mettevano i triarii, e con tanta radità di ordini che potessono, bisognando, ricevere tra loro i principi e gli astati. Avevano, oltre a questi, i funditori e i balestrieri e gli altri armati alla leggiera; i quali non stavano in questi ordini, ma li collocavano nella testa dello esercito tra li cavagli e i fanti. Questi, adunque, leggermente armati appiccavano la zuffa; se vincevano, il che occorreva rade volte, essi seguivano la vittoria; se erano ributtati, si ritiravano per i fianchi dello esercito o per gli intervalli a tale effetto ordinati, e si riducevano tra’ disarmati. Dopo la partita de’ quali venivano alle mani con il nimico gli astati; i quali, se si vedevano superare, si ritiravano a poco a poco per la radità degli ordini tra’ principi e, insieme con quegli, rinnovavano la zuffa. Se questi ancora erano sforzati, si ritiravano tutti nella radità degli ordini de’ triarii e, tutti insieme, fatto uno mucchio, ricominciavano la zuffa; e se questi la perdevano, non vi era più rimedio, perchè non vi restava più modo a rifarsi. I cavagli stavano sopra alli canti dello esercito, posti a similitudine di due alie a uno corpo, e or combattevano con i cavagli, or sovvenivano i fanti, secondo che il bisogno lo ricercava. Questo modo di rifarsi tre volte è quasi impossibile a superare, perchè bisogna che tre volte la fortuna ti abbandoni e che il nimico abbia tanta virtù che tre volte ti vinca. I Greci non avevano con le loro falangi questo modo di rifarsi, e benchè in quelle fusse assai capi e di molti ordini, nondimeno ne facevano un corpo, ovvero una testa. Il modo ch’essi tenevano in sovvenire l’uno l’altro era, non di ritirarsi l’uno ordine nell’altro, come i Romani, ma di entrare l’uno uomo nel luogo dell’altro. Il che facevano in questo modo: la loro falange era ridotta in file; e pognamo che mettessono per fila cinquanta uomini, venendo poi con la testa sua contro al nimico; di tutte le file, le prime sei potevano combattere perchè le loro lance, le quali chiamavano sarisse, erano sì lunghe che la sesta fila passava con la punta della sua lancia fuora della prima fila. Combattendo, adunque, se alcuno della prima o per morte o per ferite cadeva, subito entrava nel luogo suo quello che era di dietro nella seconda fila, e, nel luogo che rimaneva voto della seconda, entrava quello che gli era dietro nella terza; e così successive in uno subito le file di dietro instauravano i difetti di quegli davanti; in modo che le file sempre restavano intere e niuno luogo era di combattitori vacuo, eccetto che la fila ultima, la quale si veniva consumando per non avere dietro alle spalle chi la instaurasse; in modo che i danni che pativano le prime file consumavano le ultime. E le prime restavano sempre intere; e così queste falangi, per l’ordine loro, si potevano piuttosto consumare che rompere, perchè il corpo grosso le faceva più immobili. Usarono i Romani, nel principio, le falangi, e instruirono le loro legioni a similitudine di quelle. Di poi non piacque loro questo ordine, e divisero le legioni in più corpi, cioè in coorti e in manipoli; perchè giudicarono, come poco fa dissi, che quel corpo avesse più vita, che avesse più anime, e che fusse composto di più parti, in modo che ciascheduna per se stessa si reggesse. I battaglioni de’ Svizzeri usano in questi tempi tutti i modi della falange, così nello ordinarsi grossi e interi, come nel sovvenire l’uno l’altro; e nel fare la giornata pongono i battaglioni l’uno a’ fianchi dell’altro; e, se li mettono dietro l’uno all’altro, non hanno modo che il primo, ritirandosi, possa essere ricevuto dal secondo; ma tengono, per potere sovvenire l’uno l’altro, quest’ordine: che mettono uno battaglione innanzi e un altro dietro a quello in su la man ritta, tale che, se il primo ha bisogno d’aiuto, quello si può fare innanzi e soccorrerlo. Il terzo battaglione mettono dietro a questi, ma discosto un tratto di scoppietto. Questo fanno perchè, sendo quegli due ributtati, questo si possa fare innanzi, e abbiano spazio, e i ributtati e quel che si fa innanzi, a evitare l’urto l’uno dell’altro; perchè una moltitudine grossa non può essere ricevuta come un corpo piccolo, e però i corpi piccoli e dÃstinti che erano in una legione romana si potevano collocare in modo che si potessono tra loro ricevere e l’uno l’altro con facilità sovvenire. E che questo ordine de’ Svizzeri non sia buono quanto lo antico romano, lo dimostrano molti esempli delle legioni romane quando si azzuffarono con le falangi greche; e sempre queste furono consumate da quelle, perchè la generazione dell’armi come io dissi dianzi, e questo modo di rifarsi, potè più che la solidità delle falangi. Avendo, adunque, con questi esempli a ordinare uno esercito, mi è parso ritenere l’armi e i modi, parte delle falangi greche, parte delle legioni romane; e però io ho detto di volere in uno battaglione dumila picche, che sono l’armi delle falangi macedoniche, e tremila scudi con la spada, che sono l’armi de’ Romani. Ho diviso il battaglione in dieci battaglie, come i Romani; la legione in dieci coorti. Ho ordinato i veliti, cioè l’armi leggieri, per appiccare la zuffa come loro. E perchè così, come l’armi sono mescolate e participano dell’una e dell’altra nazione, ne participino ancora gli ordini, ho ordinato che ogni battaglia abbia cinque file di picche in fronte e il restante di scudi, per potere, con la fronte, sostenere i cavagli e entrare facilmente nelle battaglie de’ nimici a piè, avendo nel primo scontro le picche, come il nimico, le quali voglio mi bastino a sostenerlo, gli scudi, poi, a vincerlo. E se voi noterete la virtù di questo ordine, voi vedrete queste armi tutte fare interamente l’ufficio loro, perchè le picche sono utili contro a’ cavagli, e, quando vengono contro a’ fanti fanno bene l’ufficio loro prima che la zuffa si ristringa; perchè, ristretta ch’ella è, diventano inutili. Donde che i Svizzeri, per fuggire questo inconveniente pongono dopo ogni tre file di picche una fila d’alabarde; il che fanno per dare spazio alle picche, il quale non è tanto che basti. Ponendo adunque le nostrè picche davanti e gli scudi dietro, vengono a sostenere i cavagli e, nello appiccare la zuffa, aprono e molestano i fanti; ma poi che la zuffa è ristretta, e ch’elle diventerebbono inutili, succedono gli scudi e le spade; i quali possono in ogni strettura maneggiarsi.
LUIGI Noi aspettiamo ora con disiderio di intendere come voi ordineresti l’esercito a giornata con queste armi e con questi ordini.
FABRIZIO E io non voglio ora dimostrarvi altro che questo. Voi avete a intendere come in uno esercito romano ordinario, il quale chiamavano esercito consolare, non erano più che due legioni di cittadini romani, che erano secento cavagli e circa undicimila fanti. Avevano di poi altrettanti fanti e cavagli, che erano loro mandati dagli amici e confederati loro; i quali dividevano in due parti e chiamavano, l’una, corno destro e, l’altra, corno sinistro; nè mai permettevano che questi fanti ausiliari passassero il numero de’ fanti delle legioni loro; erano bene contenti che fusse più numero quello de’ cavagli. Con questo esercito, che era di ventiduemila fanti e circa dumila cavagli utili, faceva uno consolo ogni fazione e andava a ogni impresa. Pure, quando bisognava opporsi a maggiori forze, raccozzavano due consoli con due eserciti. Dovete ancora notare come, per l’ordinario, in tuttatrè l’azioni principali che fanno gli eserciti cioè camminare, alloggiare e combattere, mettevano le legioni in mezzo perchè volevano che quella virtù in la quale più confidavano, fusse più unita, come nel ragionare di tuttatrè queste azioni vi si mostrerà . Quegli fanti ausiliarii, per la pratica che avevano con i fanti legionari, erano utili quanto quelli; perchè erano disciplinati come loro e però nel simile modo, nello ordinare la giornata gli ordinavano. Chi adunque sa come i Romani disponevano una legione nell’esercito a giornata, sa come lo disponevano tutto. Però, avendovi io detto come essi dividevano una legione in tre schiere, e come l’una schiera riceveva l’altra, vi vengo ad avere detto come tutto lo esercito in una giornata si ordinava. Volendo io pertanto ordinare una giornata a similitudine de’ Romani, come quegli avevano due legioni, io prenderò due battaglioni, e, disposti questi, si intenderà la disposizione di tutto uno esercito; perchè nello aggiungere più genti non si arà a fare altro che ingrossare gli ordini. Io non credo che bisogni che io vi ricordi quanti fanti abbia uno battaglione, e come egli ha dieci battaglie, e che capi sieno per battaglia, e quali armi abbiano, e quali sieno le picche e i veliti ordinarii e quali gli estraordinarii; perchè poco fa ve lo dissi distintamente, e vi ricordai lo mandassi alla memoria come cosa necessaria a volere intendere tutti gli altri ordini; e però io verrò alla dimostrazione dell’ordine sanza replicare altro. E’ mi pare che le dieci battaglie d’uno battaglione si pongano nel sinistro fianco e, le dieci altre dell’altro, nel destro. Ordininsi quelle del sinistro in questo modo: pongansi cinque battaglie l’una allato all’altra nella fronte, in modo che tra l’una e l’altra rimanga uno spazio di quattro braccia che vengano a occupare, per larghezza, centoquarantuno braccio di terreno e, per la lunghezza, quaranta. Dietro a queste cinque battaglie ne porrei tre altre, discosto per linea retta dalle prime quaranta braccia; due delle quali venissero dietro per linea retta alle estreme delle cinque, e l’altra tenesse lo spazio di mezzo. E così verrebbero queste tre ad occupare per larghezza e per lunghezza il medesimo spazio che le cinque; ma, dove le cinque hanno tra l’una e l’altra una distanza di quattro braccia, queste l’arebbero di trentatrè. Dopo queste porrei le due ultime battaglie pure dietro alle tre, per linea retta e distanti, da quelle tre, quaranta braccia; e porrei ciascuna d’esse dietro alle estreme delle tre, tale che lo spazio che restasse tra l’una e l’altra sarebbe novantuno braccio. Terrebbero adunque tutte queste battaglie così ordinate, per larghezza, centoquarantuno braccio e, per lunghezza, dugento. Le picche estraordinarie distenderei lungo i fianchi di queste battaglie dal lato sinistro, discosto venti braccia da quelle, faccendone centoquarantatrè file a sette per fila; in modo ch’elle fasciassono con la loro lunghezza tutto il lato sinistro delle dieci battaglie, nel modo da me detto, ordinate; e ne avanzerebbe quaranta file per guardare i carriaggi e i disarmati che rimanessono nella coda dello esercito, distribuendo i capidieci e i centurioni ne’luoghi loro; e degli tre connestaboli ne metterei uno nella testa, l’altro nel mezzo, il terzo nell’ultima fila, il quale facesse l’ufficio del tergiduttore, chè così chiamavano gli antichi quello che era proposto alle spalle dello esercito. Ma, ritornando alla testa dello esercito, dico come io collocherei appresso alle picche estraordinarie i veliti estraordinarii, che sapete che sono cinquecento, e darei loro uno spazio di quaranta braccia. A lato a questi, pure in su la man manca, metterei gli uomini d’arme, e vorrei avessero uno spazio di centocinquanta braccia. Dopo questi, i cavagli leggieri, a’ quali darei il medesimo spazio che alle genti d’arme. I veliti ordinarii lascerei intorno alle loro battaglie, i quali stessono in quegli spazi che io pongo tra l’una battaglia e l’altra, che sarebbero come ministri di quelle, se già egli non mi paresse da metterli sotto le picche estraordinarie; il che farei, o no, secondo che più a proposito mi tornasse. Il capo generale di tutto il battaglione metterei in quello spazio che fusse tra ‘l primo e il secondo ordine delle battaglie, ovvero nella testa e in quello spazio che è tra l’ultima battaglia delle prime cinque e le picche estraordinarie, secondo che più a proposito mi tornasse, con trenta o quaranta uomini intorno, scelti e che sapessono per prudenza esequire una commissione e per fortezza sostenere uno impeto; e fusse ancora esso in mezzo del suono e della bandiera. Questo è l’ordine col quale io disporrei uno battaglione nella parte sinistra, che sarebbe la disposizione della metà dell’esercito; e terrebbe, per larghezza, cinquecento undici braccia e, per lunghezza, quanto di sopra si dice, non computando lo spazio che terrebbe quella parte delle picche estraordinarie che facessono scudo a’ disarmati, che sarebbe circa cento braccia. L’altro battaglione disporrei sopra ‘l destro canto,in quel modo appunto che io ho disposto quello del sinistro, lasciando dall’uno battaglione all’altro uno spazio di trenta braccia; nella testa del quale spazio porrei qualche carretta di artiglieria, dietro alle quali stesse il capitano generale di tutto l’esercito e avesse intorno, con il suono e con la bandiera capitana, dugento uomini almeno, eletti, a piè la maggior parte, tra’ quali ne fusse dieci o più, atti a esequire ogni comandamento; e fusse in modo a cavallo e armato che potesse essere e a cavallo e a piè secondo che il bisogno ricercasse. L’artiglierie dell’esercito, bastano dieci cannoni per la espugnazione delle terre, che non passassero cinquanta libbre di portata; de’ quali in campagna mi servirei più per la difesa degli alloggiamenti che per fare giornata, l’altra artiglieria tutta fusse piuttosto di dieci che di quindici libbre di portata. Questa porrei innanzi alla fronte di tutto l’esercito, se già il paese non stesse in modo che io la potessi collocare per fianco in luogo securo dov’ella non potesse dal nimico essere urtata. Questa forma di esercito così ordinato può, nel combattere, tenere l’ordine delle falangi e l’ordine delle legioni romane; perchè nella fronte sono picche, sono tutti i fanti ordinati nelle file, in modo che, appiccandosi col nimico e sostenendolo, possono ad uso delle falangi ristorare le prime file con quelli di dietro. Dall’altra parte, se sono urtati in modo che fieno necessitati rompere gli ordini e ritirarsi, possono entrare negli intervalli delle seconde battaglie che hanno dietro, e unirsi con quelle, e di nuovo, fatto uno mucchio, sostenere il nimico e combatterlo. E quando questo non basti, possono nel medesimo modo ritirarsi la seconda volta, e la terza combattere; sì che in questo ordine, quanto al combattere, ci è da rifarsi e secondo il modo greco e secondo il romano. Quanto alla fortezza dell’esercito, non si può ordinare più forte; perchè l’uno e l’altro corno è munitissimo e di capi e di armi, nè gli resta debole altro che la parte di dietro de’ disarmati; e quella ha ancora fasciati i fianchi dalle picche estraordinarie. Nè può il nimico da alcuna parte assaltarlo che non lo truovi ordinato; e la parte di dietro non può essere assaltata, perchè non può essere nimico che abbia tante forze che equalmente ti possa assalire da ogni banda; perchè, avendole, tu non ti hai a mettere in campagna seco. Ma quando fusse il terzo più di te e bene ordinato come te, se si indebolisce per assaltarti in più luoghi, una parte che tu ne rompa, tutto va male. Da’ cavagli, quando fussono più che i tuoi, sei sicurissimo; perchè gli ordini delle picche che ti fasciano, ti difendano da ogni impeto di quegli, quando bene i tuoi cavagli fussero ributtati. I capi, oltre a questo, sono disposti in lato che facilmente possono comandare e ubbidire. Gli spazi che sono tra l’una battaglia e l’altra e tra l’uno ordine e l’altro, non solamente servono a potere ricevere l’uno l’altro, ma ancora a dare luogo a’ mandati che andassono e venissono per ordine del capitano. E com’io vi dissi prima, i Romani avevano per esercito circa ventiquattromila uomini, così debbe essere questo, e come il modo del combattere e la forma dell’esercito gli altri soldati lo prendevano da’le legioni, così quelli soldati che voi aggiugnessi agli due battaglioni vostri arebbero a prendere la forma e ordine da quelli. Delle quali cose avendone posto uno esemplo, è facil cosa imitarlo; perchè, accrescendo o due altri battaglioni all’esercito, o tanti soldati degli altri quanti sono quegli, egli non si ha a fare altro che duplicare gli ordini e, dove si pose dieci battaglie nella sinistra parte, porvene venti, o ingrossando o distendendo gli ordini secondo che il luogo o il nimico ti comandasse.
LUIGI Veramente, signore, io mi immagino in modo questo esercito, che già lo veggo, e ardo d’uno disiderio di vederlo affrontare. E non vorrei, per cosa del mondo, che voi diventassi Fabio Massimo, faccendo pensiero di tenere a bada il nimico e differire la giornata, perchè io direi peggio di voi che il popolo romano non diceva di quello.
FABRIZIO Non dubitate. Non sentite voi l’artiglierie? Le nostre hanno già tratto, ma poco offeso il nimico; e i veliti estraordinarii escono de’ luoghi loro insieme con la cavalleria leggiere, e, più sparsi e con maggiore furia e maggior grida che possono, assaltano il nimico; l’artiglieria del quale ha scarico una volta e ha passato sopra la testa de’ nostri fanti sanza fare loro offensione alcuna. E perch’ella non possa trarre la seconda volta, vedete i veliti e i cavagli nostri che l’hanno già occupata, e che i nimici, per difenderla, si sono fatti innanzi; tal che quella degli amici e nimici non può più fare l’ufficio suo. Vedete con quanta virtù combattono i nostri, e con quanta disciplina, per lo esercizio che ne ha fatto loro fare abito e per la confidenza ch’egli hanno nell’esercito; il quale vedete che, col suo passo e con le genti d’arme allato, cammina ordinato per appiccarsi con l’avversario. Vedete l’artiglierie nostre che per dargli luogo e lasciargli lo spazio iibero, si sono ritirate per quello spazio donde erano usciti i veliti. Vedete il capitano che gli inanimisce e mostra loro la vittoria certa. Vedete che i veliti ed i cavagli leggieri si sono allargati e ritornati ne’ fianchi dell’esercito, per vedere se possono per fianco fare alcuna ingiuria alli avversarii. Ecco che si sono affrontati gli eserciti. Guardate con quanta virtù egli hanno sostenuto lo impeto de nimici, e con quanto silenzio, e come il capitano comanda agli uomini d’arme che sostengano e non urtino e dall’ordine delle fanterie non si spicchino. Vedete come i nostri cavagli leggieri sono iti a urtare una banda di scoppiettieri nimici che volevano ferire per fianco, e come i cavagli nimici gli hanno soccorsi: tal che, rinvolti tra l’una e l’altra cavalleria, non possono trarre e ritiransi dietro alle loro battaglie. Vedete con che furia le picche nostre si affrontano, e come i fanti sono già sì propinqui l’uno all’altro, che le picche non si possono più maneggiare; di modo che, secondo la disciplina imparata da noi, le nostre picche si ritirano a poco a poco tra gli scudi. Guardate come, in questo tanto, una grossa banda d’uomini d’arme, nimici, hanno spinti gli uomini d’arme nostri dalla parte sinistra. e come i nostri. secondo la disciplina, si sono ritirati sotto le picche estraordinarie, e, con lo aiuto di quelle avendo rifatto testa, hanno ributtati gli avversari e morti buona parte di loro. Intanto tutte le picche ordinarie delle prime battaglie si sono nascose tra gli ordini degli scudi, e lasciata la zuffa agli scudati; i quali guardate con quanta virtù, sicurtà e ozio ammazzano il nimico. Non vedete voi quanto, combattendo, gli ordini sono ristretti, che a fatica possono menare le spade? Guardate con quanta furia i nimici muoiono. Perchè, armati con la picca e con la loro spada, inutile l’una per essere troppo lunga, l’altra per trovare il nimico troppo armato, in parte cascano fenti o morti, in parte fuggono. Vedetegli fuggire dal destro canto; fuggono ancora dal sinistro; ecco che la vittoria è nostra. Non abbiamo noi vinto una giornata felicissimamente? Ma con maggiore felicità si vincerebbe, se mi fusse concesso il metterla in atto. E vedete che non è bisognato valersi nè del secondo nè del terzo ordine; chè gli è bastata la nostra prima fronte a supc,-argli. In questa parte io non ho che dirvi altro, se non risolvere se alcuna dubitazione vi nasce.
LUIGI Voi avete con tanta furia vinta questa giornata, che io ne resto tutto ammirato e in tanto stupefatto, che io non credo potere bene esplicare se alcuno dubbio mi resta nell’animo. Pure, confidandomi nella vostra prudenza, piglierò animo a dire quello che io intendo. Ditemi prima: perchè non facesti voi trarre le vostre artiglierie più che una volta? E perchè subito le facesti ritirare dentro all’esercito nè poi ne facesti menzione? Parvemi ancora che voi ponessi l’artiglierie del nimico alte e ordinassile a vostro modo, il che può molto bene essere. Pure, quando egli occorresse, che credo ch’egli occorra spesso, che percuotano le schiere, che rimedio ne date? E poichè io mi sono cominciato dalle artiglierie, io voglio fornire tutta questa domanda, per non ne avere a ragionare più. Io ho sentito a molti spregiare l’armi e gli ordini degli eserciti antichi, arguendo come oggi potrebbono poco, anzi tutti quanti sarebbero inutili, rispetto al furore delle artiglierie; perchè queste rompono gli ordini e passono l’armi in modo, che pare loro pazzia fare uno ordine che non si possa tenere, e durare fatica a portare una arme che non ti possa difendere.
Capitolazioni
Truppe svizzere al servizio di Monarchie europee
La tradizione militare del popolo dei Cantoni ha radici profonde e lontane: «… Gli Elvezi superano con il loro coraggio tutti gli altri popoli Galli, combattendo una guerra senza tregua contro i Germani, volta ora a difendere le proprie frontiere, ora a superarle di slancio…, in effetti, una popolazione numerosa, la gloria delle armi, il loro coraggio rendono angusto un paese, che misura appena 240’000 passi di lunghezza per 14’000 di larghezza…».
Così scriveva Giulio Cesare nel 58 a. C., aggiungendo che nella lunga ed incerta battaglia della Borgogna: «… Dalla settima ora fino a tarda sera, nessun Elvezio fu mai visto volger le spalle…» [1].
Pure il grande storico latino, Tacito, aveva detto: “Gli helvetii sono un popolo di guerrieri, famoso per il valore dei suoi soldati.”
Forti di questa esperienza, gli Elvezi rientrati nel loro paese si mescolarono ai Romani e continuarono a fornire all’Impero valorosi contingenti ampiamente impiegati nell’aspra lotta contro i Barbari, i quali incalzavano senza sosta alle frontiere.
Questa tradizione militare venne ulteriormente sviluppata nei secoli successivi, fino a divenire una delle fonti principali di sostentamento in un paese scarsamente dotato di ricchezze naturali.
Machiavelli cita il valore degli Svizzeri (Il Principe, Capitolo 12*) quando auspica che venga dismessa, nelle Signorie italiane, l’abitudine di usare truppe mercenarie, ed il Principe si doti di un proprio apparato militare, ritenendo esservi correlazione tra forza e libertà, ed auspica, (“Dell’arte della guerra”, Libro terzo**), che si voglia imitare il comportamento degli Svizzeri per reprimere la codardia.
(*) E per esperienza si vede i principi soli e le repubbliche armate fare progressi grandissimi, e l’armi mercenarie non fare mai se non danno; e con più difficultà viene all’ubbidienza di un suo cittadino una repubblica armata di armi proprie, che una armata di armi forestiere.
Stettero Roma e Sparta molti secoli armate e libere.
I Svizzeri sono armatissimi e liberissimi.
(**) ….. ed imitare i Svizzeri, i quali non schifarono mai giornata sbigottiti dalle artiglierie; anzi puniscono di pena capitale quegli che per paura di quelle o si uscissero della fila o facessero con la persona alcuno segno di timore.
ure lo storico Francesco Guicciardini, il più grande genio della storiografia italiana con Machiavelli, e che muore nel 1540, scrive sugli Svizzeri le sue impressioni, che dovevano essere le conoscenze più comuni per allora, formulando una descrizione analoga:
“Sono i Svizzeri quegli medesm che dagli antichi si chiamavano Elvezii, generazione che abita nelle montagne più alte di Giura, dette di san Claudio, in quelle di Briga e di san Gottardo; uomini per natura feroci, rusticani, e per la sterilità del paese più tosto pastori che agricoltori. Furono già dominati da’ Duchi di Austria; da’ quali ribellatisi, già è grandissimo tempo, si reggono per loro medesimi, non facendo segno alcuno di ricognizione nè agl imperatori nè a altri principi. Sono divisi in tredici popolazioni, essi li chiamano Cantoni; ciascuno di questi si regge con magistrati, leggi e ordini proprii. Fanno ogni anno, o più spesso secondo che accade di bisogno, consulta delle cose universali; congregandosi nel luogo il quale, ora uno ora l’altro, eleggono i deputati di ciascuno Cantone: chiamano, secondo l’uso di Germania, queste congregazioni diete; nelle quali si delibera sopra le guerre, le paci, le confederazioni, sopra le dimande di chi fa istanza che gli sia conceduto, per decreto pubblco, soldati o permesso a’ volontari di andarvi, e sopra le cose attinenti allo interesse di tutti. Quando per pubblico decreto concedono soldati, eleggono i cantoni medesimi tra loro uno capitano generale di tutti, al quale con le insegne e in nome pubblico si dà la bandiera. Ha fatto grande il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l’unione e la gloria delle armi, con le auli, per la ferocia naturale e per la disciplina dell’ordinanze, non solamente hanno sempre valorosamente difeso il paese loro, ma esercitando fuori del paese la milizia con somma laude: la quale sarebbe stata senza comparazione maggiore se l’avessino esercitata per lo imperio proprio, e non agli altri stipendii e per propugnare lo imperio di altri, e se più generosi fini avessino avuto innanzi agli occhi, a’ tempi nostri, che lo studio della pecunia; dall’amore della quale corrotti, hanno perduta l’occasione di essere formidabili a tutt l’Italia, perchè non uscendo dal paese loro se non come soldati mercenari, non hanno riportato frutto pubblico delle vittorie, assuefandosi, per la cupidità del guadagno, a essere negli eserciti, con taglie ingorde e con nuove dimande, quasi intollerabili, e oltre a questo, nel conservare e nell’ubbidire a chi li paga, molto fastidiosi e contumaci”. (F. Guicciardini, “Storia d’Italia”, libro X, cap. VIII).
C’erano 15’000 uomini disponibili per questo tipo di lavoro, che era “organizzato” e sotto il controllo della piccola Confederazione dei Cantoni, la quale conferiva la autorizzazione per la leva di uomini e, come contropartita, riceveva grano, sale o altri privilegi commerciali.
Gli Svizzeri, in genere, concepivano la guerra come un’emigrazione temporanea, estiva e, perciò, partecipavano a guerre brevi e grandi, per poi tornare a casa a passare l’inverno con il “soldo” e il bottino: essi erano i migliori soldati del tempo. Senza cavalleria e con poca artiglieria, questa gente aveva inventato una tattica di movimento superiore a tutte le altre, e per questo essa era richiesta e invitata sia dalla Francia che dalla Spagna.
Erano come delle muraglie semoventi, irte di ferro e impenetrabili.
La forza elvetica, oltre che nell’audacia, prontezza, decisione, disprezzo della fatica e del pericolo, era nelle armi che usavano: le picche (*).
(*) La picca era un’arma con asta assai lunga, che appartiene alla stessa categoria dell’alabarda e della partigiana: si componeva di un’asta di legno, lunga da 5 a 7 metri, alla cui estremità veniva assicurato un puntale di ferro, molto robusto, lungo circa 50 cm. a forma di lingua o di lancia. La lunghezza e la robustezza erano tali da frenare l’impeto della cavalleria.
Già nel 13° e 14° secolo, dopo l’indipendenza svizzera, un gran numero di gente militava in Germania e Italia e poiché i Cantoni non erano capaci di impedire questo tipo di emigrazione, cercarono, perlomeno, di organizzarlo.
Oggi si stima che almeno un milione di soldati svizzeri abbiano militato sotto i Re di Francia tra il 1472 ed il 1830 e che almeno 700’000 uomini siano periti nell’espletamento del proprio dovere [2].
Le truppe, spesso definite con tono dispregiativo mercenarie, venivano assoldate sulla base di accordi diplomatici ben definiti, stipulati tra i cantoni di provenienza e la monarchia francese e chiamati «capitolazioni militari».
Lo stipendio era individuale per ogni sodato, e collettivo ai Cantoni che si impegnavano a consegnare i combattenti; e diventava una specie di pensione annua quando il servizio militare era stabile a lunga scadenza.
Naturalmente, dal servizio come mercenari alla politica di conquista per se stessi, (nel Cinquecento),il passo era breve. La guerra dunque divenne una professione sociale, e la nazione svizzera diventa il popolo più guerriero di tutta Europa.
Esse impegnavano i soldati a «servir le Roi et la France dans les ordres de la personne du Roi, considéré comme le seul et unique représentant de la nation» [3].
Queste capitolazioni, che possiamo paragonare in senso lato ai moderni contratti di collaborazione tra imprese industriali e Stato, rappresentavano per il soldato un vincolo indissolubile, da onorare fino all’estremo sacrificio della propria vita. Quanto e come venisse osservato quest’impegno, lo confermò Napoleone, affermando testualmente che: «Les meilleures troupes, celles en qui vous pouvez avoir le plus de confiance, ce sont les Suisses… Elles sont braves et fidéles».
Dopo la caduta dell’ Impero Romano, la cavalleria, nuova forza d’urto della tecnica bellica, dominò incontrastatamente i campi di battaglia per oltre un millennio, relegando la fanteria al rango di manovalanza di infimo livello. Furono i Cantoni Svizzeri a rivalutare il ruolo della fanteria, trasformandola in un corpo di specialisti altamente qualificati nella lotta corpo a corpo. Selezione accurata della truppa, allenamento fisico e morale spinti all’estremo, ampio utilizzo delle ultimissime armi bianche e poi da sparo, sviluppo di nuove tecniche di lotta in piccole unità mobili affiatate, portarono la Svizzera a diventare nel primo Cinquecento la maggior potenza militare d’Europa [2].
Dal punto di vista storico, il servizio straniero o mercenarismo (Fremdendienst) ha rappresentato per circa un millennio una importante valvola di sfogo economico per i Cantoni. Esso ha permesso l’emigrazione militare periodica di uomini da regioni troppo affollate e con scarse possibilità occupazionali. L’arruolamento avveniva di regola indipendentemente dai confini politico-regionali, laddove era possibile creare una unità militare operativa con un Comandante, in qualità di unico responsabile verso la truppa della corresponsione del soldo e dell’osservanza degli obblighi assunti. I Reggimenti erano formati dai 1500 ai 2000 uomini ed il loro Comandante ha rappresentato tra il XV fino alla metà del XIX secolo la figura principale del singolo imprenditore.
Ruolo paragonabile a nostro avviso a quello del moderno Capitano d’industria. Normalmente, i Comandanti rispondevano in solido per la corresponsione del soldo e si racconta di vari Comandanti finiti sul lastrico per l’insolvenza degli Stati datori di lavoro, contro i quali era difficile anche a quei tempi ricorrere in giudizio! Da un punto di vista storico globale, andrebbe anche tenuto in debito conto quanto l’arruolamento interregionale abbia contribuito al profondo e continuo processo di integrazione tra le popolazioni dei differenti Cantoni [3].
Dopo tanti secoli di gloria, guadagnata attraverso indicibili sacrifici e sofferenze subite ed inferte, il popolo dei Cantoni diceva no a guerra e violenza, abbracciando una nuova strategia di sopravvivenza civile, quella della neutralità armata al solo ed unico fine della legittima difesa. Nasceva così lo Stato Confederale, citato ad esempio nel travagliato dibattito politico dell’Europa dell’Otto-Novecento, dibattito che perdura tuttora [4].
Truppe svizzere furono al servizio dei Principi di Casa Savoia, sia quando erano sovrani di terre al di là dei monti, sia dopo.
Dal 1241 (prima alleanza di Berna con Amedeo IV) al 1814 (ultima capitolazione di Vittorio Amedeo I con i Grigioni) sono 23 le capitolazioni firmate ed una trentina i reggimenti forniti dai Cantoni: altrettanti i generali.
Gli Svizzeri, quando combattono, combattono per davvero. Numerosi sono i fatti d’arme: la Madonna dell’Olmo, la guerra delle Alpi, ecc.
Dal 1609 i 100 Svizzeri formano la guardia personale del Duca, che tale resta fino al 1832, ultima delle truppe capitolate ad essere sciolta: resta in loro ricordo il salone degli Svizzeri nel palazzo reale di Torino. Gli ultimi sette abati di San Gallo (1654-1796) vengono tutti insigniti dell’Ordine Supremo della SS. Annunciata. Antica amicizia e probabile riconoscenza per i molti reggimenti forniti dagli Abati ai Savoia.
Seguendo l’esperienza della monarchia francese e dei Principi di Savoia, anche i Borbone affidarono ai Reggimenti Svizzeri la difesa del loro trono. Questi Reggimenti venivano inquadrati a volte in formazioni autonome, a volte nell’esercito del paese ospitante, come fece nel 1788 Ferdinando IV quando, sciolti i Reggimenti Svizzeri, li incorporò in due «Reggimenti Esteri». L’importanza della presenza militare svizzera a Napoli viene confermata dal fatto che, tra il 1734 ed il 1828, 25 ufficiali elvetici raggiunsero gradi superiori. Tra questi, Emanuel Burckhardt quello ambitissimo di Capitan Generale [6,7].
Testo tratto parzialmente da Bruno J. R. Nicolaus
Bibliografia e Note
[1] Giulio Cesare, De Bello Gallico, Libro I.
[2] Jérome Bodin, Les Suisses au Service de la France, Editions Albin Michel, Paris 1988.
[3] Heribert Kueng, Glanz und Elend der Soeldner, 1993, Desertina Verlag, CH-7180 Disentis.
[4] Emilio R. Papa, Storia della Svizzera, Bompiani, 1993.
[5] Hans Adolph Voegelin, Militaers in fremden und einheimischen Diensten, pp.225-230, in CKDT (Basel) Streiflichter auf Geschichte und Persoenlichkeiten des Basler Geschlechtes Burckhardt, Herausgeberin: Burckhardtsche Familienstiftung, 1990 Buchverlag Basler Zeitung, 4002 Basel.
6] Carlo Knight, Emanuel De Bourcard, generalissimo svizzero al servizio di Ferdinando IV di Borbone, Atti della Accademia Pontaniana, Napoli, vol. XL, pp. 1-33 (1991).
[7] Carlo Knight, Un Generale Svizzero al Servizio dei Borbone, in Sulle orme del Gran Tour- Uomini Luoghi Società del Regno di Napoli, Electa Napoli, pp. 41-65 (1995).
La storia svizzera – Parte 5
La Confederazione e i conflitti dell’Europa
Sviluppo delle città
A fine Medio Evo l’Europa si trova in un difficile momento. Francesi ed Inglesi si affrontano in una serie di battaglie su territorio francese, si tratta della guerra dei Cento Anni. Le cattive condizioni climatiche provocano carestie che mietono numerose vittime. L’Europa non è certo risparmiata dalla peste nera che, proveniente dall’Asia, colpisce ripetutamente l’enorme territorio e uccide un terzo della popolazione. Anche la Svizzera non sfugge al flagello. La popolazione alpina viene parzialmente risparmiata ma nelle campagne numerosi villaggi scompaiono. Tra il 1350 e il 1450 la popolazione diminuisce. Nello stesso periodo, tuttavia, la Confederazione conosce una fase di espansione e prosperità. Nelle campagne i contadini, sempre meno numerosi, abbandonano le terre che sono divenute meno fertili e utilizzate successivamente per l’allevamento del bestiame. L’abbandono dei campi porta all’ingrandimento delle proprietà fondiarie, mentre la rotazione triennale è generalizzata. Le eccedenze vengono smerciate nelle città in pieno sviluppo. Le regioni di montagna si specializzano nell’allevamento di bovini quando le richieste del mercato garantiscono un certo profitto. Gli abitanti delle vallate isolate, costretti all’autarchia, coltivano cereali anche in altura.
L’aumento della popolazione urbana è significativa ed indica la prosperità delle città. Sono numerose anche se di modeste dimensioni e devono la loro ricchezza ai traffici internazionali che transitano su territorio elvetico. Nelle zone che non sono coinvolte nella guerra dei Cento Anni, particolarmente nell’Italia settentrionale e nel sud della Germania, si sviluppano nuovi centri di produzione industriale. Tra questi due poli si stabiliscono tre grandi correnti commerciali: la prima, lungo la valle del Reno e i valichi grigionesi, la seconda attraverso Basilea o Zurzach, Lucerna e il San Gottardo, la terza attraverso l’Altopiano verso Ginevra (in modo trasversale, da est ad ovest), le cui celebri fiere raggiungono l’apice proprio nel periodo tra il 1400 e il 1460.
I traffici favoriscono lo sviluppo di importanti centri industriali in Svizzera come, per esempio, San Gallo, dove si producono tessuti di lino o Friburgo, famosa per i suoi panni. Utilizzando tecniche avanzate come l’arcolaio e la gualchiera (Macchina a martelli azionati ad acqua per ammorbidire i tessuti di lana e renderli compatti), i fabbricanti di lana producono annualmente da 6’000 a 12’000 pezze nel periodo tra il 1400 e il 1460. I tessuti, convenienti e qualitativamente forti, sono esportati da Ginevra nell’area mediterranea e nel Vicino Oriente. Come Berna, Friburgo si specializza nella produzione di cuoio e Zurigo in quella della seta.
L’arricchimento dei borghesi e le difficoltà dei nobili
Grazie alle vie commerciali attraverso la Svizzera, le città hanno raggiunto, nel XV secolo, una ricchezza notevole. Questo è testimoniato dall’agio di cui i borghesi godono. A Berna nel 1445 dichiarano un patrimonio globale di 800’000 fiorini che corrisponde a circa 160 fiorini a testa. La ricchezza è però distribuita in modo disuguale: a Friburgo il 2% della popolazione possiede la metà del patrimonio complessivo, mentre i più poveri, servitori, manovali e operai, sono dieci volte più numerosi artigiani e piccoli commercianti, che costituiscono il gruppo sociale più importante, vivono in situazioni economiche diverse, ma in generale possiedono tutti un’abitazione. L’arricchimento delle città, di riflesso, incide sulle condizioni generali di vita. Nella costruzione delle case si diffonde l’uso della pietra. Tubi in legno di quercia forniscono l’acqua potabile alla città e le fontane si moltiplicano. Le strade vengono lastricate e si costruiscono fogne in muratura. Le fonti amministrative e le disposizioni pubbliche fanno pensare ad un miglioramento nell’alimentazione. Si consumano più carne, uova, formaggio e burro. La vita rimane comunque dura per la maggior parte della popolazione. Il cibo è spesso insufficiente e la mancanza d’igiene è alla base di frequenti malattie che provocano un alto tasso di mortalità.
La borghesia si arricchisce ma la nobiltà, confrontata con gravi difficoltà, si indebolisce. I conflitti armati come quello di Laupen e di Sempach ne sfoltiscono i ranghi. Anche la peste nera non li risparmia. Sono infatti molti i testamenti redatti nella primavera del 1349 quando la prima ondata di epidemia giunge a noi. Le spartizioni ereditarie causano numerose liti e provocano il frazionamento delle proprietà. Le persone che abbandonano la terra per stabilirsi in città sono sempre in maggior numero, di conseguenza il reddito del signore diminuisce. Le piccole monete d’argento utilizzate dai coloni per il pagamento dei canoni si svalutano rispetto alla moneta d’oro, molto apprezzata nel commercio internazionale; il signore ha bisogno quindi di sempre più monete d’argento per ottenere i ducati e i fiorini necessari all’acquisto di cavalli o tessuti di valore.
Il signore vive al di sopra dei suoi mezzi. Il gusto per il lusso lo trascina in spese eccessive che lo costringono ad ipotecare i suoi possedimenti. Incapace di far fronte ai debiti, è spesso obbligato a vendere proprietà e diritti feudali ai creditori, che di regola sono borghesi. Capita anche che il signore aumenti i canoni o introduca nuove tasse esponendosi così al rischio di vedere i suoi soggetti in rivolta, come avviene nel conflitto che oppone l’abate di San Gallo ai contadini d’Appenzello ad inizio XV secolo.
Nuova espansione della Confederazione
Dopo Sempach, Austriaci e Confederati si concedono una tregua. La pace, rinnovata più volte, non impedisce alle parti di continuare nella loro politica di annessioni. I Confederati prima con metodi pacifici; acquistando le terre dai signori indebitati, e con le armi poi, quando la situazione lo richiedeva. Gli Urani approfittano dei disordini nel ducato di Milano per occupare il versante meridionale del San Gottardo e assicurarsi il controllo dei traffici. Nel 1415, quando l’imperatore invita i suoi sudditi ad appropriassi dei beni di Federico IV d’Austria, bandito dall’impero, Berna e poi gli altri cantoni invadono l’Argovia, dove la presenza di grandi vie commerciali con ponti e traghetti procura ulteriori e maggiori profitti. Nel 1460 la Turgovia subisce la stessa fine.
A volte si accendono conflitti tra i cantoni; Zurigo e Svitto si contendono, in una guerra molto dura, le terre del conte del Toggenburgo, morto senza eredi nel 1436. Zurigo vorrebbe controllare i passaggi verso i Grigioni mentre Svitto vogliono allargare la loro influenza ad est. I cantoni non accordano autonomia ai territori occupati. I borghesi, che governano Zurigo e Berna, impongono la propria autorità proprio come avevano fatto i signori feudali e si fanno versare dei tributi anche se sono più inclini alla democrazia.
I territori conquistati vengono chiamati paesi soggetti proprio perché i loro abitanti vengono considerati dai borghesi come tali (analogamente agli abitanti di un territorio soggetti al signore feudale). Il cantone è rappresentato, in queste terre, dal landfogto che amministra la giustizia e preleva le imposte. Un territorio appartenente a più cantoni è denominato baliaggio comune. La sua amministrazione, che richiede riunioni e discussioni tra i cantoni sovrani, è all’origine della Dieta federale.
La Confederazione continua ad ingrandirsi e sono diversi i territori che cercano l’alleanza (Soletta, Friburgo Basilea, le comunità rurali di Appenzello e Grigioni). Anche i signori feudali come l’abate di San Gallo e il conte della Gruyère cercano questa alleanza. Anche se devono aiuto militare ai cantoni sovrani, questi alleati dispongono alla Dieta solo di pochi diritti o non sono neppure rappresentati.
Le guerre di Borgogna
La Borgogna, nel XV secolo, è un grande principato che il duca Carlo vuole ingrandire, desideroso di ricostituire l’antico regno di Lotario, dalle Fiandre all’Italia. Per questo è pronto a qualsiasi cosa e sfrutta ogni minima occasione. Nel 1469, per esempio, per un prestito di 10’000 fiorini, Sigismondo d’Austria gli cede in pegno alcuni possedimenti che si trovano in Alsazia e nella Foresta Nera. Berna intuisce il pericolo che incombe sulle vie commerciali dell’Altopiano. I tentativi di controllo sul corso superiore del Reno sono però bloccati dalla presenza borgognona. Anche la Savoia diviene un satellite di Carlo il temerario. Berna, Friburgo e Soletta rischiano di essere accerchiate.
Luigi XI, Re di Francia desidera ridimensionare le ambizioni del suo potente vassallo e, con prudenza ma destrezza, convince Sigismondo d’Austria a riconciliarsi con gli Svizzeri. La pace, sottoscritta agli inizi del 1473, vuole soprattutto liberare l’Alsazia dalle angherie del balivo di Borgogna, Peter von Hagenbach. Durante l’estate Luigi XI, su suggerimento del bernese Niklaus von Diesbach, suo consigliere e ciambellano, firma un’alleanza militare con i cantoni confederati. Così, Carlo, che amava definirsi e farsi chiamare “Grand Duc d’Occident”, finisce per trovarsi contro il Re di Francia, il duca d’Austria e gli Svizzeri.
Verso la fine del 1474 l’Alsazia si ribella al Temerario che però non vuole cedere. I Confederati colgono l’occasione e gli dichiarano guerra. I primi scontri terminano con alcune conquiste nella Contea. Berna lancia poi un’offensiva nel Paese di Vaud per porre un ostacolo tra la Borgogna e la Savoia. I Waldstätten e Zurigo si rifiutano di seguire il loro alleato nell’impresa, sospettandolo di voler soddisfare le sue ambizioni. Luigi XI, costretto alla prudenza, giunge alla tregua col duca di Borgogna.Gli Svizzeri si trovano così soli contro Carlo il Temerario, quando nella primavera del 1475 egli torna nel Paese di Vaud e rioccupa la fortezza di Grandson. Il primo scontro fu vinto dai confederati; i vinti abbandonano sul campo un ricco bottino. A Morat, nel 1476, l’esercito del duca viene nuovamente sconfitto e l’anno seguente viene ucciso in battaglia, vicino a Nancy. Il suo cadavere viene spogliato e mutilato e in seguito gettato in una palude.
Per gli Svizzeri i vantaggi politici e geografici di queste vittorie sono miseri; si assicurano unicamente il possesso di Orbe, Morat, Echallens e Grandson, che divengono baliaggi comuni. Sono invece Luigi XI e Massimiliano d’Austria che si spartiscono il ricco principato.
Cinque nuovi cantoni
Nella seconda metà del XV secolo l’attività industriale entra in crisi e causa disoccupazione e difficoltà materiali. Molti poveri trovano rimedio alla loro miseria nella guerra grazie al saccheggio. Sono avidi e crudeli e il livello morale scende paurosamente. Inoltre si crea una netta separazione tra i cantoni rurali e quelli urbani. Gli ultimi rimproverano ai primi di avere un peso eccessivo nella Confederazione; li accusano di essersi accaparrati gran parte del bottino delle guerre di Borgogna, Le città desiderano una maggiore unità tra i cantoni, specialmente in caso di pericolo e conflitti, e auspicano un forte potere in grado di ristabilire l’ordine e le azioni violente dei contadini. è il caso di quella che viene chiamata la “folle Vita”, una spedizione di migliaia di giovani esaltati che semina il terrore nella Svizzera occidentale nella primavera del 1477. Sentendosi minacciate, le città concludono un’alleanza separata che irrita i cantoni rurali; la tensione cresce.
In questa atmosfera si discute l’ammissione di Friburgo e Soletta nella Confederazione. Uri, Svitto, Untervaldo e Glarona temono che si possa creare uno squilibro a vantaggio delle città e bocciano la richiesta. Dal loro canto le città sono intenzionate a mantenere la loro alleanza separata se la proposta non viene accettata. Alla Dieta di Stans, riunita nella primavera del 1481, ogni intesa sembra impossibile. Si trova però un compromesso all’ultimo momento, grazie ai consigli dell’eremita Nicolao della Flüe; Friburgo e Soletta sono accolte nella Confederazione con alcune restrizioni; la loro politica è sottomessa all’approvazione della maggioranza dei cantoni. Un nuovo patto, la Convenzione di Stans, consolida la pace interna, stabilisce le norme per la spartizione del bottino di guerra e prevede un aiuto reciproco nella repressione di agitatori e fautori di disordini.
I delegati si recano dall’eremita Nicolao ed ottengono parole di pace e concordia
Alla fine del XV secolo tutti i cantoni godono dell’immediatezza imperiale. Nel 1486 Massimiliano d’Austria, appena eletto Re di Germania, sull’esempio di Luigi XI, desidera trasformare il suo impero in uno stato centralizzato con un unico esercito ed un tribunale permanente. Cerca di prelevare un’imposta generale che però i Confederati non accettano. Massimiliano ricorre allora alla forza. Confederati e grigionesi, loro alleati, sono così coinvolti nella Guerra di Svevia (1499) nella quale sconfiggono il nemico, costringendolo a firmare la pace. Nel trattato che la sancisce, nessuna clausola prevede la separazione dalla Confederazione dall’Impero ma il testo lascia intravedere una rinuncia del Re ai suoi diritti di sovranità sui cantoni. I Confederati sono ormai sciolti da ogni legame di dipendenza.
Le nuove vittorie spingono Basilea e Sciaffusa a chiedere la loro ammissione nella Confederazione, cosa che avvenne nel 1501. Nel 1513 è la volta di Appenzello. Da questo momento la Svizzera conterà 13 cantoni e questo per i prossimi tre secoli.
Gli Svizzeri in Italia
Agli inizi del XVI secolo i cantoni rurali della Svizzera centrale, trovano nelle guerre d’Italia l’occasione per realizzare il loro sogno di espansione verso sud. Da molto tempo gli Urani tentano di controllare il versante meridionale del San Gottardo. Già padroni della Leventina, ambiscono alla conquista di Bellinzona, piazzaforte allo sbocco della valle. Non sono però i soli a volersi espandere a sud; i grigionesi, loro alleati, guardano alla Valtellina e i Vallesani a Domodossola. Numerose battaglie hanno luogo senza però portare i frutti desiderati.
Luigi XII, Re di Francia, in virtù dei diritti ereditari, rivendica il ducato di Milano. Promette pensioni allettanti e compensi territoriali e ottiene l’appoggio degli Svizzeri. Nella primavera del 1500 diventa il padrone di Milano. Non tiene però fede ai suoi impegni creando il malcontento tra gli alleati che si rifanno occupando i territori promessi. Il Re di Francia continua d’altra parte ad arruolare soldati attirandosi l’ostilità di coloro che in Svizzera denunciano gli aspetti negativi del servizio mercenario* : perdite umane, violenze e saccheggi. Alcuni intravedono nella presenza francese al sud delle Alpi una minaccia per le relazioni commerciali, almeno questa è l’opinione di Mathias Schiner, vescovo di Sion che riesce a convincere gli Svizzeri ad appoggiare la coalizione antifrancese sostenuta da Papa Giulio II della Rovere.
(*) mercenario: Soldato che presta servizio a pagamento per uno stato straniero.
In verità i reggimenti svizzeri, spesso definiti con tono dispregiativo mercenari, venivano assoldati sulla base di accordi diplomatici ben definiti, stipulati tra i Cantoni di provenienza e le monarchie europee (Francia, Spagna. i Savoia, i Borboni di Napoli, il Romano Pontefice, ecc.); accordi chiamati «capitolazioni militari».
Soldato appartenente ad un reggimento svizzero capitolato, al servizio di una potenza straniera
Tutt’oggi resta solo la Guardia Svizzera Pontificia in Vaticano
al servizio dei Romani Pontefici dal 21 gennaio 1506.
Così nel 1512 i Confederati cacciano i Francesi oltre le Alpi e stabiliscono un protettorato su Milano. Il loro dominio non può comunque essere mantenuto a lungo. Inoltre si attirano le ostilità dei Milanesi a causa delle loro pretese finanziarie. Infine non incontrano che indifferenza e passività quando il nuovo Re Francesco I si appresta a riconquistare il Milanese verso la primavera del 1515. Il sovrano propone ai Cantoni di rinunciare alle conquiste per la somma di 700’000 ducati (2,5 tonnellate di oro). L’offerta è ingente e allettante al punto da dividere i Confederati: bernesi, friburghesi e solettesi prendono la via del ritorno, i cantoni centrali e orientali, desiderosi di mantenere le loro conquiste e sollecitati da Mathias Schiner, scelgono di battersi. Il 13 e 14 settembre 1515, 20’000 confederati affrontano nelle vicinanze di Marignano (Melegnano), in realtà Zivido, un esercito di circa 30’000 uomini. Francesco I ha la meglio dopo una lunga battaglia, grazie anche all’intervento della cavalleria e dell’artiglieria, e dell’aiuto dei Veneziani, accorsi nel secondo giorno della battaglia.
Il loro comandante, Bartolomeo d’Alviano, definirà il cruento scontro “Battaglia dei Giganti”.
A ricordo della battaglia dei Giganti, nel 1965 fu posto, nel luogo degli scontri, un bassorilievo,
realizzato con granito del San Gottardo, delle dimensioni di m 3×2,
raffigurante un guerriero dell’epoca che difende un camerata ferito.
La sconfitta comporta la perdita definitiva, da parte svizzera, del Milanese: essi mantengono però il Ticino, e ricevono da Francesco I una consistente indennità di guerra. Cosciente della loro potenza bellica, il monarca vuole conciliarsi con i vinti. Nel 1516 è conclusa una pace perpetua e un’alleanza viene sottoscritta nel 1521. Per 250 anni le relazioni tra i due stati non saranno intaccate.
Per celebrare i primi 500 anni della Guardia Svizzera, nel 2006 si sono svolti eventi, tra i quali la lunga marcia, dalla Svizzera a Roma, a piedi, di un centinaio di ex Guardie.
La storia svizzera – Parte 3
Il feudalesimo in Svizzera
Le campagne dal XI al XIII secolo
Verso l’anno 1000 il territorio occupato dall’uomo è abbastanza limitato. Si tratta spesso di radure attorno alle quali si trovano foreste e paludi che rendono difficili i contatti tra le persone e isolano i villaggi. D’altra parte l’esistenza di vie di collegamento è precaria, i pochi sentieri non sono ben delineati.
Sull’Altopiano, i contadini si raggruppano in villaggi o in fattorie isolate al centro di una proprietà da poco dissodata. Nei campi, suddivisi in strisce, predominano le culture di cereali e affini. Per il lavoro vengono utilizzati attrezzi primitivi e rudimentali come, per esempio, l’aratro di legno che appena riesce a penetrare il terreno. Siccome il concime scarseggia, si opta per il sistema del maggese ovvero parte del terreno viene lasciata incolta, per circa un anno, in modo che possa riposare e ritorni presto fertile. Parte del raccolto deve essere conservata in modo da essere utilizzata l’anno venturo quale semenza, un’altra viene consegnata al signore. L’allevamento è un’attività accessoria; permette di disporre di latte, carne, uova e pelli. Inoltre i bovini vengono utilizzati per il tiro dell’aratro o dei carri. Le bestie come le pecore ed i buoi vengono fatti pascolare sul maggese (concimazione) o su piccoli prati. La foresta che si trova nei paraggi permette ai contadini di disporre del legname da costruzione e da ardere, inoltre le bacche e gli animali selvatici servono per la variazione della dieta, senza calcolare il beneficio di cui traggono come pascolo per gli animali. Il contadino è condizionato nella sua vita quotidiana, dal clima durante le diverse stagioni. Durante le domeniche e le feste religiose si riposa. Alcune di esse rappresentano il giorno del versamento dei tributi ai signori.
La vita dei contadini migliora a partire dall’XI secolo. I campi diventano più redditizi grazie all’efficacia di alcune innovazioni della tecnica quali gli attrezzi di ferro o l’aratro a ruote e il nuovo sistema di attacco del cavallo. Viene inoltre applicato un nuovo sistema di semina e cioè quello della rotazione triennale: un terzo del terreno viene seminato con cereali invernali, un terzo con cereali primaverili o piante leguminose e un terzo rimane maggese; tutto ciò a rotazione. L’aumento dei contadini richiede nuove terre da dissodare e con uno sforzo comune, vengono dissodati i terreni confinanti o penetrano nelle foreste per costruire fattorie isolate, nelle radure.
Con lo sviluppo delle città, la domanda di prodotti agricoli aumenta. I contadini possono così smerciare le eccedenze e trarne un ricavo. Alcuni si specializzano in produzioni particolari; soprattutto cereali. Su terreno meno fertili, invece, sorgono le vigne che i monaci diffondono anche sulle sponde del Lemano. L’allevamento passa in modo sempre più preponderante agli abitanti della Svizzera centrale e delle regioni alpine.
Signori e contadini
Verso l’anno 1000 quasi tutti vivono di agricoltura. I contadini dell’Altopiano dipendono quasi tutti da un signore fondiario o proprietario. Il signore divide le sue proprietà in fondi lavorati da servi (individui che dipendono direttamente dal signore con diritti limitati) o coloni (individui giuridicamente liberi, ai quali un signore accorda loro l’uso di fondi in cambio di prestazioni). In cambio i contadini gli devono tributi in natura (parte del raccolto) o in denaro (censo); devono pure eseguire lavori negli edifici del signore o aggiungersi ai servi che già vivono e lavorano sulle sue terre.
Questi impegni variano a dipendenza della signoria a cui si appartiene. In taluni casi il signore rivendica un diritto sull’eredità o ingloba i beni di servi deceduti senza eredi. Inoltre, il signore, esige delle tasse da coloro che vogliono sposarsi fuori dal suo dominio e può obbligare con la forza al ritorno coloro che hanno abbandonato senza autorizzazione i fondi dove lavorano.
Il signore vive nel castello, simbolo del suo potere. Protegge i suoi uomini accogliendoli tra le mura in caso di pericolo. Questa protezione è molto apprezzata dai contadini che vivono in ambiente ostile, segnato da carestie, epidemie guerre e vendette. Il grande signore esercita il banno (diritto dell’autorità, in primo luogo del Re, di comandare e proibire; per esteso anche il territorio in cui veniva esercitato). Infligge multe e preleva tasse per l’uso del forno, del mulino, del torchio e del frantoio. Per macinare il grano e cuocere il pane, i contadini, possono usare solo le sue attrezzature. Anche l’uso delle terre non coltivate e delle foreste come pure il diritto di caccia e pesca sono diritti riservatigli.
Tra le tasse che deve versare il contadino vi sono anche la taglia e la decima (parte della produzione agricola, ca. 10%, prelevata dall’autorità ecclesiastica per il mantenimento del clero).
Nelle Alpi i contadini sono generalmente liberi; la lontananza e le precarie vie di comunicazione rendono difficilmente controllabile la situazione. Per far fronte in modo migliore a tutti i bisogni e alle difficoltà, si organizzano in comunità. La ripresa dei traffici commerciali risveglia le rivendicazioni signorili ma alcune comunità, per esempio quella di Uri, difendono a denti stretti la loro posizione di privilegio.
L’aumento della produzione agricola tra il XI e il XIII secolo permette il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini in modo che numerosi servi possono così riscattare la libertà. Il signore, sempre più bisognoso di denaro, divide i possedimenti, riduce canoni e corvée (impegni e/o lavori che il contadino deve eseguire per conto del signore) per trattenere i contadini attirati dalle vicine città.
La vita nel castello
I castelli più antichi, edificati nel X e XI secolo, sono costruzioni di legno, semplici, circondate da palizzate e situati su alture artificiali. Solo più tardi compaiono edifici di pietra protetti da mura, costruiti di preferenza su colline o speroni rocciosi. Il mastio, torre principale, serve da abitazione e bastione di difesa. Dato che è poco confortevole vengono aggiunte ben presto nuove costruzioni. Con il passare dei secoli altri edifici e installazioni di difesa conferisco al castello la forma che conosciamo.
Rimane pur sempre un’abitazione poco confortevole vista anche la sua mole. La grandezza dei locali li rende difficilmente riscaldabili anche se i camini sono molto grandi. Il piano terreno viene adibito, durante l’inverno, a stalla per le capre e maiali anche perché così ne viene sfruttato il calore. Il pavimento è sudicio e vi sono vermi e topi in quantità.
Le opere d’arte quali i dipinti e le stoffe si trovano unicamente nei locali utilizzati per le feste e i ricevimenti. I mobili sono assai primitivi e comprendono panche, sedie e tavoli di legno, cassapanche per abiti e generi alimentari. I letti, a baldacchino per la protezione da parte degli insetti, servono per più persone contemporaneamente. Le vettovaglie più utilizzate sono delle scodelle di legno, il coltello e il cucchiaio. La forchetta non viene utilizzata perché sovente si utilizzano le dita. Il “lavandino” (acquamanile) serve per la pulizia delle mani che vengono asciugate nella tovaglia. Gli alimenti che vengono consumati sono in genere il pane, la zuppa di cereali e legumi e, per il signore, la carne di bue o di maiale allo spiedo. Il pesce viene mangiato nei giorni di magro. Quali bevande si fa ricorso a latte e vino; per occasioni speciali si consumano birra e idromele.
Il signore gode del privilegio del bagno con acqua riscaldata preparata in un grande catino di legno. porta i capelli lunghi come pure la barba. La moda di radersi apparirà solo qualche secolo più avanti. Si veste con un abito di lana o lino e cammina a piedi nudi. Per l’inverno fa uso di una pelliccia. Per le occasioni speciali (visite o ricevimenti) usa portare una veste lunga e indossa calzature di cuoio. Verso la fine del Medioevo, vengono sostituiti da una veste corta e fasce strette attorno alle gambe.
I lavori pesanti, soprattutto quelli agricoli, sono attribuiti ai servi ma i piccoli signori devono arrangiarsi nel momento del raccolto. Qualche giorno viene dedicato alle udienze o al ricevimento dei coloni che giungono al castello per il versamento dei tributi. Gran parte del tempo è comunque dedicata alla caccia di orsi e cinghiali che vengono uccisi con una lancia mentre la caccia di cervi e caprioli vengono abbattuti con arco e frecce. La piccola selvaggina è catturata con l’aiuto del falco o dello sparviero.
I divertimenti del signore sono la musica, le gare di abilità o giochi con la scacchiera. Giostre e tornei sono allietati da feste e danze.
Il feudalesimo
A partire dal 1033 tutto il territorio dell’attuale Svizzera fa parte del Sacro Romano Impero Germanico che si estende dall’Italia alla Sassonia e dalla Borgogna alla Slesia. Sfidando l’autorità dell’imperatore*, conti e duchi si appropriano di terre, di cui erano semplici governatori in età carolingia, e le trasmettono ai loro discendenti, come se fossero proprietà di famiglia. Per sottolineare la loro indipendenza costruiscono castelli e accrescono la loro potenza con nuovi possedimenti. I più deboli cercano appoggio presso i potenti o devono subirne il dominio. Un contratto con obblighi reciproci lega le due parti. Il protetto o vassallo (Colui che si sottomette a un signore, promettendo aiuto e obbedienza, ricevendo in cambio feudo e protezione) giura fedeltà al suo padrone e gli deve aiuto finanziario e militare. Il protettore o signore feudale gli cede un feudo, cioè un territorio o dei diritti (amministrazione della giustizia, prelievo di tasse, ecc.). Il sistema feudale (si tratta di un sistema sociopolitico ed economico basato su rapporti di dipendenza tra signori e vassalli. La sua base materiale è il feudo.) si può immaginare come una piramide con l’imperatore al vertice e il popolo alla base e tra i cui estremi esiste una fitta rete di dipendenze tra i signori.
(*) Nel Sacro Romano Impero viene prima eletto Re di Germania da un’assemblea di principi. Dal Papa riceve poi il titolo di imperatore con la corona d’Italia. È anche chiamato Re dei Romani.
Alcune famiglie sono riuscite a consolidare la loro autorità. Ad ovest Umberto Biancamano fonda la dinastia dei Savoia. Dai loro possedimenti attorno a Grenoble essi controllano i valichi delle Alpi occidentali; nel XII e XIII secolo dominano il Basso Vallese e il Gran San Bernardo dai punti chiave di Saint-Maurice e di Chillon (nei pressi di Montreux), estendendo infine la loro autorità a nord del Lemano nel Paese di Vaud. Le loro ambizioni sono in antitesi con quelle degli Zähringen e degli Asburgo. I primi ereditano vasti domini dal Lemano all’Aar e consolidano la loro autorità nella regione fondando borghi fortificati come Friburgo, Thun e Berna. La famiglia si estinse però nel 1218. Nell’XI secolo gli Asburgo, oltre i domini alsaziani, posseggono poche terre in Argovia ma le loro conquiste sono rapide; la famiglia eredita dapprima una parte dei beni degli Zähringen nella Svizzera centrale e poi Rodolfo si appropria dei beni dei Kyburg, compera e ottiene col matrimonio possedimenti in Argovia e nella Svizzera centrale. Attorno al 1270 gli Asburgo hanno dominio su quasi tutto il territorio tra l’Aar e il lago di Costanza.
Anche la chiesa, dal suo canto, è una potenza feudale; i vescovi, le abbazie e i conventi detengono diritti di proprietà, costruiscono fortezze e si circondano di vassalli.
La rinascita delle città
Tra le antiche città gallo-romane numerose e fiorenti, alcune sono scomparse durante le invasioni, altre sopravvivono a fatica, circondate da palizzate che proteggono la dimora di un vescovo o di un signore, qualche bottega di artigiano, una chiesa, alcuni campi e orti.
Dall’XI secolo in poi la vita ricomincia a fiorire anche nelle città. I contadini, ormai divenuti troppi per lavorare i campi, si stabiliscono, in parte, nelle città dedicandosi all’artigianato e al commercio. Antiche città come Basilea, Ginevra, Losanna si rianimano e sorgono nuovi quartieri attorno alle prime mura, si tratta di sobborghi. Il piccolo borgo di Zurigo, per merito del suo mercato, diventa una delle città più importanti di tutto l’Altopiano. La volontà dei signori permette ad altre città di sorgere. Gli Zähringen fondano Friburgo nel 1157 e Berna nel 1191, punti chiave nel territorio che la famiglia vuole controllare. Tommaso I° di Savoia pensa soprattutto ai vantaggi economici quando fonda Villeneuve sulla grande via commerciale che collega l’Italia alla Germania attraverso il Gran San Bernardo. Verso il 1400 nel solo Paese di Vaud si contano da 30 a 40 città.
La città si differenzia dal villaggio per le mura di protezione, per i privilegi di cui godono i suoi abitanti e per l’attività soprattutto artigianale e commerciale che vi si svolge. Non tutte le città hanno avuto la stessa sorte: alcune sono rimaste centri importanti, altre sono ritornate modesti villaggi, altre ancora sono scomparse, poiché i cittadini dei dintorni non erano abbastanza numerosi per assicurare l’approvvigionamento e l’acquisto della produzione artigianale.
Gli artigiani fabbricano oggetti di uso corrente, oppure si specializzano in produzioni particolari che interessano una clientela più vasta e, a volte, più lontana. La città è anche un luogo di scambio; nei mercati e nelle fiere si commerciano prodotti della terra, manufatti artigianali e articoli di lusso che provengono anche da regioni lontane.
Artigianato e commercio portano prosperità ai cittadini che a poco a poco si rendono conto della loro forza. Le città estendono la loro influenza sulle campagne vicine. Questo per ottenere il controllo delle strade e dei corsi d’acqua e quindi assicurarsi nuovi sbocchi e nuove fonti di approvvigionamento per rafforzare quindi la loro sicurezza.
Gli artigiani e i commercianti si organizzano in corporazioni (Associazioni di artigiani della stessa professione o di mercanti con scopi prevalentemente professionali. In alcune città hanno avuto un ruolo politico determinante). Esse cercano di abolire l’autorità del signore feudale e di amministrare da sole la città. Iniziano ad esercitare funzioni di polizia e ad amministrare la giustizia. Per sbarazzarsi definitivamente della tutela del signore, alcune città ottengono l’immediatezza imperiale*. Si tratta di Berna, Basilea, Zurigo e Soletta. Dato che l’imperatore vive molto lontano e non ha forza sufficiente per garantire un efficace protezione, le città sono costrette all’alleanza a scopo difensivo, come pure fanno le comunità rurali della Svizzera centrale.
(*) Condizione giuridica di quei territori e dei loro abitanti non sottomessi a un signore feudale ma dipendenti direttamente dall’imperatore. Tutti i cantoni Svizzeri la ottengono, uno dopo l’altro, tra il XIII e il XV secolo.
La chiesa
Durante il Medioevo gli uomini sono mossi da una fede profonda che ne guida l’esistenza e la chiesa esercita su di loro un’importante influenza. Nelle campagne il curato vive tra i contadini prestando il proprio servizio nelle parrocchie, coadiuvato occasionalmente da un cappellano. Al parroco spetta la decima che ogni contadino deve prelevare dal raccolto e usufruisce dei prodotti agricoli dei terreni della chiesa che sono lavorati da fittavoli o da lui stesso. La chiesa non è solo un luogo di culto ma in essa vengono discussi anche problemi della comunità e si concludono contratti.
I preti devono sottostare all’autorità del decano che a sua volta obbedisce al vescovo; egli è a capo di una diocesi e officia in una cattedrale, aiutato da un capitolo di canonici che spesso dirigono una scuola. Il vescovo visita la diocesi consacrando chiese, giudicando e amministrando sacramenti. Egli non esercita unicamente il potere spirituale, ma anche quello temporale. Per esempio, nel XII secolo, il vescovo di Losanna è anche conte del Paese di Vaud, dove è il solo a poter coniare monete. Inoltre fortifica città e mercati per proteggere i suoi beni, possiede una proprietà notevole e riceve un quarto delle decime versate alle parrocchie della sua diocesi. Il vescovo, come del resto l’abate di un monastero, è un vero e proprio signore feudale.
I monaci svolgono una funzione spirituale e materiale molto importante. Sono sollecitati da più parti a fondare monasteri, beneficiando di doni diversi, terre e diritti. I cluniacensi (Da Cluny, monastero borgognone fondato nel 910. Obbedisce alla regola benedettina; da qui parte un movimento riformatore che si estende a tutta la Cristianità nel XI e XII secolo. Esonerati dal lavoro manuale, i monaci possono consacrarsi totalmente alla preghiera e alla meditazione) si consacrano essenzialmente a celebrare le lodi divine con la preghiera mentre i cistercensi* si stabiliscono su terre da dissodare, conducendo una vita austera. Alternando le orazioni al duro lavoro manuale, essi diventano presto i pionieri nello sviluppo delle tecniche agricole e ridonano vita a numerose attività artigianali. Essi conoscono anche abbastanza bene le leggi architettoniche e sono eccellenti costruttori. Altre comunità si stabiliscono lungo le vie di comunicazione ed accolgono nei loro ospizi, mercanti e pellegrini; curano i feriti e gli ammalati negli ospedali o nei lebbrosari. I conventi sono anche luoghi di cultura. I monaci infatti, insegnano, copiano manoscritti illustrandoli riccamente con miniature e sviluppano il canto liturgico. Sotto questo profilo spicca l’abbazia di San Gallo, la cui fama si propaga in tutta l’Europa.
(*) Da Cîteaux, abbazia borgognona fondata nel 1098; questo ordine raggruppa monaci rigorosamente fedeli alla regola di San Benedetto “ora et labora”, che riabilitano il lavoro manuale e vivono in grande povertà.
Nel XIII secolo compaiono gli ordini mendicanti. I francescani (Religiosi dell’ordine di San Francesco d’Assisi (1182 – 1226); vivono in povertà, predicando l’umiltà, l’amore verso Dio e gli uomini.) e i domenicani (Religiosi dell’ordine di San Domenico (1170 – 1221), prete spagnolo che cerca di convertire gli eretici, predicando e dando esempio di povertà.). Essi si stabiliscono nelle città e predicano alle folle la rinuncia ai beni materiali e l’amore per il prossimo. Seguendo il loro esempio, dei laici fondano confraternite per soccorrere i più bisognosi. I pellegrinaggi sono numerosi e testimoniano la profonda fede di questo periodo. I fedeli intraprendono lunghi viaggi per vedere e toccare le reliquie dei santi, per ottenere l’intercessione; si recano così ad Einsiedeln, San Gallo, Saint-Maurice, al Mont-Saint-Michel, a San Giacomo di Compostella, a Roma e in Terra Santa.
La storia svizzera – Parte 2
L’età romana
Prima della conquista romana
La Repubblica romana ha conquistato, verso la fine del II° secolo a.C., buona parte della costa settentrionale del Mediterraneo; manca solo la Gallia, territorio che si estende dal Lemano al mare. I Galli (popolazioni celtiche della Gallia) non si lasciano sottomettere facilmente. Un episodio che i romani non potranno scordare fu, verso il 390 a.C., quando i Galli saccheggiarono Roma.
La Svizzera attuale è quindi sul confine del dominio romano. Verso la fine del II° secolo a.C. è occupato da svariate tribù celtiche stabilitesi in Europa nel periodo sopra citato. In prevalenza si tratta di Raurici, Alloborghi, Sequani, Nantuati, Seduni, Veragri ed Elvezi, provenienti dal sud della Germania. I Leponti e i Reti non hanno una sicura origine celtica ma ne hanno sicuramente subito l’influenza.
Verso il 120 a.C. alcune tribù provenienti dal mare del Nord invadono lentamente il sud Europa. Migliaia di persone, uomini, donne e bambini, alla ricerca di terre migliori e più fertili. Si aggiungono a questa marea di gente, due tribù elvetiche, tra cui i Tigurini di Divicone. Nel 107 a.C., nei pressi di Agen (sud-ovest dell’attuale Francia), sbaragliano un esercito romano obbligandolo a passare sotto il giogo. La reazione romana è determinata, al punto di sconfiggere il nemico. I Tigurini tornano sui loro passi e si stabiliscono sull’Altopiano svizzero, nella regione dei laghi di Neuchâtel, Morat e Bienne. Evidentemente, i romani, che sono interessati alla conquista della Francia del sud, non sopportano di questi popoli irrequieti (es.: gli Elvezi). L’Altopiano svizzero, poco abitato dopo la partenza di alcune tribù, rischia di venire invaso da popoli provenienti dalla Germania che si trovano sulla frontiera del Reno.
Gli Elvezi si preparano ad un nuovo esodo. Nel 58 a.C., condotti da Divicone e seguiti da altre tribù celtiche, lasciano il loro territorio. Si tratta di circa 400’000 persone secondo Giulio Cesare.
Sicuramente, secondo gli storici, più di 200’000.
Per convincere tutti a lasciare il loro territorio, secondo il “De bello gallico” di Cesare, bruciano le città ed i villaggi. Alcune prove sono state trovate a Berna, Basilea e al Mont-Vully. I romani impediscono però agli Elvezi di passare oltre il Rodano e quindi sono costretti a prendere la strada in direzione del Giura. Una terribile battaglia viene combattuta a Bibracte nei pressi di Autun, in Francia.
In questo conflitto sono coinvolti anche donne e bambini. Per gli Elvezi è la rovina, tornano sconfitti nel loro territorio che, ormai, è aperto alla conquista romana.
La conquista dei punti strategici
La Svizzera ha confini naturali ben delineati. A sud-ovest e a nord-est i laghi Lemano e di Costanza ciascuno, come prolungamento, con un fiume importante quali il Rodano e il Reno. A sud vi è la catena delle Alpi che era difficilmente valicabile; a nord-ovest le montagne del Giura; tutto a formare una forma tipo quadrilatero.
Verso la fine del II° secolo a.C. il territorio degli Alloborghi fino a Ginevra diventa una zona controllata dai Romani. Attorno al 45 a.C viene fondata la Colonia Julia Equestris che porta il nome di Giulio Cesare che si trova dove oggi sorge la cittadina di Nyon. La nuova configurazione porta ad una chiusura ad ovest degli Elvezi. La nuova Colonia è abitata per lo più da veterani (soldato romano oltre i 45 anni che ha portato a termine il suo servizio) della cavalleria romana (dal latino, appunto, il nome Equestris) ciò che permette anche di tenere sotto controllo tre popolazioni che qui si incontrano: Sequani, Alloborghi ed Elvezi. Come tutte le città romane importanti, Nyon possiede la sua piazza pubblica (forum) e la sua basilica.
Era però anche necessario controllare il passaggio chiave tra il Giura e il Reno, per tenere separati gli Elvezi dai Raurici loro alleati. Nel 43 a.C. i romani fondano ad Augst nelle vicinanze di Basilea, la Colonia di Augusta Raurica (Kaiser Augst), pure destinata ai veterani. Circa dieci anni prima della nascita di Cristo vengono sottomessi anche i Reti e le tribù celtiche del Vallese.
Infine, con la fondazione della città di Aosta e l’ampliamento dell’antico insediamento celtico di Octodurus (Martigny), ribattezzato Forum Claudii Vallensium, è possibile congiungere le due località con l’importante strada alpina del Gran San Bernardo, carrozzabile su tutto il percorso. Così i Romani si sono assicurati il controllo dei grandi assi stradali, sia da nord a sud che da est a ovest e dominano il quadrilatero elvetico.
L’urbanizzazione dell’Elvezia: Avenches
La civiltà romana si diffonde prevalentemente sotto forma di urbanizzazione. Infatti all’interno del quadrilatero elvetico, cioè sull’Altopiano, sorgono centri urbani, spesso dove in precedenza esisteva un villaggio o un insediamento celtico. Tra le città più importanti per estensione e funzione possiamo citare Nyon, Augst, Martigny e Avenches.
Il nome di quest’ultima deriva da Aventicum, strettamente legato a quello di Aventia, dea degli Elvezi, che avevano fatto di questa località il loro capoluogo. Le prime costruzioni dell’Avenches romana che risalgono all’inizio della nostra era, furono costruite in legno prima ed in pietra poi. Sotto l’imperatore Vespasiano, verso il 73 d.C. la città diventa colonia per i veterani dell’esercito.
Avenches, come Nyon e Augst, viene edificata secondo uno schema a scacchiera. Le strade si incrociano ad angolo retto, formando così una quarantina di insulae (isolati). Ognuna di queste misura circa 70 per 110 metri; alcune con abitazioni, negozi di artigiani e commercianti, edifici pubblici (templi, terme, ecc.) e altre costruzioni che sono situate attorno al foro. Poco lontani dal centro vi sono il teatro e l’anfiteatro. La città è protetta da una cintura di muri dalla lunghezza di circa 6 Km, con 73 di torri e 4 porte da dove passano le vie di accesso principali. Questa colonia accolse circa 20’000 abitanti che, per l’epoca, erano un numero abbastanza elevato.
L’unico porto della Svizzera romana, si trovava nella parte sud del lago di Morat, il cui livello era più alto di quello attuale. Il suo molo era lungo 100 metri. Lungo lo stesso si trovavano numerose botteghe di artigiani e stalle per gli animali (buoi) che trainavano i carri merci sulla strada che collegava il porto alla città. Il passo successivo fu quello di scavare un canale molto esteso che permettesse il trasporto di blocchi di pietra dalla cava di Concise, lago di Neuchâtel, fino ad Avenches.
Campagna e piccoli agglomerati
Oltre che di grandi città, l’altopiano è disseminato di numerosi agglomerati di estensione minore. Si tratta spesso di piccoli centri (vicus: vico; Vico Morcote, Vico Soprano, Sonvico, …) che hanno funzioni diverse a dipendenza dei casi.
Uno di questi, Lousonna (Losanna), è una vera città formata di quartieri con foro, tempio e basilica. La sua posizione favorevole nel cuore del bacino lemanico, le permette di divenire un importante centro di scambi tra Rodano e Altopiano. Il suo ruolo economico è testimoniato da un’iscrizione latina che parla dell’esistenza di un’associazione di battellieri del Lemano e da una carta stradale dell’epoca romana che da il nome di Losonne al lago.
Altre piccole località sono per esempio Salodurum (Soletta), Genava (Ginevra), Viviscus (Vevey), Minnodunum (Moudon), Pennelocus (Villeneuve), Ad Fines (Pfyn). Il vicus Vindonissa (Windisch, nei pressi di Brugg) è quello che raggruppa per lo più, i mercanti e i locandieri; infatti questo vico è legato al campo militare omonimo, capace di alloggiare un’intera legione (ca. 5’000 uomini). Si tratta di una parte del dispositivo di difesa e sorveglianza della frontiera sul Reno.
Oltre gli agglomerati gli insediamenti sono dispersi. Centinaia di villae (villa; villaggio), complessi agricoli o residenze di lusso, sono disseminate sull’Altopiano, soprattutto nella parte romanda, lungo gli assi stradali importanti e in prossimità dei centri rurali o urbani. Il paesaggio rurale è stato profondamente modificato dalla conquista romana, soprattutto a causa dell’intenso dissodamento. È a partire da questo momento che il paesaggio assume l’aspetto che noi conosciamo; infatti numerosi villaggi attuali sorgono dove erano situate “villae” romane. Lo studio dei toponimi e le molte ricerche archeologiche fatte, hanno portato a numerosi risultati; per esempio si è scoperto che il nome Payerne deriva da Paternacus, la cui abitazione si trovava dove oggi sorge la famosa chiesa abbaziale.
La civiltà gallo-romana
Per quattro secoli circa, la civiltà dei Celti, di origine nordica e quella dei Romani, di provenienza mediterranea, sono coesistite nel quadrilatero elvetico. Il risultato di questa convivenza è la profonda impronta lasciata dai Romani tra le popolazioni celtiche. Questa decisiva influenza si riflette ad esempio nel campo delle costruzioni: compaiono nuove tecniche fino ad allora sconosciute ai Celti. Numerosi mosaici decorano il pavimento di alcune dimore di lusso; un sistema di riscaldamento, rivoluzionario per l’epoca, permette di distribuire aria calda sotto i pavimenti e nei muri; mattonelle d’argilla cotta sono utilizzate per costruire colonne e si diffonde anche un nuovo sistema per la copertura dei tetti con grandi tegole ad orlo rialzato i cui cocci, ancora presenti nel suolo costituiscono un indizio prezioso per gli archeologi.
La civiltà romana ha dato un grande contributo anche in altri campi. è tipica la ceramica sigillata di color rosso e decorata con motivi in rilievo; anche la vite è introdotta dai Romani nella Svizzera occidentale e lungo il Reno. È forse necessario ricordare che la lingua latina ha dato origine a molte lingue come l’italiano, il francese e lo spagnolo*
(*) Le lingue derivanti dal latino portano il nome di neolatine o romanze e sono: il portoghese, il castigliano, il catalano, il francese, il franco-provenzale, il provenzale, l’italiano, il sardo, il ladino, il dalmatico e il rumeno.
Nonostante il dominio e l’influenza esercitata dal mondo romano, la civiltà celtica è riuscita a preservare molte caratteristiche. Ad esempio, la scultura.
Anche la religione rivela una fusione armoniosa tra le due civiltà, con la convivenza di divinità simili: Marte Albiorix, per es., è un dio nato dalle due religioni (Marte è un dio romano della guerra e Albiorix un dio celtico delle Alpi).
La concezione architettonica che è alla base del tempio “gallo-romano” illustra perfettamente questa fusione. In esso si ritrovano elementi tipicamente romani (colonnato) ed elementi celtici (pianta quadrata). Nel campo linguistico alcune parole di origine celtica si trovano nei nostri dialetti come, nella terminologia riferita al territorio (brüga, froda) e quella casearia (crenca, mascarpa). Anche parole dell’italiano hanno origine celtica come per esempio, Alpi (montagne), carro, betulla e il toponimo Milano (Mediolanum = in mezzo alla pianura.
Pure nei cognomi attestati nelle nostre zone si ritrova l’origine celtica, per esempio: Bordiga (in dialetto lombardo “Burdiga”, dal celtico “burdiga” = siepe di canne).
A partire dal III secolo, la civiltà gallo-romana assumerà pian piano nuove caratteristiche con l’arrivo sull’altopiano degli invasori germanici.
I primi cristiani
Il cristianesimo, dalla sua culla in Palestina, si espande in tutto l’impero romano. I legionari romani dall’Italia portano la nuova fede anche in Svizzera, dove si propagherà partendo dall’ovest. Non esiste, per ora, nessuna testimonianza diretta anteriore alla fine del III secolo. è in effetti ad Avenches che sono stati portati alla luce, da una tomba, due bicchieri di vetro, uno dei quali con un’iscrizione cristiana, risalenti al 300 ca.. Questo non significa che fino a quel momento nessun cristiano sia vissuto in Svizzera, ma sono le scoperte archeologiche che fanno stato.
Avenches è una città ed è appunto negli agglomerati urbani e in centri importanti che il cristianesimo si sviluppa, grazie alla gente che viaggia ovvero i commercianti, i legionari e i funzionari. A Sion è stata scoperta la più antica iscrizione cristiana della Svizzera risalente al 377. Nelle campagne, invece, le popolazioni rurali sono meno aperte alle nuove idee e si mostrano diffidenti verso la nuova religione.
La diffusione del cristianesimo verrà ostacolata dalle persecuzioni scatenate nei territori dell’impero. Roma vede in questa nuova fede un attentato alle pratiche tradizionali e una fonte di sconvolgimenti politici. Inoltre teme che il culto e la posizione dell’imperatore possano subire una perdita di potere. Verso la fine del III secolo una legione stazionata ad Agaunum (St. Maurice) fu massacrata. I soldati della legione, tra i quali San Maurizio, avevano rifiutato di offrire sacrifici agli idoli pagani. Gli storici non concordano però sull’interpretazione di questo fatto.
La religione cristiana avanza man mano che la minaccia dei popoli germanici cresce. Nel III secolo gli Alemanni invadono l’Altopiano svizzero e le strutture create dai Romani iniziano a cedere. Nel 313 lo stato romano, fino allora persecutore dei cristiani, autorizza con l’editto dei Milano, la pratica di questa religione che diventerà addirittura la religione ufficiale alla fine del IV secolo.
Da qui in poi saranno i pagani che rifiutano di convertirsi ad essere perseguitati. La chiesa si organizza pian piano, già nel IV secolo sorgono alcune diocesi in antiche località romane come, per es., Avenches e Martigny. Queste due sedi episcopali saranno trasferite a Losanna e a Sion a causa della minaccia degli invasori e della loro avanzata. Il cristianesimo è quindi ben radicato in Svizzera fin dal IV secolo ma la pratica del paganesimo (insieme dei riti pagani, da paganus; abitante della campagna) resisterà per molto tempo ancora.
L’alto Medio Evo (400 – 900)
La Svizzera degli Alemanni, dei Burgundi e dei Goti
Il sistema di fortificazioni romane lungo il Reno e il Danubio ha fatto in modo che per molto tempo i popoli germanici rimanessero situati oltre la frontiera dell’Impero spesso non senza qualche problema.
Nel III secolo gli Alemanni compiono le prime incursioni sull’Altopiano Svizzero. Le fortificazioni cadono, Augst viene distrutta, Avenches non viene risparmiata ma poi viene in parte ricostruita. Molti villaggi vengono invasi. Baden viene incendiata ben tre volte in poco meno di 100 anni. Quasi tutte le “villae” vengono distrutte. Ogni volta che i Romani reagiscono respingono l’invasore ottenendo una breve tregua. Questo permette la ricostruzione delle fortificazioni. Nel 410 Roma viene saccheggiata dai Visigoti, nel 455 dai Vandali. Una nuova era si delinea lentamente all’orizzonte; il Medioevo*
(Si tratta del periodo storico situato tra l’antichità e l’era moderna; la prima parte di questo periodo è chiamata “alto Medioevo” (476 – 1000), la seconda parte, “basso Medioevo” (1000-1492). Tra antichità e Medioevo non vi è un taglio netto poiché si tratta prevalentemente di periodi dettati dagli storici ma che in realtà sono poco visibili.).
Nel IV secolo i Burgundi si stabiliscono pacificamente nella regione del Lemano (Savoia). Ezio, generale romano, ha acconsentito a ciò. Dopo la sua morte, nel 454, i Burgundi occupano l’intera Svizzera romanda. Sono poco numerosi e si assimilano agli indigeni gallo-romani e ne imparano la lingua. Questi ultimi sotto la pressione degli invasori, si ritirarono ad ovest della Svizzera romanda. Poco tempo dopo il nord e l’est della Svizzera vengono di nuovo invasi dagli Alemanni che si stabiliscono tra il lago di Costanza le alpi e l’Aar. La loro avanzata è lenta e avviene a tappe successive: impiegheranno più di due secoli prima di raggiungere la regione di Berna.
Da allora in poi la Svizzera subisce l’influenza di due civiltà che lasceranno la loro traccia indelebile. Ad occidente i Burgundi, il cui territorio sarà annesso alla Borgogna e ad oriente gli Alemanni, nelle regioni che andranno poi a formare la Svizzera tedesca.
Nel 476 l’Impero romano d’Occidente si sgretola. nel V secolo altri popoli barbarici spingendosi a vicenda ne abbattono le frontiere. I Franchi si stabiliscono nel nord della Gallia mentre il sud e la Spagna sono occupati dai Visigoti. Gli Ostrogoti sottomettono l’Italia, il Ticino e la Rezia. I Vandali invadono l’Africa del Nord. L’Impero romano d’Oriente, separato a partire dal 395 da quello d’Occidente, sopravviverà ancora per altri dieci secoli.
Elmo germanico del VI secolo simile a quello ritrovato alla foce del Rodano, nel Lemano
La Svizzera dei Franchi e dei Longobardi
Nel VI secolo quasi tutta la Svizzera passa sotto la dominazione dei Franchi merovingi (discendenti di Meroveo, Re franco del V secolo.) Sotto la guida del loro Re, Clodoveo, conquistano un immenso territorio. Nel 496 sottomettono gli Alemanni e nel 534 pongono fine al regno burgundo. Solo il Ticino sfugge a questo invasore per essere però incorporato nel regno longobardo. I Longobardi sono un popolo germanico che si è stabilito in Germania nel VI secolo. All’interno del vasto regno franco, all’apogeo verso l’inizio del IX secolo con Carlo Magno*, i popoli sottomessi mantengono i propri caratteri. Così, sia i Burgundi che i Gallo-Romani, sia gli Alemanni che i Reti ed i Longobardi (sottomessi nel 774) conservano la loro propria cultura. Sono però costretti ad accettare il nuovo ordinamento politico imposto dai Franchi che insediano i loro funzionari nei centri urbani come Ginevra, Losanna e Basilea.
(*) Figlio di Pipino il Breve che diede inizio, con la sua ascesa al trono nel 751, alla dinastia dei Carolingi, denominazione, quest’ultima, derivante da Karolus (Carlo), assai comune tra i Franchi. (es.: Carlo Magno, Carlo Martello (nonno di Carlo Magno), ecc.).
Nell’814 Carlo Magno muore. Il potere passa al figlio e successivamente ai tre nipoti che si trovano però in discordia. Nell’843, dopo lunghe lotte, si spartiscono l’Impero. La parte occidentale, regno di Carlo il Calvo, è all’origine della Francia. La parte orientale è attribuita a Ludovico il Germanico, prenderà corpo la Germania; a questo regno appartiene anche la Svizzera orientale mentre l’ovest è inglobato nella parte centrale dell’antico impero franco, il regno di Lotario, che presto si dividerà. Sulle sue rovine sorgeranno il regno d’Italia nell’870 e il secondo regno di Borgogna nell’888, al quale apparterrà la svizzera ad ovest della Reuss.
La religione cristiana si diffonde in Svizzera grazie all’influenza dei Burgundi che si sono convertiti; saranno però i Franchi a diffonderla anche nelle campagne, rimaste per molto tempo pagane. Nell’VIII secolo, per esempio, il Re dei Franchi ordina a missionari irlandesi, tra cui Gallo e Colombano, di evangelizzare il territorio elvetico. Parallelamente, anche su iniziativa di grandi proprietari, furono erette chiese, conventi ed abbazie, che diventano centri di irradiazione della cultura come, per esempio, Romainmôtier (VD) verso il 450, Saint-Ursanne (JU) e San Gallo verso il 620.
L’eredità culturale dell’alto Medioevo
Alemanni, Burgundi e Franchi vivono soprattutto in villaggi sparsi nelle campagne in abitazioni prevalentemente di legno. Al contrario dalle numerose rovine di pietra lasciate dai Romani, i reperti archeologici sulle popolazioni germaniche scarseggiano.
La maggior parte delle informazioni provengono però dalle diverse tombe, portate alla luce sul nostro territorio. In queste tombe sono state scoperte delle fibule (fermagli metallici per abiti), placche di cinture incrostate con l’argento, bracciali, gioielli e armi. Non è comunque facile distinguere a quale civiltà appartengano tutti questi reperti. Ciò a dimostrazione dell’influenza delle diverse culture tra loro.
Con l’affermazione del cristianesimo durante il dominio dei Franchi, le usanze funebri si modificano; i cimiteri non possono quindi più essere utilizzati quale fonte di informazione archeologica.
Se il dominio franco è stato essenzialmente politico, le civiltà burgunda e alemannica hanno determinato la geografia linguistica del nostro paese. La toponomastica; disciplina che studia l’origine dei nomi di luogo, lo conferma. Ad esempio i suffissi “ingen”, “ens”, “engo” sono di origine germanica. Il primo si ritrova in più di mille nomi di luogo nella Svizzera tedesca, dove i Gallo-Romani, ritiratisi verso ovest, hanno lasciato spazio alla germanizzazione. Il secondo invece, testimone dell’influenza Gallo-Romana, erede della cultura romana, è più presente nella Svizzera romanda, dove i Gallo-Romani, mescolati ai Burgundi, sono la maggioranza (regione vodese e friburghese). Il terzo suffisso è presente in vari nomi di paesi al sud delle Alpi e principalmente in Leventina. Questo è il risultato dell’occupazione dei popoli germanici; una Svizzera fortemente germanizzata ad est, dove si imporrà lo schwyzerdütsch; ad ovest fortemente romanizzata si imporrà la lingua romanza (derivata come già visto dal latino). La lingua germanica dei Burgundi, mescolata col latino già alterato da nomi celtici è dunque all’origine dei dialetti romandi. Il Ticino, incorporato prima nel regno ostrogoto e poi in quello longobardo, è rimasto nell’orbita italiana subendone l’influenza sia nella lingua che nella cultura. Nella Rezia, poco toccata dalle invasioni, l’impronta della civiltà latina è rimasta preponderante ed è all’origine del romancio.
La storia svizzera – parte 1
La preistoria
La lunga evoluzione fino al paleolitico (da 3,5 miliardi di anni fa fino al 10000 a.C.)
Dai primi segni di nascita della vita (forme acquatiche prima e rettili poi) era l’acqua a farla da padrone su gran parte del territorio Europeo. Le uniche testimonianze di quell’epoca consistono in alcuni fossili (ca. 200 milioni di anni fa) trovati nelle Alpi vallesane. La lunga spiaggia sabbiosa sulla quale vivevano i primi rettili a cui appartenevano i fossili, nel corso dei secoli si è innalzata, per il fenomeno relativo alle placche tettoniche, fino a raggiungere i 2400 metri circa dando origine alla catena alpina. (30 milioni di anni fa).
1 milione di anni fa fino a circa 10000 anni fa, il clima si è lentamente raffreddato. Questo tratto di storia è un alternarsi di periodi freddi e periodi temperati. A dipendenza del clima i ghiacciai formatisi ricoprirono grande parte dell’attuale territorio elvetico mentre altre volte si ritirano fino alle Alpi (alcuni esistono ancora). È proprio nel periodo delle glaciazioni che fa la sua comparsa nelle nostre regioni l’uomo. Si tratta di un predatore nomade che sopravvive con quanto la natura gli mette a disposizione. Si accampa lungo i fiumi o i laghi oppure, in montagna, vive nelle caverne risparmiate dal ghiaccio. Le armi che gli servono per cacciare vengono ricavate dalla pietra (Periodo paleolitico).
Il neolitico (5000 – 2000 a.C.)
Il periodo che succede al paleolitico è denominato neolitico (5000 – 2000 a.C.). Con il miglioramento progressivo del clima avviene il fenomeno del ritiro dei ghiacciai fino alla situazione attuale. La foresta si allarga e prende piede su gran parte del territorio. Gli uomini sono ostacolati nei contatti e gli animali, abituati a climi più freddi, emigrano verso nord. Questo caratterizza un periodo di cambiamenti tanto profondi nella vita e nella società umana da far pensare ad una vera e propria rivoluzione.
Con il cambiare del clima e di conseguenza del territorio, l’uomo si trasforma da predatore (nomade) in produttore (sedentario). L’agricoltura inizia ad essere pratica così anche come l’allevamento di bestiame. La caccia e la pesca sono attività sempre praticate ma in misura inferiore al periodo passato.
In questo periodo l’uomo impara a tessere e a prodursi abiti di tessuto e non di sola pelle; la pietra non è più scheggiata ma viene lavorata (levigatura). Questo è anche il periodo dei carri con le ruote di legno piene. L’uomo impara a sfruttare meglio un mezzo primitivo quale è il fuoco; grazie all’introduzione della ceramica e della terracotta, sfrutta questo mezzo per la cottura degli alimenti.
Iniziano in seguito a formarsi i primi villaggi (comunità organizzate). I primi insediamenti sorgono sulle rive dei fiumi o dei laghi, sull’altopiano, vista l’impossibilità di inoltrarsi nel territorio a causa della presenza delle foreste. Le abitazioni non erano del tutto costruite sull’acqua ma, l’instabilità del terreno esigeva che grandi pali venissero conficcati nel suolo per donare una certa qual resistenza alle abitazioni che spesso erano isolate dal suolo. Per la maggior parte si trattava di abitazioni di circa 10 metri per 4 con un focolare, necessario per la cottura dei cibi. In questo periodo storico sono stati eretti i primi monumenti (megaliti o dolmen) di cui però si ignorano ancora le funzioni (rituali o religiose). Alcune scoperte archeologiche hanno portato alla luce alcune tombe (ancora rare) che ci forniscono preziosi dati sui nostri avi neolitici.
Vi è quindi stata una riorganizzazione sociale completa ed è per questo che il neolitico è un periodo a carattere rivoluzionario. La società assume aspetti gerarchici e si specializza.
L’età dei metalli (dal 2000 a.C all’anno 0)
A questo periodo fa seguito L’età del rame e del bronzo (dal 2000 al 750 a.C.). Il ritrovamento in Svizzera di moltissimi oggetti costruiti col rame, spiega il lento e progressivo passaggio (senza improvvise rotture) da una civiltà all’altra.
Da questo momento in poi il metallo è il materiale che contribuisce in modo decisivo allo sviluppo della civiltà visto che grazie agli stampi in pietra, gli oggetti possono venire riprodotti in serie o riutilizzati (fusione). La scoperta e l’utilizzo del bronzo soppianta piano piano il rame che è un metallo più fragile. Il bronzo, alle nostre latitudini, è apparso circa verso il 1800 a.C.. La scoperta del bronzo modifica in modo veramente importante nel campo economico; esso è alla base delle origini delle vie commerciali dell’Europa (chiamate vie dello stagno – in effetti il bronzo è una lega di rame e stagno in proporzione 9/1). Anche le armi traggono vantaggi essendo più resistenti e arricchendo il campo bellico.
Oltre all’agricoltura e all’allevamento, che riveste buona parte delle attività delle genti, l’artigianato prende piede, infatti gli oggetti di terracotta, di metallo e i tessili sono entrati a far parte della vita organizzata di queste civiltà.
Anche le usanze funerarie subiscono mutamenti. Dapprima si seppelliscono i morti in una fossa sistemata con pietre e ricoperte da un tumulo. In un periodo subito successivo si usa cremare il morto per seppellirne le ceneri in un vaso.
Dal 750 a.C fino all’anno 0 è il periodo chiamato età del ferro.
All’inizio di questo periodo preistorico vi furono abbondanti precipitazioni che causarono la crescita di laghi e fiumi rendendo impossibile la vita nelle loro vicinanze. L’uomo abbandona i villaggi lacustri per trasferirsi in altura. Vi sono poche informazioni su questi villaggi, malgrado ve ne fossero molti. Uno dei più conosciuti si trova sull’altopiano, a Châtillon-sur-Glâne, nelle vicinanze di Friburgo. Questo villaggio era un noto ed importante nodo commerciale posto sulla strada dello stagno e del sale (collegamento isole britanniche – Grecia).
La novità di questo pezzettino di storia riguarda l’uso del ferro che da, appunto, il nome a questa era. Inizialmente era un metallo prezioso perché poco conosciuto e raro come l’oro. Quando l’uso del ferro viene generalizzato vengono costruite le prime armi e compare la spada. La comparsa del ferro e la sua conseguente lavorazione producono un disboscamento piuttosto vasto (alimentazione dei forni per la fusione) che permette all’uomo di disporre di nuove terre per l’allevamento e l’agricoltura.
Anche in questo periodo le usanze funebri sono quelle della tumulazione seguite però, poi, dall’incenerimento. Nelle necropoli si sono trovate tombe piatte poste l’una accanto all’altra.
In questo periodo avviene anche la migrazione di un popolo dell’Est, proveniente dalla Germania (secoli V e IV a.C.), i Celti. Questo popolo invade tutta l’Europa occidentale. Numerose tribù celtiche si insidiarono nel nostro attuale territorio, tra cui gli Elvezi che occupano l’Altopiano che figura essere la regione più fertile. Si tratta in prevalenza di allevatori e agricoltori che vivono in villaggi costituiti da abitazioni di legno, terra e paglia con pavimento di terra battuta. Essi costruirono pure fortificazioni in altura che fungono da rifugio nei momenti di pericolo (Mont-Vully, Berna, Basilea).
Con la comparsa dei Celti, compare anche il tornio per vasai che da la possibilità di fabbricare le ceramiche dalle forme più diverse. Anche la lavorazione del ferro migliora; l’introduzione di aratro, falce, sega e martello portano benefici agli artigiani, allevatori e contadini. Appaiono pure l’oreficeria e la moneta (sul modello della Grecia) che viene utilizzata negli scambi, soprattutto, con i popoli dell’area del mediterraneo. Questa è l’ultima tappa della preistoria.
Quella che viene definita Storia ha inizio dalla nascita di Cristo (anno 0) ad oggi ed è caratterizzata da una moltitudine di eventi.
I membri della Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera – Seconda guerra mondiale
I membri della Commissione
Indipendente d’Esperti Svizzera – Seconda guerra mondiale
(Ex-membri della CIE)
Jean-François Bergier, Presidente Storico
Jean-François Bergier è nato a Losanna nel 1931. Studi a Losanna, Monaco, Parigi (Ecoles des Chartes) e Oxford. 1963–1969 professore di storia economica a Ginevra, dal 1969 cattedra di storia al Politecnico federale di Zurigo (Istituto di storia), 1976–1978 professore ospite all’Università Paris-Sorbonne , presidente onorario dell’Associazione internazionale di storia economica, presidente del comitato scientifico dell’Istituto internazionale di Storia economica F. Datini (Prato, Italien) e dell’Associazione internazionale per la storia delle Alpi. Membro corrispondente dell’Académie des Sciences morales et politiques (Parigi) e dell’Académie Royale de Belgique. Jean-François Bergier ha lavorato soprattutto nel campo della storia economica della Svizzera e dell’Europa fra il XIII e XVIII secolo e della storia dell’industrializzazione.
Le pubblicazioni più importanti:
Genève et l’économie européenne de la Renaissance, Parigi 1963.
Histoire économique de la Suisse, Zurigo 1982/Losanna 1983.
Guillaume Tell, Parigi 1988 (tradotto in tedesco e italiano).
Europe et les Suisses, Ginevra 1992, 19972 (traduzione tedesca in
preparazione).
Pour une histoire des Alpes, Moyen Age et Temps modernes, Londra 1997.
Wladyslaw Bartoszewski Storico
Wladyslaw Bartoszewski è nato a Varsavia nel 1922. Internato a Auschwitz dal 1940 al 1941, diventa poi combattente della resistenza. Dopo la guerra è per sei anni detenuto politico dello stalinismo. Dopo la sua liberazione è redattore ed editore e professore di storia contemporanea all’Università di Lublin (Polonia) e di scienze politiche alle università di Monaco, Eichstätt e Augusta. Nel 1963 gli viene conferito il riconoscimento di «Giusto fra le Nazioni» dall’Istituto per la memoria
dell’holocaust ; Nel 1991 ottiene la cittadinanza onoraria dello stato d’Israele. Altri incarichi: 1990–1994 ambasciatore della Polonia in Austria; 1995 ministro degli esteri della Polonia; dal 1997 membro del senato della Repubblica della Polonia.
Le pubblicazioni più importanti:
Aus der Geschichte lernen?, Monaco 1986.
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Das Warschauer Ghetto – wie es wirklich war. Zeugenbericht eines Christen, Francoforte sul Meno 1983, 1986(2).
Uns eint vergossenes Blut. Juden und Polen in der Zeit der “Endlösung”, Francoforte sul meno 1987.
Auschwitz-Birkenau, Friburgo (D), Basilea, Vienna 1989 (in collaborazione con Elie Wiesel, Kardinal Jean Marie Lustiger e Rita Süssmuth).
Es lohnt sich anständig zu sein. Meine Erinnerungen. Mit der Rede zum 8. Mai 1995, Friburgo (D), Basilea, Vienna 1996.
Saul Friedländer Storico
Saul Friedländer è nato nel 1932 a Praga. Durante la seconda guerra mondiale fuggì in Francia dove sopravvisse la guerra nascosto. Cattedra universitaria di storia in Israele e Stati Uniti; i suoi temi centrali di ricerca sono la seconda guerra mondiale e le relazioni internazionali.
Le pubblicazioni più importanti:
Auftakt zum Untergang. Hitler und die Vereinigten Staaten von Amerika 1939–41, Stoccarda 1965.
Pius XII und das Dritte Reich. Eine Dokumentation, Amburgo 1965.
Wenn die Erinnerung kommt, Stoccarda 1979.
Kitsch und Tod. Der Widerschein des Nazismus, Monaco 1984.
Das Dritte Reich und die Juden. Die Jahre der Verfolgung 1933–1939,
Monaco 1998.
Harold James Storico
Harold James, nato nel 1956, studiò all’Università di Cambridge. Attualmente insegna storia all’Università di Princeton (New Jersey, USA). Soggiorni in Germania, Austria e Svizzera; nel 1996 era professore ospite all’Istituto universitario di alti studi internazionali a Ginevra.
Le pubblicazioni più importanti:
The German Slump: Politics and Economics 1924–1936, OUP 1986. A German Identity, Weidenfeld and Nicolson 1989.
International Monetary Cooperation Since Bretton Woods, OUP 1996.
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Die Deutsche Bank 1870–1945, Beck Verlag 1995 (coautore).
Helen B. Junz
(membro della Commissione dal febbraio 2001) Economista
Helen B. Junz è cittadina americana. Studi in Olanda e Stati Uniti. Dal 1962 al 1979 è un alto funzionario del governo federale statunitense (Board of Governors of the Federal Reserve System, the Council of Economic Advisers and the Department of the Treasury). Dal 1982 al 1994 lavora per il Fondo monetario internazionale. Prima e dopo questo impiego occupa diversi posti nell’economia privata.
Nel 1996 fonda una propria ditta di consulenza economica a Londra. Fra le più importanti pubblicazioni del periodo seguente figura uno studio, eseguito su incarico del «Comitato Volcker» (Independent Committee of Eminent Persons, ICEP), sulla stima dei beni appartenenti alla popolazione ebrea prima del 1939 nei paesi controllati dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Dal 1999 al 2000 dirige la ricerca in un progetto sui patrimoni della Presidential Advisory Commission on Holocaust Era Assets in the United States. È stata inoltre anche consulente economica della International Commission on Holocaust Era Insurance Claims (ICHEIC).
Le pubblicazioni più importanti:
Pubblicazione di numerosi articoli in riviste di scienze economiche.
Georg Kreis Storico
Georg Kreis è nato nel 1943 a Basilea. Studi all’Università di Basilea. Professore di storia moderna all’Università di Basilea (relazioni internazionali e questioni nazionali) e direttore dell’Istituto europeo di Basilea. È presidente della Commissione federale contro il razzismo e scrive per parecchie riviste.
Le pubblicazioni più importanti:
“Entartete” Kunst für Basel. Die Herausforderung von 1939, Basilea 1990.
Die Schweiz in der Geschichte. 1700 bis heute, Zurigo 1997 (versione
francese Zurigo 1997).
Vier Debatten und wenig Dissens (Zur Historiographie über die Schweiz im
Zweiten Weltkrieg), in: Schweizerische Zeitschrift für Geschichte 47, 1997, pag. 451–476.
Membri della CIE
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Neutralitätsrecht und Neutralitätspolitik. Der Stellenwert der Neutralität in der aktuellen Debatte um die Rolle der Schweiz während des Zweiten Weltkriegs, in: Fluchtgelder, Raubgut und nachrichtenlose Vermögen, a cura dell’ Archivio federale svizzero, Dossier 6, Berna 1997, pag. 59–64.
Die schweizerische Flüchtlingspolitik der Jahre 1933–-1945, in: Rivista storica svizzera 47, 1997, pag. 552–579.
Jacques Picard Storico
Jacques Picard è nato nel 1952 a Basilea. Studiò storia alle Università di Berna e Friburgo. Soggiorno di ricerca negli Stai Uniti. Studi postdiploma di direzione d’impresa, psicologia e comunicazione. Docente di storia e cultura alla scuola universitaria professionale di Berna, dove dal 1994 al 1997 è stato capo di un dipartimento della scuola ingegneri a Bienne. Professore all’ università di Basilea, Direttore del Istituto per gli studi ebrei.
Le pubblicazioni più importanti:
Die Schweiz und die Juden 1933–1945, Zurigo 1994 (dissertazione).
Swiss made oder: Uhrenfabrikanten im Räderwerk von Politik und
technischem Fortschritt, in: Allmende 36/37, Friburgo 1993.
Vom Zagreber zum Zürcher “Ornament”, Wandel und Exil einer
Kulturbewegung 1931–1951, in: Exilforschung, Internationales Jahrbuch 10,
Monaco 1992.
On the Ambivalence of Being Neutral, Switzerland and Swiss Jewry Facing the Rise and Fall of the Nazi State, Washington, D.C. 1998.
Die Vermögen rassisch, religiös und politisch Verfolgter in der Schweiz und ihre Ablösung von 1946 bis 1973, Berna 1993 (traduzione inglese Zurigo 1993).
Jakob Tanner Storico
Jakob Tanner è nato nel 1950 a Root (canton Lucerna). Studi all’Universitä di Zurigo. Diversi soggiorni all’estero (Parigi, Londra). 1996/97 Sostituto di una cattedra all’Università di Bielefeld (Germania). Dal 1997 professore di storia generale e svizzera all’Università di Zurigo. Redattore e editore di parecchie riviste.
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Le pubblicazioni più importanti:
Bundeshaushalt, Währung und Kriegswirtschaft. Eine finanzsoziologische Analyse der Schweiz zwischen 1938–1953, Zurigo 1986 (dissertazione).
Banken und Kredit in der Schweiz/Banques et credit en Suisse 1850–1930, Zürich 1993 (edito in collaborazione con Youssef Cassis).
Finanzwirtschaftliche Probleme der Schweiz im Zweiten Weltkrieg und deren Folgen für die wirtschaftliche Entwicklung nach 1945, in: Probleme der Finanzgeschichte des 19. und 20. Jahrhunderts, a cura di Dietmar Petzina, Berlino 1989, pag. 77–98.
Property rights, Innovationsdynamik und Marktmacht. Zur Bedeutung des schweizerischen Patent- und Markenschutzes für die Entwicklung der chemisch-pharmazeutischen Industrie (1907–1928), in: Die neue Schweiz? Eine Gesellschaft zwischen Integration und Polarisierung (1910–1930), a cura di Andreas Ernst e Erich Wigger, Zurigo 1996, pag. 273–303.
Die internationalen Finanzbeziehungen der Schweiz zwischen 1931 und 1950, in: Rivista storica svizzera 4, 1997, pag. 492–519.
“Bankenmacht”: politischer Popanz, antisemitischer Stereotyp oder analytische Kategorie?, in: Zeitschrift für Unternehmensgeschichte, n. 1, 1998, pag. 19–34.
Daniel Thürer (membro della Commissione dal aprile 2000)
Giurista
Daniel Thürer è nato nel 1945 a S. Gallo. Studia giurisprudenza a Zurigo e altro a Ginevra, S. Gallo e Cambridge (LL.M.). Dal 1983 professore di diritto internazionale, diritto europeo, diritto pubblico e amministrativo all’Università di Zurigo. Visiting Research Professor presso la Harvard Law School e la Stanford School of Law. Presidente fondatore della sezione svizzera della «Commissione Internazionale dei Giuristi». Nel 1991 viene eletto membro del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Nel 1992 è cofondatore del Europa Instituts Zürich (EIZ). Altri incarichi: membro della presidenza della Società svizzera di diritto internazionale, dal 1996 presidente della «Commission juridique» del CICR. È anche coeditore di tre riviste scientifiche.
Le pubblicazioni più importanti:
Das Selbstbestimmungsrecht der Völker – Mit einem Exkurs zur Jurafrage, Berna 1976 (dissertazione).
Bund und Gemeinden – Eine rechtsvergleichende Untersuchung zu den unmittelbaren Beziehungen zwischen Bund und Gemeinden in der Bundesrepublik Deutschland, den Vereinigten Staaten von Amerika und der Schweiz (Beiträge des Max-Planck-Instituts zum ausländischen öffentlichen Recht und Völkerrecht, 90° volume), Berlino/Heidelberg/Nuova York/Londra/Parigi/Tokyo 1986 (abilitazione).
Perspektive Schweiz –- Übergreifendes Verfassungsdenken als Herausforderung, Zurigo 1998.
Numerosi saggi sul diritto internazionale, diritto europeo e diritto pubblico.
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Myrtha Welti, Segretaria generale lic. iur., giurista
Myrtha Welti, sposata, con due figlie e un figlio, è nata nel 1945 a Coira. Studia alle Università di Zurigo e Ginevra (phil I e giurisprudenza) ed è poi assistente all’Istituto di diritto dell’Università di Zurigo. Dal 1981 al 1991 è collaboratrice scientifica del segretariato centrale dell’UDC (Unione democratica di centro). Negli anni 1985– 1989 vive con la sua famiglia a Londra, Inghilterra. Nel periodo 1992–1994 è segretaria generale aggiunta e dal 94 al 96 segretaria generale dell’UDC. Segue un soggiorno con la famiglia a Bonn, Germania (1996–98). Al suo rientro si stabilisce a Zurigo dove lavora come consulente libera professionista.
Mandati (fa altri):
Vicepresidente della fondazione «Science et Cité»
Vicepresidente del consiglio d’amministrazione dell’istituto di ricerca gfs
Membro del consiglio d’amministrazione dell’Ospedale universitario di Berna,
Insel
Membro della direzione alliance F, Alleanza delle società femminili svizzere
Membro della presidenza dell’Associazione svizzera di politica estera (ASP))
Membro della Commissione federale degli stranieri (CFS)
Dichiarazione del Presidente della Confederazione Arnold Koller dinnanzi all’Assemblea federale, del 5 marzo 1997
Negli ultimi tempi il nostro Paese si è inaspettatamente trovato di fronte a pesanti critiche provenienti dall’estero. Da alcuni mesi a questa parte siamo sommersi da rimproveri, accuse, sospetti e giudizi sommari a causa del nostro comportamento durante e dopo la Seconda guerra mondiale.
Siamo stati tacciati di disonestà, testardaggine e arroganza. La reputazione del nostro Paese è messa a repentaglio perché a livello mondiale viene suscitata l’impressione che la Svizzera si sia arricchita durante la guerra, ne abbia approfittato e che le banche abbiano cercato per 50 anni di tenere per sé i beni appartenuti alle vittime dell’Olocausto.
Con queste accuse si insinua che il benessere svizzero sia fondato sulla ricettazione e che sia stato possibile solo a scapito di terzi.
Si tratta di una critica estremamente grave che mina non soltanto le basi economiche del nostro Paese, ma anche i nostri fondamenti etico-morali. Buona parte della nostra popolazione si sente profondamente scossa e rimette in discussione la propria immagine. Le domande che sorgono sono molte: perché? Perché soltanto ora e perché proprio la Svizzera, che non ha partecipato alle deportazioni né ha conosciuto movimenti antisemiti violenti, e perché proprio noi e non anche altri?
Ma anche sul fronte opposto gli interrogativi diventano sempre più accesi: c’è stato qualcosa di marcio alla base del nostro Stato? La difesa armata del nostro Paese, con le sue vittime, i suoi sacrifici, le paure della popolazione durante la Seconda guerra mondiale sono forse stati inutili, sono forse stati soltanto una facciata per nascondere la collaborazione fra le potenze politiche ed economiche? Da ultimo, in molti si chiedono se non stiamo forse pagando oggi per esserci mantenuti in disparte nella scena internazionale.
Secondo buona parte del popolo svizzero, il Consiglio federale è venuto meno al suo compito di informazione e di chiarezza. Con la presente dichiarazione non si può certo anticipare i risultati della Commissione di storici (Bergier) appositamente istituita o addirittura trarne le debite conclusioni. Lo scopo che si prefigge oggi è piuttosto quello di contribuire a rendere più oggettivo un dibattito sinora caratterizzato da aspetti fortemente emotivi e di rispondere ad alcune domande che preoccupano profondamente popolo e Parlamento.
Agli occhi del Consiglio federale è determinante come e soprattutto con quale atteggiamento affronteremo le tormentose domande, le accuse e i giudizi sommari che ci vengono rivolti. Ancora oggi, di fronte al dramma dell’Olocausto, alle indicibili barbarie del nazionalsocialismo, alla profondità imperscrutabile delle sofferenze inflitte sul piano fisico e psicologico, alle conseguenze inconcepibili di una tale distruzione di vite umane, non ci rimane che chinare il capo e tacere. Un dramma di questa portata allunga la sua ombra su tutta l’umanità e grava sulla coscienza universale. Per questo motivo, è per me un vero e proprio bisogno quello di confrontarci con il passato dando prova di umiltà, rispetto reciproco e obiettività. Colgo qui l’occasione per ringraziare la comunità ebraica in Svizzera per aver ampiamente contribuito, con la sua compostezza, a fare in modo che questa spinosa questione fosse trattata con moderazione e dignità.
In un primo tempo, il Consiglio federale, il Parlamento e l’economia hanno preso troppo poco sul serio le critiche rivolteci e ne hanno sottovalutato l’importanza. Ci siamo lasciati cogliere di sorpresa, abbiamo reagito troppo tardi, non sempre nel modo giusto e – di fronte alla mostruosità di quanto è capitato – non abbiamo saputo dar prova di sufficiente empatia per il passato degli altri. Ci siamo messi subito sulla difensiva. Purtroppo, all’estero si è così diffusa l’impressione che la Svizzera è disposta a riesaminare a fondo il proprio passato e a trarre le debite conclusioni soltanto se messa sotto pressione.
Dobbiamo accettare questa critica, anche se sappiamo che contiene in sé una buona parte di provocazione.
È più che umano voler vedere soltanto le pagine illustri della propria storia e ignorare quelle oscure. Tuttavia non è ancora troppo tardi per rileggere quest’epoca cruciale della nostra storia in modo esaustivo, aperto e autocritico, ma anche con dignità. Oggi, di fronte alle incalzanti sollecitazioni provenienti dall’esterno, non siamo più liberi di determinare “se”, a partire da quando e con quale passo affrontare i difficili anni della guerra e quelli immediatamente successivi. Improvvisamente, ci rendiamo conto di quanto dipendiamo dagli altri e di quanto siamo vulnerabili.
Dobbiamo confrontarci con la nostra storia recente non tanto perché siamo spinti a farlo dall’esterno, ma perché lo dobbiamo a noi stessi. Dobbiamo accettare il nostro passato così com’è. Il passato non può più essere cambiato, ma può aiutarci a determinare meglio il nostro presente e il nostro futuro. Non possiamo né vogliamo congedarci da questo secolo con i sentimenti di insicurezza, astio o vergogna che oggi animano molti dei nostri concittadini. Sarebbe un’ipoteca che graverebbe ineluttabilmente sulle decisioni del prossimo secolo.
Il modo in cui ci confronteremo con il nostro passato dipende da noi, popolo e autorità della Svizzera. Nessun altro può farlo al nostro posto. Ora intendiamo prendere in mano – anche se in ritardo – questo processo, in parte forse anche doloroso, con una franchezza priva di riguardi, ma anche con dignità, autostima e rispetto delle difficili circostanze in cui i nostri predecessori si ritrovarono a decidere. Per farlo abbiamo la possibilità di scegliere tra due strade: una ci unisce, l’altra ci divide, esponendo il nostro Paese alle lacerazioni che una simile dura prova potrebbe comportare.
La nostra generazione non è responsabile di quanto accadde allora. Per la sensibilità odierna, la colpa è sempre qualcosa di soggettivo. Non può esistere una colpa collettiva, né della popolazione svizzera di allora né di quella attuale. Gli esseri umani possono assumersi responsabilità solo per azioni per le quali, viste le conseguenze, esistono anche alternative.
Risulta dunque chiaro che noi, oggi, siamo responsabili, ma siamo responsabili solo del modo in cui trattiamo il passato e interagiamo con la storia. Il nostro dovere di comunità nazionale è quello di rendere possibile il ricordo e di mantenerlo vivo. Il ricordo ci aiuta a capire e a impedire che agli errori eventualmente commessi vada ad aggiungersi l’ingiustizia dell’oblio e dell’indifferenza. Non può esistere alcun dubbio in proposito: il ritorno dell’ingiustizia si alimenta anche di silenzio e del sonno delle coscienze.
Non dobbiamo per questo riscrivere da capo l’intera storia della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Oggi molti avvenimenti sono infatti incontestabili:
· la maggior parte del nostro popolo era pronta a sacrificarsi e intendeva resistere alla scellerata, violenta e barbarica ideologia del Terzo Reich; era inoltre disposta a difendere incondizionatamente la libertà e la democrazia;
· il nostro Paese offrì protezione, per un periodo più o meno lungo, a circa 300 000 stranieri, contribuendo a salvare numerose vite umane;
· con i mezzi più disparati, le nostre autorità intendevano innanzitutto preservare la Svizzera dalla guerra e garantire la sopravvivenza del nostro popolo. Tutti noi sappiamo che questa politica è stata coronata dal successo e che le ragioni di questo successo consistono in un mescolarsi di resistenza e capacità di adattamento. Sarà la Commissione di storici a esaminare in dettaglio tutti i mezzi impiegati allora e a definire se furono legittimi e inevitabili. Ricordo che uno dei più grandi conoscitori della situazione dell’epoca, sir Winston Churchill, che quegli avvenimenti visse, nel dicembre del 1944 formulò un giudizio positivo: “Cosa importa sapere se la Svizzera fosse in grado di accordarci i vantaggi commerciali da noi auspicati o se, per assicurare la sua esistenza, abbia fatto troppe concessioni alla Germania? E` rimasta uno Stato democratico che dalle sue montagne ha difeso la sua libertà. Nonostante la sua appartenenza culturale, ha condiviso in gran parte le nostre idee”.
In breve: anche se non si dovessero conoscere i fattori ultimi che decisero della salvezza della Svizzera durante il secondo conflitto mondiale, noi oggi non dobbiamo vergognarci di essere stati risparmiati dalla guerra. Ogni Paese pensò innanzitutto ai propri interessi. Questo diritto spettava anche a noi: noi avevamo il diritto di sopravvivere.
Possiamo ringraziare solo Dio e tutti gli esseri umani coraggiosi per essere stati risparmiati da questa guerra. Dobbiamo ringraziare vivamente i nostri predecessori per la loro capacità di resistenza, i loro sacrifici, le loro rinunce e la loro determinazione nel difendere la libertà, il diritto e l’indipendenza. Ringraziamo però anche gli Alleati che, con un tributo umano ancora maggiore, hanno consentito la conclusione della guerra, il sopravvivere della cultura europea e implicitamente anche il nostro futuro fatto di libertà.
Chi come me ha vissuto da bambino il difficile periodo della Seconda guerra mondiale e conserva vivi numerosi ricordi, prova ancor oggi grande rispetto e riconoscenza per il coraggio, il senso disinteressato del dovere, lo spirito di sacrificio e di solidarietà con cui i nostri genitori resistettero in tempi ostili e servirono il nostro Paese.
Dobbiamo però anche chiederci se e in che misura gli Svizzeri hanno affrontato veramente le grandi questioni morali del periodo bellico. È con senso di autocritica e in tutta franchezza che dobbiamo quindi guardare alle pagine più oscure di quel difficile periodo: penso ad esempio alla politica in materia di rifugiati, a certe transazioni di oro della Banca nazionale, al commercio di materiale bellico o alla spietatezza che animò le banche nell’identificazione di averi non rivendicati. Certamente, anche a questo proposito vi sono già numerosi studi, ma le autorità e l’opinione pubblica non si sono finora occupate in modo sufficientemente approfondito di questi aspetti della verità. Da questo punto di vista, abbiamo finora sempre seguito la strada più facile.
Non spetta a noi condannare alla leggera i responsabili dell’epoca. Dobbiamo tuttavia deciderci a fare luce sulle loro azioni e su quanto è accaduto da allora. Veridicità, giustizia e solidarietà: sono questi i tre principi che devono guidarci in questo esame del nostro comportamento durante il periodo bellico, e negli anni che l’hanno preceduto e seguito.
La volontà di giungere alla verità ne rappresenta il fondamento. Vogliamo sapere come è andata e perché è andata così. Per questo motivo, nel dicembre dell’anno scorso, dopo che il Parlamento aveva approvato con un’inabituale unanimità il decreto federale sugli averi non rivendicati, abbiamo nominato una commissione di esperti indipendente presieduta dal prof. Bergier. La commissione Bergier è incaricata di procedere a un’analisi globale di quanto accaduto all’epoca in ambito politico ed economico.
Vogliamo e possiamo guardare in faccia alla realtà, qualunque essa sia. Tuttavia, la verità storica è per lo più complessa e non possiamo quindi pretendere neanche dai migliori esperti che trovino la verità assoluta. Sarebbe già molto se riuscissimo ad avvicinarci il più possibile a essa. Poiché “è sempre l’individuo ad avere l’ultima parola in politica e nella storia”, come affermava in maniera pregnante Jean Rudolf von Salis, stimatissimo storico scomparso l’estate scorsa.
Guardiamoci bene perciò, nell’interesse della verità, dall’appropriarci della storia per obiettivi di politica quotidiana, a scopi ideologici o per meri calcoli partitici. La volontà di trovare tutta la verità presuppone lo sforzo, senza prevenzione di sorta, di cercare luci e ombre nelle loro proporzioni effettive. Questa volontà senza remore di giungere alla verità e la rinuncia a ogni presa di posizione prematura sono condizione irrinunciabile per rileggere e accettare la storia di un periodo carico di conseguenze anche per il nostro Paese. L’ammonimento “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra!” proprio nella ricerca della verità vale per tutti noi.
I fatti e gli avvenimenti storici si collocano in modo ben preciso nel tempo e nello spazio. Occorre quindi valutarli in contesti più ampi, altrimenti il lavoro storico si limiterebbe a pura contabilità. Il Consiglio federale ripone piena fiducia nella capacità della commissione Bergier di analizzare e valutare quanto successo secondo le regole riconosciute della scienza storica. Tuttavia, l’apprezzamento politico-morale del comportamento tenuto allora dalla Svizzera e le conseguenze da trarne non possono essere delegati agli storici; siamo invece noi – Consiglio federale, Parlamento e popolo – a dovervi procedere. Misura e criterio del nostro giudizio dev’essere la giustizia.
La ricerca della giustizia ci impone di considerare con equità le decisioni prese allora, essendo sottile il filo che separava la possibile libertà d’azione dalle imposizioni. Una tale valutazione richiede anche una grande umiltà da parte nostra. Nessuno di noi sa infatti come avrebbe agito nella situazione di insicurezza, minaccia e perfino paura che si viveva in quell’epoca.
La tutela dell’indipendenza del nostro Paese, legittimo obiettivo della nostra politica, non giustificava e non giustifica l’impiego di qualsivoglia mezzo. Rimane valido quanto affermato nel 1995 dal presidente della Confederazione Villiger in occasione del 50esimo anniversario a proposito della politica seguita dalla Svizzera durante la guerra in materia di rifugiati. Pur con tutta la comprensione per le minacce di quel periodo, dobbiamo ammettere che molte persone giunte in grave pericolo ai nostri confini, sono state inviate in modo pusillanime a morte certa, allorquando sarebbe stato possibile e necessario dar prova di maggiore magnanimità.
È probabile che anche nell’ambito delle relazioni economiche private e del commercio di oro della Banca nazionale, la commissione di storici giunga a conclusioni critiche nei confronti di persone che ricoprivano ruoli di responsabilità. Non è escluso che fra i vertici dello Stato e dell’economia vi fosse chi, agendo o astenendosi da ogni azione, essendo a conoscenza dei fatti ma tacendo, si sia reso personalmente colpevole più di quanto si sapesse finora, nuocendo così all’immagine del Paese. Se dovesse risultare che alcune alte cariche abbiano fatto troppo buon viso alla situazione, abbiano dimostrato poco coraggio e scarsa capacità di resistenza, quando sarebbe stato possibile e auspicabile agire diversamente, lo deploriamo vivamente.
Evitiamo però, a causa delle ingiustizie commesse da singoli individui, di vedere la Svizzera come uno Stato ingiusto. Nel nostro odierno Stato di diritto, appare ovvio che eventuali pretese sorte nel periodo bellico nei confronti della Svizzera o di istituzioni private e tuttora pendenti debbano essere adempite.
La vera risposta alla rilettura politica e morale del nostro passato ha nome solidarietà. L’8 maggio 1945, giorno in cui si concluse la Seconda guerra mondiale, il Consiglio federale indirizzò un messaggio al popolo, nel quale tra l’altro affermava: “Giudicare non è nostro compito. Il nostro compito è quello di aiutare, di alleviare le pene e di operare per il Bene”. E proprio questo il popolo e le autorità hanno fatto, in svariati modi fino ad oggi. Il Consiglio federale si rallegra che, tramite numerosi versamenti, le banche e l’economia abbiano permesso la creazione tempestiva di un fundo speciale. In tal modo si potranno soccorrere le vittime dell’Olocausto maggiormente indigenti.
Viviamo in Svizzera in una democrazia diretta. Anche per la rilettura del nostro comportamento nella Seconda guerra mondiale, questo fatto costituisce nel medesimo tempo un’opportunità e una sfida. L’accettazione della nostra storia, con le sue luci e le sue ombre, non può essere imposta a un popolo dall’alto, né tanto meno da fuori. Non abbiamo nessun timore del popolo. Ma è chiaro che questo difficile processo può essere portato a buon termine soltanto insieme al popolo, non senza di esso o addirittura contro di esso. Popolo e autorità devono confrontarsi con il proprio passato affrontarne le conseguenze che ne derivano. Nel nostro Paese, con i suoi istituti di democrazia diretta, qualsiasi tentativo di riscrivere in modo troppo distaccato ed elitario la storia e la sua interpretazione è destinato al fallimento. Una profonda divisione tra popolo e autorità su un argomento che tocca così sensibilmente l’identità stessa del popolo potrebbe influenzare in modo pernicioso l’atteggiamento politico delle nostre concittadine e dei nostri concittadini e avere conseguenze pregiudizievoli per l’avvenire del Paese.
È perciò nostro dovere affrontare questo compito con la massima sensibilità e nel medesimo tempo tutelare verso l’esterno il nostro onore e i nostri interessi nazionali. I giudizi sommari, palesemente ingiusti, sul nostro Paese e le affermazioni ingiuriose non favoriscono certo i passi avanti, ma inducono tutt’al più il popolo svizzero a reazioni stizzite. Invito perciò le istanze internazionali a comprendere che nel nostro Paese la rilettura del passato non può essere guidata unicamente dagli storici, dal Governo e dal Parlamento, ma deve avvenire con il popolo, secondo un processo democratico e nel più assoluto rispetto dei diritti costituzionali, in particolare della libertà d’espressione. Abbiamo fatto tutto il necessario per avviare il processo di accertamento della verità e siamo decisi a confrontarci con il nostro passato. Lo abbiamo già affermato più volte e lo ribadiamo: la Svizzera mantiene le sue promesse.
Vi invitiamo però a comprendere che un simile processo richiede, in una democrazia diretta, tempo e opera di convincimento.
In qualità di presidente della Confederazione, mi rivolgo innanzitutto al nostro popolo e chiedo alle nostre concittadine e ai nostri concittadini franchezza e disponibilità a percorrere insieme al Consiglio federale e all’Assemblea federale questo percorso di ricerca della verità. Dobbiamo gettare ponti di riconciliazione e dare prova di umanità, ognuno secondo il suo ruolo e le sue possibilità. Rivolgo in primo luogo un appello alle generazioni più anziane: dialogate con i giovani e rendeteli partecipi delle esperienze e delle forti emozioni di quei tempi. I giovani comprenderanno così che la resistenza contro la barbarie e la sete di potere è pagante anche quando la situazione appare disperata. E se oggi, insieme, dobbiamo trarre un insegnamento per il futuro, è quello di mantenerci vigili contro ogni accenno di intolleranza e di razzismo, ovviamente anche quando compaiono sotto forma di antisemitismo. Al discredito gettato su una minoranza o su una parte della popolazione ne segue presto un altro. Non bisogna concedere spazio a queste tendenze. La tutela generale della dignità umana, con tutte le sue implicazioni, deve venire prima di ogni altra cosa. E sotto questo aspetto proprio la Svizzera, uno Stato composto di molti popoli che convivono pacificamente, deve fungere da esempio.
Mi rivolgo anche a voi, donne e uomini scelti dal popolo e responsabili della politica nel nostro Paese, per esortarvi a proseguire con coerenza nel cammino che abbiamo intrapreso alla ricerca della verità, della giustizia, della solidarietà. Nessuna voce, provenga essa dall’interno o dall’esterno, deve fuorviarci. Non abusiamo di un tema spinoso come la rilettura del nostro passato per cercare di profilarci politicamente. Non fomentiamo diffidenze tra popolo e autorità e tra singoli gruppi della popolazione. Partecipiamo insieme, con franchezza e reciproco rispetto, a questo processo di rivisitazione del nostro comune passato, sostenuti dalla profonda convinzione che il confronto consapevole con le sue luci e le sue ombre ci fa maturare e ha un effetto liberatorio. La nostra storia prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale non deve essere né superata ne rielaborata, ma deve essere accettata da noi tutti. Se ci riusciremo, saremo anche in grado di determinare il nostro presente e il nostro futuro.
Allo sguardo al passato, il Consiglio federale desidera tuttavia affiancare anche uno sguardo in avanti.
La miseria, l’indigenza, le ingiustizie, i genocidi e le violazioni dei diritti umani non appartengono solo alla storia; sono anche realtà innegabili e gravi del presente. E’ dunque piú che opportuno creare un opera di solidarietà.
Se vogliamo fare un gesto che si iscriva nella tradizione umanitaria della Svizzera ed esprima la gratitudine per essere stati risparmiati dai due conflitti mondiali, se vogliamo riparare degnamente coloro che hanno sofferto in modo indicibile 50 anni or sono, se vogliamo contribuire fattivamente a rinvigorire l’idea di solidarietà e di civismo, oggi tanto sviliti, all’interno e all’estero, allora dobbiamo intraprendere qualcosa che permetta di mitigare le sofferenze di oggi e di domani, per intima convinzione e volontà esplicita di un Paese consapevole.
E’ in questo senso che il Consiglio federale, d’intesa con la Banca nazionale e in riguardo all’ anno del giubileo 1998, ha proposto l’idea di una “Fondazione svizzera per la solidarietà” il cui scopo essenziale sarebbe quello di alleviare la miseria in Svizzera e all’estero. La fondazione sarebbe finanziata con i proventi della gestione economica della parte di riserve auree della Banca nazionale che, in seguito alle riforme necessarie della relativa normativa finanziaria e monetaria, è a disposizione per altri scopi di natura pubblica. Il patrimonio della futura fondazione dovrebbe aggirarsi attorno ai sette miliardi di franchi. La fondazione avrebbe il compito di gestire tali riserve secondo le regole di mercato e, con una gestione accurata, si potrebbe contare in media e a lungo termine su introiti annui dell’ordine di alcune centinaia di milioni di franchi, da destinare in parti uguali all’interno del Paese e all’estero. I beneficiari sarebbero le vittime di catastrofi, di genocidi e altre gravi violazioni dei diritti umani, ivi comprese le vittime dell’Olocausto / Shoa.
Dovendosi realizzare quest’idea di fondazione svizzera per la solidarietà, il Consiglio federale rinuncerebbe definitivamente a pagamenti basati su contributi di altra natura. Questa fondazione per la solidarietà sostituirebbe la struttura di fondazione prefigurata in precedenza e avrebbe finalità molto piú ambiziose.
La creazione di una fondazione siffatta richiede tuttavia tempo, presuppone determinati accertamenti giuridici e un esame preciso della futura struttura. Per l’aiuto immediato delle vittime dell’Olocausto / Shoa sono a disposizione i mezzi del fondo speciale creato la scorsa settimana. Il Consiglio federale approva pertanto l’intenzione della Banca nazionale di alimentare il fondo con 100 milioni di franchi.
Il Consiglio federale è convinto che la creazione di una Fondazione svizzera per la solidarietà sarebbe un gesto importante e duraturo, capace di produrre effetti benefici ancora fra dieci, venti o cinquant’anni, tanto all’estero che in Svizzera, e tale da ridare nuovo vigore al principio di solidarietà che reputa essenziale per il nostro Stato. Si augura pertanto di poter intraprendere quest’opera con la Vostra collaborazione e con l’appoggio del popolo, che pure dovrà dare il suo sostegno. In questo agire avremmo un segno tangibile della nostra capacità di reagire al passato e di guardare al futuro. Sarebbe un contributo lungimirante per una Svizzera piú solidale.
Commissione di esperti indipendente presieduta dal prof. Bergier Sito ufficiale della Commissione di esperti indipendente presieduta dal prof. Bergier
Le conclusioni della Commissione furono rigorose ed impietose, e suscitarono emozioni contrastanti e sconcerto nella popolazione elvetica.
Qualcuno, indignato, accusò il Parlamento di autolesionismo per avere – all’unanimità – costituito questa commissione di indagine, altri, i più, mostrarono l’orgoglio, dei forti e degli onesti, di appartenere ad una Nazione, forse l’unica al mondo, capace di scandagliare impietosamente il proprio passato senza pudori e vergogne, nello spirito indicato dal Presidente della Confederazione Arnold Koller.
Qualcun altro, in Svizzera, ricordò che, se è ben vero, che la Germania si dissociò dal proprio passato, rinnegandolo, mai costituì una imparziale commissione di indagine, limitandosi ad accusare dei crimini e delle nefandezze Adolf Hitler, quasi che questi non fosse il Capo del governo della Germania.
E ricordò che pure l’Italia si comportò similmente, dando la responsabilità della politica razziale antisemita, delle guerre, dei crimini di guerra (l’uso dei gas, in Libia, da parte del gen. Graziani, le atrocità nei Balcani durante la II Guerra mondiale, ecc.) al Capo del governo, Benito Mussolini, duce del fascismo.
Che nelle piazze gli Italiani rispondessero “cannoni” alla domanda di Mussolini “burro o cannoni”, e che costui fosse stato osannato per ventanni, pare che tutti se ne siano dimenticati!
«I popoli che dimenticano la loro storia – ha sottolineato Josep Borrell, presidente del Parlamento dell’Unione europea (27 gennaio 2005) – sono condannati a ripeterla».
Di seguito l’intervento del Prof. Jean-François Bergier, presidente della CIE alla conferenza-stampa del 22 marzo 2002, testo pubblicato sul sito ufficiale del Governo svizzero. Sito ufficiale
Eccoci all’ultimo incontro tra voi e la CIE, che d’altronde non esiste più dal dicembre scorso. I suoi membri sono orgogliosi di potervi presentare la sintesi finale del loro impegno, pubblicata simultaneamente in quattro lingue. L’incontro ci offre però anche l’occasione di ringraziare la stampa svizzera ed estera e l’opinione pubblica che hanno accompagnato il nostro lavoro con notevole senso critico. Nel corso degli ultimi cinque anni, s’era instaurato un vero e proprio dialogo. Se, a volte, è un po’ mancata la serenità di cui avremmo gradito vederci attorniati, ciò dipende dal fatto che la posta in gioco dava vita a emozioni contrastanti, segni evidenti, a loro volta, dell’importanza e della necessità del compito che ci era stato affidato. Sia come sia, la CIE ha comunque saputo preservare la propria indipendenza in ogni circostanza. Quattro sono gli obiettivi perseguiti dalla sintesi che oggi vi consegniamo:
Riprendere e riassumere i risultati di tutte le nostre indagini, esposti nei 25 volumi di studi, contributi alla ricerca e perizie giuridiche, onde rendere tali risultati più facilmente accessibili a tutti ed evidenziare i più significativi.
– Adempiere al vero senso di un lavoro di sintesi, sforzandosi di mostrare il grado e il modo in cui i vari aspetti studiati interagiscono, venendo a formare un corpo unico, complesso, ma indissociabile: il tutto dà senso alle parti.
– Situare i dati da noi portati alla luce nel loro contesto nazionale e internazionale, in un clima, in un sistema di valori e di riferimenti o, piuttosto, in sistemi contrapposti, il cui scontro avvenuto tra il 1933 e il 1945 generò la tragedia.
– Ricordare, infine, i limiti contro cui cozza la nostra impresa, ciò che non siamo stati in grado di risolvere, per mancanza di fonti o del tempo necessario a trarre profitto di tutti i dati di cui disponevamo; in questo senso, essa apre prospettive a future ricerche.
Nei suoi 5 anni di vita, la CIE ha profuso gran parte delle proprie energie nelle ricerche d’archivio, in fondi pubblici e soprattutto privati. Pochi mesi sono quindi rimasti per la redazione, la traduzione e la pubblicazione del Rapporto finale, avvenute inoltre in condizioni materiali insolite e scomode, di cui porta responsabilità il Consiglio federale. Per questi motivi, il libro non ha tutta la perfezione formale che avremmo desiderato. La fretta traspare nella redazione e nelle traduzioni, dove non mancano le ridondanze, persino lievi contraddizioni nella valutazione di uno stesso fatto ad opera di autori diversi. L’accordo di Washington del 1946, per esempio, è visto nel capitolo 2 come un relativo insuccesso della diplomazia svizzera e nel capitolo 7 come un successo della stessa. : è una questione di punto di vista, come nel caso del bicchiere che per una persona è mezzo pieno e per l’altra mezzo vuoto…Simili dissonanze secondarie sono inerenti ad un lavoro collettivo. Abbiamo preferito accettare questi difetti e rispettare le scadenze di consegna, piuttosto che accumulare ritardi nel rincorrere una perfezione forse illusoria.
Guardando al fondo delle cose, mi preme sottolineare ciò che ritengo essenziale: questo testo, in gran parte scritto personalmente dai membri della CIE, che l’hanno inoltre ampiamente discusso e modificato prima di approvarlo, è sostenuto all’unanimità dalla Commissione. Non c’è voluta nessuna procedura particolare per appianare opinioni contrastanti: tutti noi assumiamo la responsabilità per tutto quanto viene esposto nel Rapporto. Ovviamente, se ognuno avesse avuto la libertà di scrivere da solo questa sintesi, si sarebbe espresso in modo diverso. Non eravamo sempre dello stesso parere sulla forma da adottare per raccontare i fatti ed esporre la loro interpretazione, ma siamo sempre riusciti a trovare un compromesso che, mi sembra, non toglie nulla alla credibilità dell’enunciato, anzi! Per quanto riguarda invece la sostanza dell’opera, la sua struttura e le conclusioni che vi si traggono, siamo tutti d’accordo.
Voi sapete che l’incarico ricevuto non esigeva da noi una storia generale della Svizzera al tempo del nazionalsocialismo e oltre quegli anni. Ci imponeva solo di chiarire alcuni punti controversi o poco noti di quella storia, gli aspetti che sembravano indicare come la Svizzera, cioè i suoi dirigenti politici ed economici, avessero in parte abdicato alle loro responsabilità.
Effettivamente, siamo giunti alla conclusione che in tre campi l’assunzione delle proprie responsabilità è stata carente, addirittura molto carente.
Primo campo: la politica d’asilo della Confederazione e dei cantoni. Si tratta di gran lunga della questione più delicata, poiché riguarda la vita di migliaia di esseri umani. Al pari di parecchi storici che l’hanno preceduta, la CIE ha dovuto constatare che questa politica fu troppo restrittiva e che lo fu inutilmente. L’incertezza riguardo alle cifre e le speculazioni che ne decorrono non cambiano una virgola a quest’affermazione: moltissime persone in pericolo di vita furono respinte senza motivo; altre furono accolte, ma non sempre se ne rispettò la dignità umana. Il coraggio di alcuni cittadini, il loro senso della giustizia e il generoso impegno di ampie cerchie della popolazione hanno un po’ mitigato la politica ufficiale, senza però poterne mutare il corso. Eppure, le autorità erano al corrente del destino che attendeva le vittime, e sapevano pure che un atteggiamento più flessibile e generoso non avrebbe avuto conseguenze insopportabili né per la sovranità del paese né per le condizioni di vita della popolazione, per precarie che fossero. Ciò ci impedisce di lasciar cadere l’affermazione, forse provocatoria nella forma, ma rispettosa della realtà, che la politica delle autorità svizzere ha contribuito alla realizzazione del più atroce obiettivo nazista, quello dello sterminio.
Secondo campo: gli accomodamenti con le potenze dell’Asse consentiti dallo Stato e da una parte dell’economia privata. Questa è una questione ostica, poiché nessuno può dubitare della necessità di arrivare a dei compromessi, senza i quali si rischiava il tracollo politico ed economico della Svizzera. Paradossalmente, un certo grado di cooperazione economica con il regime nazista funse da elemento di resistenza all’influsso dalla potenza tedesca e s’inserì nel dispositivo di difesa nazionale. A quel tempo era difficile valutare qual era il punto oltre cui ci si sarebbe spinti troppo lontano. Ora, noi mostriamo che in effetti si andò spesso troppo lontano, sia a Berna che nelle sedi di certe imprese; certe, ma non tutte, il che rivela che esistevano margini di manovra, i quali furono però individuati e utilizzati in modo diverso, troppo poco sistematicamente. Le nostre ricerche non hanno portato alla luce nessun caso di cooperazione per motivi ideologici o per simpatia verso il regime nazista, né da parte di organi statali né da parte dell’industria. Talune imprese vi hanno visto un’opportunità di guadagno, altre una condizione per sopravvivere – al pari della Confederazione stessa, del resto. Tuttavia, tale collaborazione ha avuto per effetto di ledere il rigoroso rispetto della neutralità. Una neutralità che empiva la retorica ufficiale, che legittimava azioni a volte scabrose o il rifiuto d’agire. Uno slogan multiuso, ma che permise distorsioni dei doveri imposti dal diritto di neutralità, le più palesi delle quali furono il cosiddetto credito del miliardo, la fornitura di materiale di guerra statale, il controllo insufficiente del traffico ferroviario tra la Germania e l’Italia.
Terzo campo di responsabilità mal gestita: la questione delle restituzioni nel dopoguerra. Né la Confederazione, attraverso disposizioni legali insufficienti e inadeguate né le imprese private, le banche, le assicurazioni, i fiduciari, le gallerie d’arte o i musei non hanno adottato con la dovuta serietà e tempestività le misure che s’imponevano, onde permettere a tutti gli aventi diritti di rientrare in possesso dei loro beni. Questa mancanza non dipese da malevolenza, dall’intenzione di arricchirsi a spese delle vittime, ma soprattutto da negligenza, dalla mancata percezione di un problema ritenuto in fondo marginale; oppure dal desiderio di conservare intatti i vantaggi derivanti dalla strategia della discrezione, specialmente quelli del segreto bancario. Questa politica ha creato i cosiddetti “averi in giacenza” ed è all’origine delle rivendicazioni e dei problemi legati alla propria immagine e alla propria storia, che la Svizzera s’è vista costretta ad affrontare in questi ultimi anni, avendoli trascurati quando sarebbe stato il momento di risolverli.
Le questioni appena esposte non sono le uniche che abbiamo cercato di chiarire. Ad esse se ne allacciano altre, per esempio l’impiego di 11’000 lavoratori forzati nelle imprese svizzere in Germania, l’occultamento di interessi tedeschi e italiani, il transito di fondi nazisti (e di criminali in fuga) e l’elenco potrebbe continuare.
D’altro canto, le risposte fornite a queste questioni non sono né complete né definitive. La ricerca deve proseguire.
D’ora innanzi, non potrà fare a meno di superare gli stretti orizzonti nazionali, di organizzarsi a livello mondiale. Poiché la maggior parte dei campi del nostro legittimo interesse oltrepassa le frontiere, sfugge alle prospettive limitate dei singoli Stati implicati. la CIE non c’è più, ma i suoi membri sì; essi veglieranno a che lo slancio preso qui e altrove non si esaurisca.
Il ruolo della Svizzera nella Seconda Guerra Mondiale
In attesa di controllo, per contrastare l’ingresso a sabotatori ed elementi di provocazione.
Protetti dalle armi dell’Esercito svizzero, neutrale ma non per questo meno determinato a difendere i confini della Patria da qualsiasi aggressione: un esercito animato pure dallo spirito umanitario di Henry Dunant,
il fondatore ginevrino della Croce Rossa Internazionale.
Ora gli scampati allo sterminio sono al sicuro, rifocillati e curati sotto l’usbergo dello scudo rossocrociato elvetico.
Durante la seconda guerra mondiale la “difesa spirituale” permise agli Svizzeri di vigilare sempre sui passi del nemico. Un nemico frontale, che prometteva, formalmente, invasioni dal nord germanico e dal sud italiano. Una difesa che nasceva dal cuore, dall’amore per la propria terra, dalla voglia di rimanere amici di tutti ma sovrani in casa propria.
L’Esercito elvetico vigila e protegge i profughi dalle aggressioni nazifasciste.
La via verso la salvezza di due bimbi entrati in Svizzera attraverso il varco del Gaggiolo (tra Varese ed il Canton Ticino), che segnava la linea di demarcazione tra la atrocità dei “nuovi barbari” italiani, come li aveva definiti Luigi Einaudi, primo futuro presidente della Repubblica italiana, pure Lui rifugiato in Svizzera, riferendosi ai suoi concittadini, e la civiltà dell’Elvezia.
I bimbi hanno già ottenuto il passaporto della Croce Rossa Internazionale. previsto per gli apolidi, ma si leggono sul volto la preoccupazione ed il sospetto, dopo le terribili esperienze subite in Italia, a seguito delle persecuzioni razziali.
Torna il sorriso, finalmente liberi e spensierati, nonostante, sullo sfondo, si percepisca lo scenario di guerra !
Terminata la guerra, scampato il pericolo, dopo essere stati sfamati, curati e difesi dalla barbarie nazifascista, senza pagare alcunché, alcuni scampati al massacro, o loro familiari, alzarono accuse contro il comportamento della Svizzera durante la II Guerra mondiale.
Costoro, dunque, non rivolsero richieste di risarcimento contro l’Italia e la Germania che li avevano discriminati e deportati con le leggi razziali, e financo neppure contro quest’ultima che aveva commesso contro di loro il genocidio, l”l’Olocausto”.
Ci furono invece accuse contro la Svizzera di eccessiva prudenza, di ambiguità, di opportunismo, dimenticando che questo piccolo Paese,circondato dai belligeranti e senza risorse alimentari, dopo aver dato asilo, per anni, a quasi mezzo milione di profughi stremati, aveva un primario obbiettivo: salvare la propria gente e la propria secolare indipendenza. Col senno di poi, forse, si poteva fare di più.
Sergio Romano (Corriere della Sera, 21 marzo 2002) ammette che la diplomazia elvetica, la magistratura, la polizia dettero prove, anche in condizioni difficili, di coraggio e indipendenza. Concludendo “Chi può dimostrare che in quelle circostanze avrebbe agito diversamente, scagli la prima pietra.”
In ogni caso per illuminare le pagine grigie la Confederazione ebbe il coraggio, unico Paese al mondo, di istituire una Commissione indipendente di esperti sulla Svizzera nella Seconda guerra mondiale» a cui fu permesso di esaminare, scavalcando il segreto bancario, gli archivi delle aziende e delle banche coinvolte nelle vicende economiche della guerra.
Presieduta da uno storico di grande valore (Jean-François Bergier) e composta da studiosi di diversa nazionalità, molti gli Ebrei, la Commissione ha lavorato per cinque anni e ha prodotto un rapporto finale: 504 pagine di analisi, documenti, grafici, dati economici e considerazioni conclusive che sono state presentate il 22 marzo 2002 a Berna con una conferenza stampa.
La Svizzera italiana
Già dal 1440 gli Urani occupando definitivamente la Leventina avevano incorporato nella Svizzera un territorio d’altra lingua, italiano per parlata, mentalità e tradizioni.
Alla vigilia della rapida guerra di Svevia, gli Svizzeri s’erano alleati con la piccola Confederazione delle Leghe Grigie, cioè avevano stabilito legami di amicizia e di solidarietà con genti di cultura retoromancia e italiana; le Valli italiane dei Grigioni s’erano ingrandite – quanto a importanza di latinità – con l’acquisto grigionese della Valtellina, di Chiavenna e di Bormio. Ora, mentre queste ultime terre andarono perdute dopo il 1797, cioè al tempo della prima campagna napoleonica, le contrade del Ticino rimasero “signoria” dei Confederati fino al 1798, quando decisero di liberarsi, ma di rimanere tuttavia con gli antichi signori e padroni.
“Liberi e Svizzeri” risuonò il motto dei Luganesi prima, degli altri Ticinesi poi, e la decisione non cessa di stupire lo straniero che si chini sulla storia delle nostre contrade; i Ticinesi, cioè, preferirono restare, da pari a pari, con le genti d’oltre San Gottardo, diverse per razza, lingua, religione, mentalità, piuttosto che aggregarsi alla Repubblica Cisalpina e ai Milanesi che erano della stessa stirpe e religione, mentalità e costumi, e che parlavano la stessa lingua, anzi lo stesso dialetto. Il generale Bonaparte, che aveva consentito il distacco della Valtellina dai Grigioni, approvò invece la decisione del Ticino, forse per non inimicarsi gli Svizzeri dai quali si proponeva (come il Delfino del Quattrocento, come Francesco I° nel Cinquecento) di trarre soldati per le sue avventure in Europa. Le terre ticinesi rimasero dunque svizzere. Nel 1803, anzi, proprio per la Mediazione del Primo Console di Francia, divennero Cantone, cioè Stato autonomo e indipendente.
Da allora, il Ticino seguì la sorte del resto della Svizzera, ma consapevole del proprio destino e intento a costruire il proprio apparato statale sul modello degli altri Stati confederali.
L’Atto di Mediazione di Napoleone Bonaparte nel 1803 permise, quindi, al Ticino l’entrata nella Confederazione Svizzera come “cantone sovrano”. Napoleone pretese però che la Svizzera mettesse a disposizione da 18’000 a 12’000 soldati (la Division Suisse) per il suo esercito.
Contingenti ticinesi, circa 600 uomini,furono incorporati nell’esercito francese e se ne ha particolarmente memoria nella campagna di Russia del 1812 di Napoleone, soprattutto per il passaggio del fiume Beresina, gelato nel freddo inverno russo.
Per un giorno intero, 1’300 soldati svizzeri riuscirono a coprire la ritirata francese dall’impeto di 40’000 soldati russi, mentre il resto dell’esercito francese (o ciò che ne era rimasto) attraversava il fiume su pontoni.
Il numero dei caduti svizzeri fu molto alto, solo 300 soldati sopravissero, ma i francesi furono salvati dalla sconfitta totale.
Qui gli Svizzeri dimostrarono la loro bravura, capacità e resistenza da montanari, comportandosi da veri eroi.
Solo la disastrosa campagna di Russia costringe l’imperatore a ritirare dalla Svizzera le truppe d’occupazione salvando il Ticino.
Malgrado un Ottocento tutto trascorso da traversie e da difficoltà – l’incessante lotta tra i suoi due partiti “storici”, con intemperanze d’ogni sorta; l’inimicizia di talune potenze straniere che lo occuparono militarmente, come avvenne tra il 1810 e il 1812 per opera del Regno Italico di Napoleone e di Eugenio Beauharnais, o lo angariarono in ogni modo, come fece l’Impero Austro-Ungarico; la trasformazione della Confederazione in Stato federativo che tolse al Cantone la direzione della sua politica doganale ed economica, isolandolo crudamente tra la frontiera politica e la barriera delle Alpi – malgrado tante traversie e difficoltà, ripetiamo, il Ticino riuscì a costruire il suo edificio statale e a rivaleggiare con i più anziani Cantoni che godevano di ininterrotta libertà e di un assetto economico secolare.
La particolarità del Ticino di unico Stato di lingua e cultura italiane libero e autonomo in Europa che gli consentì di dare un aiuto tanto considerevole alla causa della libertà e dell’unità italiane; la partecipazione del Ticino (Stato e popolazione) alla vicenda del Risorgimento è la grande pagina della sua storia.
Per fare un solo esempio, basti ricordare l’aiuto che dette il Canton Ticino, (sfidando coraggiosamente le probabili ritorsioni austriache), al principio della seconda guerra d’indipendenza italiana, alla costituzione del corpo dei Cacciatori delle Alpi, volontari posti sotto il comando di Garibaldi, che avrebbe fiancheggiato l’esercito piemontese contro gli austriaci, al fine di liberare la Lombardia. Ricordiamo infatti che, nel 1859, in Piemonte, divenne corposo l’afflusso di fuoriusciti dai vari Ducati, dal Lombardo-Veneto, dal Trentino, in gran parte desiderosi di essere arruolati sotto la bandiera del Re di Sardegna. Si giunse, nel mese di giugno, dopo lo scoppio della guerra, a quasi 40 mila unità.
Nelle sue memorie Garibaldi ricordò la tipica marcia dell’esule dal Lombardo-Veneto: essa passava per la via di Como, lungo i sentieri del contrabbando, guidati dagli spalloni. Entrati nel compiacente Canton Ticino, retto da un governo liberale vicino al Cavour, passate Lugano e Magadino, da Locarno gli esuli venivano trasportati gratuitamente sui vaporetti fino ad Arona per poi proseguire in treno sul territorio piemontese, fino a Torino Porta Susa. Vedi wikipedia
Non può essere sottaciuta l’emigrazione artistica di costruttori, impresari, architetti, artisti che lasciarono in ogni parte d’Europa – da Mosca e da San Pietroburgo (Leningrad) fino alla Spagna, dal Mare del Nord alla Sicilia e a Costantinopoli, ma sopra tutto in Italia, le testimonianze d’una straordinaria genialità e, quasi, di un naturale, prodigioso istinto del costruire.
Allo Stato federativo svizzero, il Ticino ha offerto statisti di vasta operosità e di eccezionale talento, quali Stefano Franscini e Giuseppe Motta; ha offerto e offre scrittori, uomini di scienza, economisti, docenti universitari, magistrati d’alto valore. Dal punto di vista svizzero, si deve quindi salutare con particolare soddisfazione la politica gottardista dei cantoni centrali, che permise la formazione di una Svizzera italiana (Ticino e Valli grigionesi) e, con ciò, la configurazione di una Svizzera quadrilingue, di diverse stirpi e fede religiosa, e tuttavia unita nell’ideale della volontaria collaborazione pacifica, cioè nell’affermazione della ragione e della buona volontà sulle passioni e sugli altri elementi irrazionali.
E che cosa rappresenta per la Svizzera italiana, il fatto di essere parte integrale della Confederazione? Vantaggi d’ordine politico che nessuno può dimenticare: quasi cinque secoli di pace ininterrotta; l’esigenza di un certo livello economico di esistenza; una provata educazione democratica (che si vorrebbe dire frutto d’esperienze secolari) che è disciplina e anche senso di solidarietà tra le classi sociali, che in Svizzera non sono separate da abissi come altrove, ma tendono a un livello di media prosperità; di più, dal punto di vista svizzero, la condizione del Ticino gli ha conferito l’impegno, e però anche il vantaggio, di essere uno “Stato”, se anche non più interamente sovrano, sempre però indipendente e largamente autonomo; questo vuol dire, ancor oggi, certa libertà di movimenti e dovere di emulazione con gli altri Stati confederati, e doveri in genere, obbligo di serio lavoro per sviluppare istituti civili, raggiungere posizioni materiali, conservare dignità di Cantone, anzi di “Svizzera italiana”.
La comunanza etnica e culturale con la gran madre, l’Italia, oltre a dargli l’orgoglio di un’antichissima e umanissima civiltà, il ricordo di mezzo secolo di collaborazione al Risorgimento, gli affida poi delle responsabilità particolari, e dovrebbe dargli, altresì, una sensibilità particolare.
Georg Thürer
Guido Calgari
Le popolazioni — di etnia celto-longobarda*, di cultura e lingua italiane (**), di natura indipendente e di radicata tradizione democratica, di questa regione del Nord della penisola italiana — si opposero con le armi, alla fine del ‘700, all’annessione alla Repubblica cisalpina, di ispirazione giacobina, quasi presagissero l’evolversi di quella Repubblica, centralista sul modello francese, succube di Napoleone, nell’avventuroso e bellicoso Regno italico di Eugenio Beauharnais.
(*) I Longobardi furono i portatori di un preciso e fiero costume di libertà che si estrinsecava nella assemblea deliberante e politicamente responsabile degli arimanni, dei liberi e guerrieri, dei liberi e forti.
(**) il ticinese è dialetto lombardo.
Quell’eroica resistenza* (iniziata a Lugano il 15 febbraio 1798, guidata da due avvocati conservatori di Ponte Tresa: Annibale Pellegrini e Angelo Stoppani), fu valutata nel 1803 nell’Atto di Mediazione di Napoleone** (allora Primo Console della Repubblica Francese, e Presidente della Repubblica Italiana), e risparmiò il Ticino, nella seconda metà dell’800, dall’essere successivamente annesso al Regno d’Italia, voluto dalla Casa di Savoia sul modello unitario e centralista francese, Dinastia che trascinò il Paese conquistato, pressoché l’intera penisola italiana, verso una disastrosa politica di potenza e di espansione
(*) L’opzione elvetica non era un rinnegamento dell’italicità, bensì una scelta consapevole per difendere spazi d’autonomia in una Svizzera plurilingue.
Linguaggio ed identità nazionale non costituiscono una invariabile equazione. Unicità di lingua: mito giacobino che ha omologato e distrutto le minoranze linguistiche in molti Paesi europei.
“Liberi e Svizzeri”: Pellegrini e Stoppani avevano capito che la libertà svizzera non era evidentemente la libertà francese. Essi rigettarono, come tuttora rigettano i loro discendenti, l’uniformità, la centralizzazione della visione razionale giacobina voluta a Parigi.
La visione giacobina francese è riuscita a dominare anche l’attuale Unione europea, imponendo i valori dell’indivisibilità e dell’uniformità:
Un paradiso burocratico” dove tutti i bambini studiano lo stesso soggetto alla stessa ora in ogni scuola, dove tutte le banane hanno la stessa curvatura, e regole uniformi stabiliscono la quantità di grasso vegetale presente nel cioccolato, dal Circolo Artico ai Stretto di Gibilterra”. (Jonathan Steinberg, University of Pennsylvania)
Questa visione di uniformità perfetta ha plasmato gli acquis communautaire” applicata in ogni stato dell’Unione, imposta nella sua interezza ad ogni membro potenziale”.
Questo prezzo la Svizzera, per il diritto di appartenenza all’Unione europea, non è disposta a pagarlo neppure ora.
I Ticinesi dissero nuovamente no (85%), nelle votazioni del Marzo 2001, alla libertà francese (negoziazione per l’adesione immediata all’UE), come i loro antenati due secoli prima.
(**) Nel 1803, Napoleone ridisegna la Svizzera: il Primo Console assegna al paese una nuova Costituzione e ridefinisce – una volta di più, ma con successo duraturo – i confini interni.
Sei regioni ottengono lo statuto di cantoni a pari diritti: Argovia, Grigioni, San Gallo, Ticino, Turgovia e Vaud.
Il nuovo ordine rappresenta un tentativo d’equilibrio fra la tradizione aristocratica dell’antica Confederazione e gli ideali rivoluzionari francesi.
I Savoia pare si fossero dimenticati della avveduta e saggia azione e lezione politica di un grande uomo di Stato, Camillo Benso [1], conte di Cavour, (svizzero, sarebbe oggi con la legislazione attuale, per parte di madre*), che aveva per loro realizzato l’unificazione della Penisola sotto la corona sabauda.
(*) La madre, Adèle de Sellon ( 1846), era Ginevrina.
I Ticinesi, grazie alla eroica resistenza ed alla volontà espressa nel 1798, non subirono le avventurose imprese del Regno sabaudo. I Savoia, infatti, conquistata la corona d’Italia (*), dichiararono rovinose, sanguinose, anacronistiche ed, in definitiva, infruttuose e velleitarie guerre d’avventura, non solo coloniali, invece che dedicarsi alla modernizzazione del Paese conquistato, mediante la scolarizzazione delle plebi e la costruzione di infrastrutture civili.
(*) Forse non è pienamente condivisibile l’indignazione di Antonio Gramsci (in “Ordine Nuovo”, 1920) laddove scrisse che “lo stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri, che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”.
Tuttavia non si può che censurare il sistematico ricorso alla repressione militare (“Legge Pica” del 15 agosto 1863) dei fenomeni di ribellione, ché altro non era, il brigantaggio, che una questione ardente agraria e sociale, che doveva essere affrontata nelle sue cause, rimuovendo le ingiustizie e le arretratezze, e promuovendo lo sviluppo, e non già con la repressione e le fucilazioni, o con il cannoneggiamento di Milano (dal 6 al 9 maggio 1898) da parte del gen. Bava Beccaris. (Le fonti ufficiali registrarono più di 80 morti e 450 feriti, oltre duemila arresti e 823 processi davanti ai tribunali militari). Il canto, scritto in seguito ai fatti di Milano, è noto col titolo “Il feroce monarchico Bava”. Ma si sa che violenza chiama violenza. Uno sconosciuto anarchico (Bresci) venuto dall’America già preparava nell’ombra la vendetta: due anni dopo, a colpi di pistola, crederà di vendicare i morti di Milano uccidendo il re.
Dopo la disfatta terrestre di Custoza [2] e la disfatta navale dell’ammiraglio Persano a Lissa contro la flotta austriaca al comando dell’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, (1866, guerra che, comunque, consentì l’annessione del Veneto al Regno sabaudo), vollero la conquista (risultata effimera) dell’Eritrea, dell’Abissinia, della Libia, dell’Etiopia, della Somalia, dell’Albania, ecc.
E successivamente, nella prima metà del ‘900, il Canton Ticino, democratica e libera Repubblica, non dovette subire le vicende tragiche dei propri fratelli italiani, sudditi del Regno sabaudo. Il re Vittorio Emanuele III di Savoia, infatti, trascinò i propri sudditi nelle immani tragedie della prima e della seconda guerra mondiale, mostrando altresì acquiescenza alla ventennale dittatura fascista [3], ed all’intervento nella guerra di Spagna, promulgando finanche le infami leggi razziali.
D’altra parte non può non ritenersi che quanto accadde nei solo 86 anni di regno sull’Italia non fosse che la inevitabile conseguenza della bellicosa natura dei Principi di Savoia, contro i cui desideri di conquista della Romandìa (in particolare Ginevra e Vaud), i Confederati dovettero combattere per lunghi secoli nel Medioevo.
Sol dopo aver, gli Svizzeri, imposto, con le armi, il rispetto della propria sovranità, nel corso dei secoli, intervennero stretti vincoli militari (capitolazioni)* tra i Cantoni e Casa Savoia [4].
(*) Le truppe, spesso definite con tono dispregiativo mercenarie, venivano assoldate sulla base di accordi diplomatici ben definiti, stipulati tra i Cantoni di provenienza e la Casa di Savoia e chiamati «capitolazioni militari».
I Savoia, quindi, non essendo riusciti ad espandere il proprio dominio ad Oriente, l’Elvezia, si volsero verso Sud, occupando, nei secoli, prima la Valle d’Aosta e poi il Piemonte, le cui popolazioni risultarono di più agevole asservimento [5].
Essi trasferirono la propria capitale, sistematicamente, nel territorio conquistato, parendo dimenticarsi della patria dei propri avi, e dei sudditi che, via via, avevano consentito loro la realizzazione della nuova conquista.
E così, successivamente, da Torino questi monarchi trasferirono la propria capitale a Firenze e quindi a Roma, barattando addirittura la madrepatria, la loro culla di origine, la Savoia, con la Francia, pur di estendere il proprio Regno
Emblematicamente Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia, per palesemente attestare il suo ruolo di “conquistatore”, continuò a chiamarsi coll’ordinativo “II”, calendosene punto dei sentimenti di molti Patrioti del Risorgimento, anche Meridionali, che avevano combattuto per la “Libertà” e la “Unità” e non per darsi un altro monarca.
I Ticinesi quindi non si lasciarono lusingare, durante il periodo fascista*, dai richiami secessionisti – sostenuti dalla becera ostentazione della “grandezza” dell’Impero, “rinato sui colli fatali di Roma….” (con foto di Mussolini, su cavallo bianco, che brandisce la spada dell’Islam….) – richiami provenienti dal Regno d’Italia, la cui legislazione li ha definiti “Italiani non regnicoli” (1), ed oggi, col mutamento della forma istituzionale, “Italiani non appartenenti alla Repubblica”, corpus ordinamentale che li parifica agli Italiani nei diritti d’accesso alle Università**, pubblico impiego ed alle professioni, non considerandoli stranieri***, e quindi, tra l’altro, escludendoli (art. 4) dalle discriminazioni, per esempio in materia matrimoniale, previste dal, non più vigente, Regio Decreto legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, art. 4 (Provvedimenti per la difesa della razza italiana), ecc.
(*) alle elezioni del 1935 i due partiti di estrema destra ticinesi, complessivamente, non raggiunsero il 5% dei suffragi. Fée;dée;ration Fasciste Suisse: 1,2% alle cantonali del Ticino (1935).
(1) quelli cioè che, pur non avendo la cittadinanza italiana, siano originari di territori etnicamente italiani, ma politicamente non facenti parte del Regno (Circolare N. 9270/ Demografia e Razza del Ministro dell’Interno del 22 Dicembre 1938).
(2) (**) R.D. 31 agosto 1933, n. 1592; R.D. 4 giugno 1938, n. 1269; Legge 19 gennaio 1942, n. 86, ecc.
(3) (***) R.D. 18 giugno 1931, n. 773 T.U.L.P.S (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) art. 150, recante il divieto d’espulsione dal regno; R.D.; 30 settembre 1938, n. 1706 (Autorizzazione ad aprire ed esercitare una farmacia); R.D. 21 aprile 1942, n. 444 (accesso in Magistratura nel Consiglio di Stato), ecc. ecc.
I Ticinesi (Rezzonico) risposero pacatamente, allora, con il libro: “Gli Svizzeri a Roma”.
Chi sono gli artefici dell’attuale assetto urbanistico della Città Eterna? A parte il romano Bernini, fenomeno isolato, i principali architetti della Roma papale sono ticinesi, quindi svizzeri: il Borromini, il Longhena, i due Fontana, il Maderna, loro nipote, Domenico Rossi……
Il libro documenta il tutto con dovizia di fotografie lasciando intendere che si dovrebbe parlare di riunione di Roma al Ticino, e non del contrario….
La tradizione di terra d’asilo è stata onorata, con mille difficoltà, nell’ ‘800 e nel ‘900, dando accoglienza ad uomini di ogni idea e nazionalità; da Federico Confalonieri a Giuseppe Mazzini, da Mikhail Bakunin a Carlo Cattaneo, Karl Marx, Andrea Costa, Carlo Cafiero, Anna Kulisciov, Errico Malatesta e Pietro Gori.Sull’emigrazione politica in Ticino di esuli italiani, dopo l’instaurazione sabauda del Regno d’Italia, si veda il libro “Lugano bella, addio” di Maurizio Binaghi.
Ed ancora a Luigi Einaudi, futuro Presidente della Repubblica italiana, ad Amintore Fanfani e financo ad Edda Mussolini.
Repubblicani o garibaldini, socialisti o anarchici, massoni o irredentisti.
Mille difficoltà giacché in quegli anni il Ticino era strettamente sorvegliato da Berna e spesso anche occupato militarmente.
La Confederazione doveva stare attenta a quanto succedeva in un cantone periferico ma, per la sua vicinanza al Regno d’Italia, centrale da un punto di vista strategico. Per questa ragione, la presenza e l’azione degli esuli nella Svizzera italiana finiva per influire non solo sulla politica cantonale, ma sulle relazioni tra la Confederazione e il Regno d’Italia.
Celeberrima è la canzone “Addio Lugano bella”, scritta nel 1895 da Pietro Gori, in occasione dell’espulsione di anarchici, riparati in Svizzera dopo l’uccisione, per mano dell’anarchico Sante Caserio, del Presidente francese Sadi Carnot.
Con la Repubblica italiana, nata dopo la seconda guerra mondiale coll’unificazione dei territori appartenuti al Regno d’Italia ed alla Repubblica sociale Italiana, (con capitali a Brindisi ed a Salò, rispettivamente), gli attuali rapporti amichevoli e di collaborazione sono tutt’affatto diversi rispetto alla prima metà del ‘900, tanto da far dimenticare le sottili inquietudini, durate decenni, suscitate dalle rodomontiche e del tutto velleitarie mire italiane [6][7] sul Cantone.
E tale irriconoscente protervia del Capo del Governo italiano (Mussolini) nonostante che, nell’aprile del 1904, costui – beneficiando del diritto d’asilo in Svizzera – evitò l’espulsione dalla Svizzera e la galera italiana per effetto di una condanna per renitenza alla leva, grazie all’intervento del Gran Consiglio (Parlamento) e del Consiglio di Stato (Governo) ticinesi [8].
Dopo 50 anni da allora, nel 1997, la Svizzera, non temendo più un’invasione italiana, ha avviato dunque lo sminamento di ponti e viadotti di confine. Tali precauzioni furono necessariamente prese dal governo elvetico in risposta alle rivendicazioni di Mussolini circa l’italianità del Canton Ticino.
Durante la II Guerra mondiale i Ticinesi, correndo rischi personali, offrirono generoso asilo e rifugio agli italiani dei due Stati della Penisola (Regno del Sud e Repubblica sociale di Salò), civili e militari in fuga dalle persecuzioni germaniche, violando le leggi svizzere vigenti, se fu condannato, è oggi pienamente riabilitato. (fonte: Swissinfo)
La città italiana di Domodossola, ai piedi del Sempione, ha inaugurato sabato 2 Ottobre 2004 una piazza dedicata al «Popolo della Svizzera». Nel quadro del 60esimo anniversario della Repubblica partigiana dell’Ossola, la città ringrazia gli Svizzeri per aver accolto migliaia di rifugiati nel 1944. Una piccola piazza del centro di Domodossola ricorda l’aiuto prestato da Vallesani e Ticinesi a migliaia di profughi che erano fuggiti dalle forze italo-germaniche (migliaia di soldati tedeschi, ufficiali SS e «camicie nere» italiane) nell’ottobre del 1944. Tra questi, 2’500 bambini erano stati accolti da famiglie elvetiche. Gli adulti avevano invece trovato rifugio presso strutture della Croce Rossa. «Nel 60esimo anniversario della repubblica partigiana, l’Ossola ricorda il soccorso fraterno e generoso prodigato dagli amici svizzeri», indica la targa commemorativa redatta in italiano, francese e tedesco. (fonte: Swissinfo)
Il passaggio oltre la frontiera elvetica significava la salvezza dalle persecuzioni, dall’odio e dalle barbarie.
Due bimbi rifugiati, con accanto la mappa utilizzata per sfuggire ai persecutori ed agli aguzzini. Il percorso per passare la frontiera verso la salvezza e la libertà fu quello del valico del Gaggiolo, tra la provincia di Varese ed il Canton Ticino.
Nel Paese della Pace e della Concordia finalmente ritrovano la gioia di vivere, lontani dall’orrore delle persecuzioni e della guerra.
Il Ticino ha sempre respinto ogni proposta di apertura all’Unione Europea.
Una delle cause determinanti, se non la principale, è la sua situazione di cantone di frontiera con l’Italia, nazione di cui sente e subisce gli umori e anche ne approfitta. Con una doppia valenza.
Da un lato l’Italia assume la funzione più concreta e visibile di “esempio europeo” ed è un esempio che non entusiasma nessuno: quindi, meglio tenersene fuori. D’altro lato si vive sulla certezza che solamente ciò che è differenza con l’Italia fa il Ticino e può essere utile al Ticino.
Storicamente sono sempre state le disgrazie politiche ed economiche italiane che hanno fatto la fortuna ticinese: fughe dei capitali, disoccupazione e manodopera frontaliera, evasione fiscale, contrabbando, casinò, maggiore efficienza dei servizi, da quelli bancari a quelli attuali sulla fecondazione artificiale ecc…
L’apertura o la liberalizzazione è quindi vista come rischio di omogeneizzazione, fine delle differenze, sicura perdita economica, concorrenza insostenibile, maggiore criminalità. (Silvano Toppi) [10]
NOTE
[1] Cavour ebbe stretti rapporti e relazioni con la Svizzera, e vi soggiornò regolarmente dal 1835 al 1848, ed ebbe amicizie influenti nella Confederazione.
Fu fortemente influenzato dallo zio materno, Jean-Jacques de Sellon, svizzero di Ginevra, che abitava una villa sulle alture di Ginevra, La Fenéetre, col quale era unito da legami di sangue, amicizia ed affinità intellettuale.
Era dei Sellon anche il castello di Allaman, sulla riva destra del lago Lemano. Quando non erano al castello i Sellon villeggiavano e ricevevano gli amici a La Perrière, dove esiste una vecchia sorgente termale.
Per visitarli Cavour doveva attraversare il San Bernardo, scendere sino a Bourg-Saint-Maurice, proseguire per Moîitiers.
I de la Rive, invece, lontani cugini di Cavour, passavano i mesi della villeggiatura a Presinge, un villaggio a nord-est di Ginevra, vicino al confine con la Savoia.
Gli altri zii ginevrini di Cavour, i Clermont-Tonnerre, abitavano a Le Bocage, non lontano da Ginevra, una elegante casa di campagna composta, come un domino, di parti costruite in tempi diversi.
Cavour amava la Svizzera e ne era ricambiato: passando da Ginevra per recarsi a Plombières, fu accolto con ovazioni.
Fu Cavour a volere il trattato di commercio tra Regno di Sardegna e Confederazione Svizzera (1851) poi rinnovato nel 1878 tra il neonato Regno d’Italia e la Svizzera.
[2] Il 1866 è l’anno della terza guerra d’indipendenza, la prima dopo l’unità d’Italia, ed è quella che dovrebbe mostrare la forza militare e il grado di coesione del paese.
L’Italia scende ancora una volta in campo contro l’Austria-Ungheria, a fianco della Prussia. La guerra è stata dichiarata il 20 giugno e solo 4 giorni dopo, il 24, l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza, nei pressi di Verona.
Lo smacco di Custoza non era grave militarmente ma lo era politicamente, perché il giovane Regno d’Italia mostrava la sua inconsistenza nazionale di fronte all’Europa. A questo punto bisognava ottenere una rivincita immediata di Custoza: occorreva una vittoria pronta e convincente e poiché questa vittoria non era in grado di darla l’Esercito, toccava alla Marina.
Una vittoria navale, anziché terrestre sarebbe stato il riscatto. E intervenne, invece, la sconfitta della flotta italiana, al comando dell’ammiraglio conte Carlo Pellion di Persano, a Lissa.
Nella primavera successiva (1867) l’ammiraglio Persano venne messo sotto processo per la sconfitta di Lissa.
L’esercito prussiano a Koniggratz (Sodowa, in Boemia) decideva le sorti della guerra dopo aver battuto l’esercito austriaco. La mediazione di pace di Napoleone III comporterà la cessione del Regno Lombardo-Veneto alla Francia, e successiva cessione del Veneto, dalla Francia, ai Savoia.
[3] Dittatura conclusasi con un “golpe” (colpo di stato) del re Vittorio Emanuele III che fece arrestare dai Carabinieri reali l’inerme Mussolini (allora capo del governo) il 25 Aprile del 1943 durante una visita protocollare di questi a Villa Savoia, dimora privata del re, in Roma, violando, il monarca, i più elementari e sacri doveri dell’ospitalità;.
[4] Truppe svizzere furono al servizio dei Principi di Casa Savoia, sia quando erano sovrani di terre al di là dei monti, sia dopo.
Dal 1241 (prima alleanza di Berna con Amedeo IV) al 1814 (ultima capitolazione di Vittorio Amedeo I con i Grigioni) sono 23 le capitolazioni firmate ed una trentina i reggimenti forniti dai Cantoni: altrettanti i generali.
Gli Svizzeri, quando combattono, combattono per davvero. Numerosi sono i fatti d’arme: la Madonna dell’Olmo, la guerra delle Alpi, ecc.
Dal 1609 i 100 Svizzeri formano la guardia personale del Duca, che tale resta fino al 1832, ultima delle truppe capitolate ad essere sciolta: resta in loro ricordo il salone degli Svizzeri nel palazzo reale di Torino. Gli ultimi sette abati di San Gallo (1654-1796) vengono tutti insigniti dell’Ordine Supremo della SS. Annunciata. Antica amicizia e probabile riconoscenza per i molti reggimenti forniti dagli Abati ai Savoia…
[5] E’ nota la vocazione tradizionalmente monarchica di queste popolazioni.
Sembra riscontrarsi un apparentamento con il “plaisir de servir” tipicamente francese, tanto che, ancor oggi, non è infrequente leggere necrologi sulla Stampa di Torino nei quali il defunto veste ancora la livrea, rectius la tuta, essendo qualificato orgogliosamente “Anziano FIAT”.
[6] ….. perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, ………., a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza – Discorso di Bologna del 3 Aprile 1921
[7] E, alla Camera dei Deputati del Regno d’Italia, dopo essersi doluto che il confine del Regno d’Italia non giungesse sino alle Alpi (per proteggere (sic!) Milano), il futuro duce degli Italiani proseguiva – tra gli applausi – affermando che “……ma d’altra parte in questa Camera e fuori tutti sanno che nel Canton Ticino, che si sta tedeschizzando e imbastardendo, affiora un movimento di avanguardie nazionali, che io segnalo e che noi fascisti seguiamo con viva simpatia”. Camera dei Deputati del Regno d’Italia – 21 giugno 1921.
8] Nell’aprile del 1904, Mussolini, ancora a Chiasso per essere espulso in Italia, viene “graziato” dall’indulgenza del Consiglio di Stato ticinese.
In Italia l’attendeva una sicura pena per renitenza alla leva.
Mussolini trascorre i primi mesi del 1904 tra Ginevra e Annemasse (Alta Savoia), occupandosi di attività politica, sindacale e giornalistica: comizi, conferenze, corrispondenze a riviste socialiste e anarchiche.
Frequenta anche la Biblioteca universitaria, dai cui registri risulta che abbia consultato soprattutto trattati sulle malattie veneree.
Giuridicamente, la sua posizione si fa precaria. In Italia è ricercato per renitenza alla leva; in Svizzera è schedato come sovversivo e sorvegliato dalla polizia; per di più il suo passaporto è scaduto e non può chiederne il rinnovo, siccome “disertore”. (fonte: Swissinfo)
Decide allora di falsificare la data di validità del documento, ma le autorità ginevrine non tardano a scoprire l’irregolarità. In aprile viene arrestato e poi espulso dal cantone.
La polizia decide di farlo accompagnare alla frontiera italiana a Chiasso, ciò che avrebbe significato l’arresto da parte delle autorità del Regno.
Contro l’espulsione di Mussolini si mobilitano gli ambienti socialisti e quelli dell’emigrazione italiana in Svizzera. Giuseppe Rensi, intellettuale socialista rifugiatosi in Ticino e in buoni rapporti con vari esponenti liberali-radicali locali, interviene per farlo liberare.
Lunedì 18 aprile 1904, il deputato radicale al Gran Consiglio ticinese Antonio Fusoni interpella il governo “per sapere se la direzione di polizia ticinese si sia restata o meno alla consegna al confine italiano di certo Mussolino (sic), stato espulso dal cantone di Ginevra”.
L’interpellante trova scorretta la consegna di Mussolini all’Italia: la renitenza al servizio militare essendo un delitto politico, simile espulsione violerebbe il diritto d’asilo.
Evitata la galera
Il consigliere di Stato Luigi Colombi, responsabile del dipartimento di polizia, rassicura l’interpellante.
Avendo avuto conoscenza per via indiretta dell’espulsione ordinata dalle autorità ginevrine “e sapendo non procedere la medesima da nessuna condanna per reato comune”, la direzione di Polizia “diede istruzioni ed ordini nel senso che detto signore non venne né consegnato, né tradotto al confine, ma lasciato libero di scegliere, per abbandonare il cantone e la Svizzera, quella via che più gli convenisse”.
Così, nel 1904, alcuni esponenti politici ticinesi, decisi a far rispettare il diritto d’asilo in Svizzera, anche contro il volere di altre autorità cantonali, evitarono al disertore ed agitatore Benito Mussolini un sicuro soggiorno nelle galere italiane. Sia consentita un’ossrvazione: a testimonianza di riconoscenza, Mussolini si determinò, nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, ad invadere il Ticino, facendo predisporre dal gen. Mario Vercellino il piano di invasione. Non lo fece perchè si rivolse contro la Grecia, con i risultati disastrosi che sappiamo.
[9] La legge per l’annullamento delle sentenze pronunciate nei confronti di coloro che hanno aiutato le vittime delle persecuzioni naziste prevede un doppio meccanismo.
Da un lato tutte le sentenze sono annullate, dall’altro la legge istituisce una commissione a cui è possibile rivolgersi per ottenere l’annullamento di una specifica sentenza.
[10] – 21 maggio 2000: il Ticino respinge con il 57% di no gli Accordi bilaterali – 5 giugno 2005: il Ticino respinge con il 61,9% di no gli accordi di Schengen/Dublino – 25 settembre 2005: Il 63.9% dei votanti ticinesi hanno bocciato l’estensione della libera circolazione ai nuovi membri dell’UE.