Per necessità di concentrazione ed efficienza processuale (Cassazione Sezione Lavoro n. 5526 del 17 aprile 2002, Pres. Sciarelli, Rel. De Matteis).
Nel processo del lavoro il legislatore ha attribuito un particolare valore al principio di “non contestazione”. Fondamento essenziale della disciplina di tale processo è che l’attore avanzi tutte le proprie pretese ed esponga i relativi fatti costitutivi nel ricorso introduttivo del giudizio, e che il convenuto proponga tutte le eccezioni in diritto e le contestazioni in fatto nell’atto di costituzione. Il legislatore del 1973, sulla base delle esperienze di numerosi Paesi europei, ha rinvigorito il principio di non contestazione, già conosciuto, enunciato ed applicato in diverse ipotesi dal nostro ordinamento (artt. 14 3° co., 35, 316 3° co., 186bis e 423, 512 co. 2, 597 e 598, 541 e 542, 785, 789, 548, 663 c.p.c.; artt. 2712 e 2734 cod. civ.) e lo ha impiegato al fine di ridurre la quantità di prova necessaria per i fatti costitutivi, e per tale via aumentare la concentrazione ed efficienza processuale, escludendo così la possibilità generalizzata di una contestazione tardiva di essi, con il che si riaprirebbe in ogni tempo la necessità di una istruttoria, la quale deve invece essere definita (artt. 414 n. 5, 416 3° comma, 420 5° comma c.p.c.) nella fase iniziale del giudizio.
In applicazione di tale principio di concentrazione processuale, da applicare in egual misura all’attore e al convenuto, non è possibile allegare, contestare o richiedere prova su fatti non allegati, oltre i termini preclusivi stabiliti dal c.p.c.
Tale orientamento è stato confermato dalla recente pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite, che ha precisato che l’art. 416 3° comma c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti costitutivi, fa della non contestazione un comportamento rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio. La mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, sicché si deve ritenere superata, ai fini dell’identificazione dei fatti pacifici, la tradizionale differenza fra ammissione implicita e non contestazione, di cui al precedente orientamento.
La funzione della non contestazione ai fini della determinazione dell’oggetto della controversia, e la necessaria correlazione tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova, comporta che la decadenza per l’indicazione dei mezzi di prova, espressamente comminata dall’art. 416, 3° comma, implichi altresì preclusione per i primi, alla cui dimostrazione i secondi sono finalizzati. La tendenziale irreversibilità della non contestazione risulta comunque dalla struttura complessiva del processo.
Quando poi la domanda giudiziale è integrata da conteggi, contenuti nello stesso contesto o in allegato unito al ricorso, occorre distinguere la componente fattuale di tali conteggi, che soggiace agli oneri di contestazione sopra riassunti, da quella giuridica o normativa, che ne è esente.
NEL PROCESSO DEL LAVORO LA MANCATA CONTESTAZIONE DEI FATTI ESCLUDE LA NECESSITÀ DI INDAGINI ISTRUTTORIE
Per necessità di concentrazione ed efficienza processuale (Cassazione Sezione Lavoro n. 5526 del 17 aprile 2002, Pres. Sciarelli, Rel. De Matteis).
Nel processo del lavoro il legislatore ha attribuito un particolare valore al principio di “non contestazione”. Fondamento essenziale della disciplina di tale processo è che l’attore avanzi tutte le proprie pretese ed esponga i relativi fatti costitutivi nel ricorso introduttivo del giudizio, e che il convenuto proponga tutte le eccezioni in diritto e le contestazioni in fatto nell’atto di costituzione. Il legislatore del 1973, sulla base delle esperienze di numerosi Paesi europei, ha rinvigorito il principio di non contestazione, già conosciuto, enunciato ed applicato in diverse ipotesi dal nostro ordinamento (artt. 14 3° co., 35, 316 3° co., 186bis e 423, 512 co. 2, 597 e 598, 541 e 542, 785, 789, 548, 663 c.p.c.; artt. 2712 e 2734 cod. civ.) e lo ha impiegato al fine di ridurre la quantità di prova necessaria per i fatti costitutivi, e per tale via aumentare la concentrazione ed efficienza processuale, escludendo così la possibilità generalizzata di una contestazione tardiva di essi, con il che si riaprirebbe in ogni tempo la necessità di una istruttoria, la quale deve invece essere definita (artt. 414 n. 5, 416 3° comma, 420 5° comma c.p.c.) nella fase iniziale del giudizio.
In applicazione di tale principio di concentrazione processuale, da applicare in egual misura all’attore e al convenuto, non è possibile allegare, contestare o richiedere prova su fatti non allegati, oltre i termini preclusivi stabiliti dal c.p.c.
Tale orientamento è stato confermato dalla recente pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite, che ha precisato che l’art. 416 3° comma c.p.c., imponendo al convenuto di prendere posizione sui fatti costitutivi, fa della non contestazione un comportamento rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio. La mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, sicché si deve ritenere superata, ai fini dell’identificazione dei fatti pacifici, la tradizionale differenza fra ammissione implicita e non contestazione, di cui al precedente orientamento.
La funzione della non contestazione ai fini della determinazione dell’oggetto della controversia, e la necessaria correlazione tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova, comporta che la decadenza per l’indicazione dei mezzi di prova, espressamente comminata dall’art. 416, 3° comma, implichi altresì preclusione per i primi, alla cui dimostrazione i secondi sono finalizzati. La tendenziale irreversibilità della non contestazione risulta comunque dalla struttura complessiva del processo.
Quando poi la domanda giudiziale è integrata da conteggi, contenuti nello stesso contesto o in allegato unito al ricorso, occorre distinguere la componente fattuale di tali conteggi, che soggiace agli oneri di contestazione sopra riassunti, da quella giuridica o normativa, che ne è esente.
SPETTA AL DATORE DI LAVORO PROVARE CHE LA SUA AZIENDA HA MENO DI 16 DIPENDENTI, SE VUOLE EVITARE LA REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE, INGIUSTAMENTE LICENZIATO, IN BASE ALL’ART. 18 ST. LAV.
Contrasto di giurisprudenza nella Suprema Corte (Cassazione Sezione Lavoro n. 7227 del 17 maggio 2002, Pres. Senese, Rel. Filadoro).
In base all’art. 18 St. Lav., in caso di licenziamento illegittimo la reintegrazione nel posto di lavoro può essere disposta dal Giudice nei confronti di aziende che abbiano più di 15 dipendenti. La legge però non ha esplicitamente precisato se l’onere della prova sul numero dei dipendenti spetti al lavoratore o all’azienda. In proposito si è determinato nella Sezione Lavoro della Suprema Corte un contrasto di giurisprudenza. Secondo l’orientamento prevalente, spetta al lavoratore l’onere di provare la consistenza numerica dei dipendenti dell’azienda, in quanto fatto costitutivo del diritto alla stabilità rivendicato in giudizio. In questo senso si sono espresse le sentenze S. U. n. 2249, 4 marzo 1988, cfr. anche Cass. 3229 del 1988, 1659 del 1983, 3247 del 1980. Queste conclusioni non sono, tuttavia, condivise da un orientamento giurisprudenziale più recente, per il quale compete al datore di lavoro dimostrare la consistenza numerica che impedisce l’applicabilità del regime di stabilità reale, tenuto conto del fatto che il licenziamento illegittimo costituisce un inadempimento contrattuale e che l’azione di impugnazione si configura come azione di adempimento e/o di responsabilità per inadempimento ex art. 1218 codice civile (Cass. n. 613 del 22 gennaio 1999).
Secondo l’orientamento più recente, il datore di lavoro che pone in essere un licenziamento al di fuori delle condizioni richieste dalla legge si rende responsabile di un inadempimento alle obbligazioni assunte al momento della costituzione del rapporto. Fatti costitutivi dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la sua interruzione per effetto di un licenziamento.
Fatti impeditivi degli effetti giuridici che il lavoratore intende conseguire sono la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. La regola della ripartizione della prova, di cui all’art. 5 della legge 604 del 1966, non è altro che l’applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola generale di cui all’art. 1218 codice civile in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i principi generali, la conseguenza del licenziamento illegittimo dovrebbe essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla controparte (art. 1223 codice civile). L’art. 8 della legge 604 del 1966 prevede invece una forte attenuazione delle conseguenze a carico della parte inadempiente ed è allora giustificato – conclude Cass. n. 613 del 1999 – porre a carico di colui che pretende di essere esonerato da quelle che sarebbero le comuni sanzioni derivanti da un inadempimento (dettate dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970) l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni che determinano la riduzione degli effetti restitutori o risarcitori. Questo più recente orientamento è stato ora ribadito dalla Suprema Corte della sentenza della Sezione Lavoro n. 7227 del 17 maggio 2002 (Pres. Senese, Rel. Filadoro). Addossare al datore di lavoro l’onere della prova in materia – ha affermato la Corte – appare giustificato, oltre che dalle considerazioni sistematiche contenute nella sentenza n. 613 del 1999, anche dal rilievo che la circostanza da provare consiste in un dato di fatto ben noto al datore di lavoro e che risulta addirittura da libri, la cui tenuta è obbligatoria per legge.
IL TERMINE DI DIECI GIORNI PRIMA DELL’UDIENZA STABILITO PER L’APPELLO INCIDENTALE NON PUO’ ESSERE ABBREVIATO SE SCADE IN GIORNO FESTIVO
Deve essere garantito il diritto di difesa (Cassazione Sezione Lavoro n. 7331 del 20 maggio 2002, Pres. Mileo, Rel. Giannantonio).
In base all’art. 436, terzo comma, cod. proc. civ., l’appello incidentale nelle controversie soggette al rito del lavoro deve essere proposto, a pena di decadenza, nella memoria di costituzione, da notificarsi alla controparte, a cura dell’appellato, almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata per la discussione. Secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, tale termine deve considerarsi non libero, bensì soggetto alla regola generale, dettata dall’art. 155 cod. proc. civ., dell’esclusione dal relativo computo del solo dies a quo, coincidente in tal caso con il giorno dell’udienza di discussione, e del computo, invece, del momento terminale, costituito dal decimo giorno calcolato a ritroso. Nondimeno, allorché il decimo giorno, così computato come dies ad quem, coincida con un giorno festivo, non può trovare applicazione, la regola posta dall’art. 15, ultimo comma, cod. proc. civ., secondo cui, se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza del termine è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo.
Tale disposizione riguarda i termini a decorrenza successiva e non trova applicazione nei casi in cui i termini processuali debbono essere computati a ritroso, ossia risalendo indietro nel tempo rispetto ad un determinato atto o fatto ovvero rispetto ad una determinata attività (nel caso di cui all’art. 436 cod. proc. civ., rispetto all’udienza fissata per la discussione dell’appello). In tali casi, la fissazione del termine è diretto ad assicurare alla parte che subisce l’iniziativa processuale un adeguato e inderogabile margine temporale per approntare le proprie difese, sicché lo spostamento in avanti della scadenza, producendo l’abbreviazione del termine, verrebbe a pregiudicare la esigenza di un’adeguata garanzia difensiva. Né pare che una siffatta esigenza possa venir meno nel rito laboristico, e segnatamente in relazione al termine fissato dagli art. 416 e 346 cod. proc. civ. per la costituzione del convenuto ché, al contrario, in tali casi il termine precede l’udienza di discussione, nella quale sono concentrate, per la peculiare caratteristica del rito del lavoro, tutte le attività processuali preordinate alla decisione della controversia, sì che l’esigenza di garantire alla controparte un sufficiente intervallo di tempo appare addirittura rinforzata, piuttosto che indebolita.
NEL PROCESSO DEL LAVORO IL GIUDICE PUO’ RICORRERE ALLA PROVA TESTIMONIALE PER ACCERTARE LA SIMULAZION
Superando i limiti previsti dal codice civile (Cassazione Sezione Lavoro n. 7465 del 21 maggio 2002, Pres. Prestipino, Rel. Amoroso).
Nel processo del lavoro l’art. 421 cod. proc. civ. consente al giudice l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile. Questa norma consente di superare anche il divieto di prova testimoniale della simulazione previsto dall’art. 1417 cod. civ. nei confronti dei terzi. Pertanto il giudice del lavoro può utilizzare la prova testimoniale per accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in contrasto con le risultanze dell’atto costitutivo di una società.
L’AVVOCATO HA IL DOVERE DI INFORMARE IL CLIENTE DELL’ESITO NEGATIVO DI UNA CAUSA
In base al codice deontologico forense (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 8225 del 6 giugno 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Luccioli).
L’avvocato Giuseppe S. è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere volontariamente omesso di informare un cliente dell’esito negativo di una causa, con la conseguenza che questi si era visto improvvisamente notificare un atto di precetto per il pagamento delle spese di giudizio. Il Consiglio dell’Ordine locale lo ha ritenuto responsabile dell’infrazione, in base all’art. 40 del codice deontologico forense che prevede per l’avvocato il dovere di informare il cliente. Egli ha impugnato tale decisione rilevando che secondo l’art. 40, l’avvocato è tenuto ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli “quando lo reputi opportuno e ogni qual volta l’assistito ne faccia richiesta”. Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso affermando che l’art. 40 deve essere interpretato in base al principio generale di lealtà verso la parte assistita. L’avvocato S. ha proposto ricorso per cassazione invocando il principio di stretta interpretazione delle norme deontologiche, in quanto assimilabili alle leggi penali.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 8225 del 6 giugno 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Luccioli) ha rigettato il ricorso. Le norme del codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 14 aprile 1997 – ha osservato la Corte – si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ ambito dell’ordinamento di categoria, che trovano fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense di cui al r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, ed in particolare nell’ art. 12, comma 10, che impone agli avvocati di “adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’ amministrazione della giustizia”, e nell’ art. 38 comma l°, ai sensi del quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”.
La formulazione per clausole generali di tali prescrizioni trova specificazione nelle norme del codice deontologico, il quale nel suo primo titolo enuncia, qualificandoli “principi generali”, una serie di doveri diretti a segnare lo svolgimento della professione, mentre nei successivi titoli elenca alcuni canoni complementari volti a tipizzare, nella misura del possibile, comportamenti nei rapporti con colleghi, con la parte assistita, con la controparte, i magistrati ed i terzi, desunti dall’esperienza di settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare, costituenti a loro volta mere esplicitazioni delle regole generali, inidonei quindi ad esaurire la tipologia delle violazioni deontologiche e privi di ogni efficacia limitativa della portata di dette regole.
Tale relazione tra le norme in esame è chiaramente enunciata nella disposizione finale di cui all’ art. 60, che nel chiarire che le previsioni specifiche del codice “costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi” si pone come norma di chiusura ed integrativa dell’ intero testo.
Correttamente pertanto – ha concluso la Corte – la sentenza impugnata, superando il dato letterale fornito dall’art. 40 del codice deontologico ed assumendo tale disposizione nel suo effettivo valore esemplificativo, ha riportato il dovere di informazione in essa evocato nell’ ambito dei principi generali dettati nello stesso codice e nella legge professionale, motivatamente ritenendo che l’aver omesso di dare notizia al cliente dell’esito del processo costituisse condotta contraria ai doveri deontologici e tale da meritare la sanzione inflitta.
IL RICORSO DEL LAVORATORE AL GIUDICE PER OTTENERE IL PAGAMENTO DI CREDITI DI LAVORO E’ VALIDO ANCHE SE NON PRECISA GLI IMPORTI RICHIESTI
E’ sufficiente l’indicazione delle ragioni, perché la somma può essere precisata in corso di causa (Cassazione Sezione Lavoro n. 9977 del 9 luglio 2002, Pres. Ciciretti, Rel. Di Lella).
Il ricorso del lavoratore diretto ad ottenere il pagamento di somme a titolo di differenza di retribuzione può essere inizialmente privo della quantificazione dell’importo richiesto, che può essere precisato in un momento successivo.
Nel processo del lavoro l’onere della determinazione dell’oggetto della domanda, fissato a pena di nullità dell’atto introduttivo dall’art. 414, n. 3, cod. proc. civ., deve ritenersi osservato, con riguardo alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, qualora l’attore indichi i titoli o le ragioni del suo credito, il periodo di attività lavorativa, l’orario di lavoro, la retribuzione percepita e la contrattazione collettiva di riferimento, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese; resta a tal fine irrilevante la mancanza di un’originaria quantificazione monetaria delle pretese, anche in considerazione della facoltà dell’attore di modificarne l’ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine all’individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere.
PER LA DISCIPLINA DEGLI AVVOCATI IL CONSIGLIO FORENSE HA, COME GIUDICE, I REQUISITI DI IMPARZIALITA’ E DI TERZIETA’ VOLUTI DALL’ART. 111 COST.
Anche se i suoi componenti sono di nomina elettiva (Cassazione Sezione Unite Civili n. 10688 del 22 luglio 2002, Pres. Vessia, Rel. Criscuolo).
L’avvocato Piero G. è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di mancato rispetto dell’obbligo di lealtà verso un collega, avendo trattato direttamente con una persona da quest’ultimo assistita. Egli è stato ritenuto colpevole dal Consiglio dell’Ordine territoriale, la cui decisione è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense. P. G. ha proposto ricorso davanti alla Suprema Corte, sollevando, tra l’altro, la questione di legittimità delle norme che attribuiscono al Consiglio Nazionale Forense una funzione giurisdizionale in materia disciplinare (articoli 38 – 51 del R.D.L. 27 novembre 1953 n. 1578 articoli 42 – 58 del R.D. 22 gennaio 1934 n. 37). Egli ha sostenuto che il sistema disciplinare istituito per la categoria degli avvocati si pone in contrasto con l’art. 111 della Costituzione (nuovo testo), secondo cui ogni processo deve svolgersi davanti a un giudice terzo e imparziale, osservando tra l’altro che i componenti del Consiglio Nazionale sono avvocati che esercitano la stessa attività economica dell’incolpato, in concorrenza tra loro e, in quanto membri del Consiglio territoriale, sono eletti dagli iscritti.
La Suprema Corte (Sezioni Unite n. 10688 del 22 luglio 2002) ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità sollevata, richiamando l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 284 del 1986, concernente il Consiglio Nazionale dei Geometri. Anche dopo la modifica dell’art. 111 Cost. – ha affermato la Cassazione – la tesi secondo cui, in sede disciplinare, i componenti del CNF non sarebbero giudici terzi e imparziali, deve ritenersi priva di fondamento; infatti, fermo il punto che l’indipendenza del giudice consiste nell’autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza (Corte Cost. n. 284 del 1986), non è certo sostenibile che il criterio elettivo per la scelta dei componenti del C.N.F. incida su tale canone costituzionale. In proposito – ha osservato la Corte – è sufficiente osservare che la stessa Costituzione, nell’art. 106 (comma 2°), stabilisce che la legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli, così riconoscendo che detto criterio ben si concilia con il requisito dell’indipendenza; né a diverse conclusioni potrebbe giungersi per la possibilità di rielezione, perché essa, per la modalità di scelta che consente una composizione articolata sull’intero territorio nazionale, non appare suscettibile di creare condizionamenti nel momento giurisdizionale.
La posizione d’indipendenza in cui l’organo ed i suoi componenti si trovano – ha concluso la Corte – ne garantisce anche l’imparzialità; con l’ulteriore notazione che, qualora sul punto possano sorgere dubbi in relazione a situazioni concrete, soccorrono gli istituti dell’astensione e della ricusazione previsti in materia dall’art. 49 del R.D.L. 1933, n. 1578.
LA LENTEZZA DELLA GIUSTIZIA NON COSTITUISCE UN DANNO IN SE’, DA RISARCIRE CON DETERMINAZIONE EQUITATIVA
Per ottenere il risarcimento previsto dalla legge n. 89 del 2001 il cittadino deve dare la prova del pregiudizio subito (Cassazione Sezione Prima Civile n. 13422 del 13 settembre 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Morelli).
Ugo M. ha ottenuto, nel dicembre del 2001, dalla Corte d’Appello di Perugia la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della somma di lire otto milioni a titolo di equa riparazione del danno conseguito alla durata non ragionevole di un processo civile da lui promosso. La condanna è stata ottenuta in base all’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89 (cosiddetta legge Pinto) che riconosce il diritto a un’equa riparazione a chi abbia subito “un danno patrimoniale o non patrimoniale” per effetto del protrarsi di un processo oltre il “termine ragionevole” previsto dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
La Corte d’Appello ha ritenuto che il ritardo ingiustificato nell’amministrazione della giustizia produca al cittadino un “danno in sé” la cui esistenza non deve essere specificamente provata. Il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che in mancanza di prova del danno, la Corte avrebbe dovuto negare il risarcimento. La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 13422 del 13 settembre 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Morelli) ha accolto, sul punto, il ricorso del Ministero affermando che la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo non costituisce un “danno in sé”, tale da non dovere essere provato. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza (sentenza n. 7713 del 2000 e 6507 del 2001) secondo cui il danno in sé è ravvisabile nella lesione di “diritti fondamentali della persona” la cui inviolabilità sia garantita da norme costituzionali immediatamente precettive e la cui violazione “non può rimanere senza la sanzione minima risarcitoria”.
La Corte ha però escluso che fra i diritti fondamentali della persona rientri quello alla ragionevole durata del processo, in quanto riconosciuto da una legge ordinaria (ovvero la legge Pinto) e a suo avviso “non direttamente riconducibile alla previsione dell’art. 111 della Costituzione” (ove si afferma che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo). Secondo la Corte, l’art. 111 Cost., nel nuovo testo, contiene in materia una norma meramente programmatica, non utilizzabile come strumento di controllo della durata del singolo processo e pertanto non ha introdotto “una garanzia al singolo, strutturata in termini di diritto soggettivo”; conseguentemente, per ottenere il risarcimento previsto dalla legge Pinto, il cittadino dovrà dare la prova dei danni derivatigli dalla lunghezza del processo.
Questa sconcertante decisione è commentata nella sezione “Il contesto“.
IL FONDO DI GARANZIA GESTITO DALL’INPS DEVE CORRISPONDERE AL LAVORATORE EX DIPENDENTE DI UN’AZIENDA FALLITA, OLTRE AL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO, GLI INTERESSI E LA RIVALUTAZIONE MONETARIA
Non si tratta di una prestazione previdenziale (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 14220 del 3 ottobre 2002, Pres. Carbone, Rel. Ravagnani).
Il pagamento da parte dell’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia previsto dalla L. n. 297 del 1982, del trattamento di fine rapporto dovuto al lavoratore ex dipendente di azienda fallita, non costituisce una prestazione previdenziale. Pertanto al lavoratore debbono essere corrisposti anche, cumulativamente, gli interessi di legge e la rivalutazione monetaria maturati sull’importo dovuto dall’ente.
Il primo comma dell’art. 2, legge n. 297 del 1982, stabilisce che il Fondo “si sostituisce” al datore di lavoro nel pagamento della somma dovuta (e non che “garantisce” tale pagamento) e contiene dunque un precetto che induce a ritenere costituito dallo stesso legislatore (in termini più descrittivi che tecnicamente corretti, a fronte della mancanza di un contratto tra debitore e terzo) un accollo cumulativo ex lege e non una fideiussione. Il Fondo subentra dunque nella stessa posizione del datore di lavoro ed è tenuto a pagare il medesimo debito (retributivo) di quest’ultimo, comprensivo della somma capitale e, a norma del secondo comma, “dei relativi crediti accessori”.
Poiché il credito inerente al trattamento di fine rapporto e agli accessori ha natura retributiva e non sussistono ragioni normative o logico-giuridiche perché tale natura debba venir meno per effetto dell’avvenuto accollo, qualificabile, alla stregua della lettera del citato art. 2, come cumulativo e non privativo o liberatorio o novativo, si deve pertanto ritenere che, a norma dell’art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., il Fondo sia tenuto a corrispondere gli interessi nella misura legale ed il risarcimento del maggior danno (senza necessità che il lavoratore assolva l’onere di allegazione e di prova in base all’art. 1224, secondo comma, cod. civ.) con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto e fino al giorno dell’effettivo pagamento.
D’altra parte, la prestazione a carico del Fondo non si determina in relazione al diritto maturato e riconosciuto nel passivo fallimentare come se il Fondo, nel pagamento del trattamento di fine rapporto, si sostituisse al fallimento. Invero, come è espressamente stabilito dal citato articolo 2, primo comma (e come pure si ricava dalla formulazione del quinto comma per il caso che il datore di lavoro non sia stato sottoposto a un procedimento concorsuale) il legislatore ha disposto la sostituzione del Fondo al datore di lavoro e non già al fallimento, con la conseguenza che il Fondo è tenuto a corrispondere il medesimo debito che grava sul datore di lavoro nel suo intero ammontare, comprendente la somma capitale e gli accessori.
L’APPARTENENZA DI UN GIUDICE A “MAGISTRATURA DEMOCRATICA” NON COSTITUISCE MOTIVO DI RICUSAZIONE
Il sospetto di imparzialità del giudice deve essere ricollegabile a fatti specifici (Cassazione Sezione Prima Civile n. 14573 del 12 ottobre 2002, Pres. Olla, Rel. Celentano).
In base agli articoli 51 e 52 cod. proc. civ. il giudice può essere ricusato in caso di interesse nella causa o “grave inimicizia” con una delle parti.
In un giudizio davanti alla Prima Sezione Civile della Suprema Corte l’avvocato Wilfredo Vitalone, difensore e parte ricorrente, ha rivolto al presidente del Collegio un’istanza con la quale ha: “a) chiesto di conoscere, attraverso una <> da far pervenire ad esso istante, se <>, spiegando che la richiesta era giustificata dalla circostanza che <>; b) dichiarato che, nel caso in cui nessuna comunicazione gli fosse stata data in relazione alla sua richiesta di informativa, egli ricusava, ai sensi degli artt. 52 e 51 n. 3 c.p.c., <>”.
La Corte, con ordinanza interlocutoria n. 14573 del 12 ottobre 2002 (Pres. Olla, Rel. Celentano) ha dichiarato inammissibile sia la richiesta di informazioni, in quanto estranea al procedimento di ricusazione disapplicato dall’art. 52 cod. proc. civ., sia la dichiarazione di ricusazione. Dal combinato disposto degli artt. 51 e 52 cod. proc. civ. – ha osservato la Corte – si ricava che la ricusazione del giudice può fondarsi solo su motivi specifici fondati su fatti espressamente previsti dalla legge. A nessuno di tali casi – ha affermato la Corte – è riconducibile il motivo di ricusazione dedotto dall’attuale ricusante; l’eventuale e sola appartenenza dei magistrati ricusati al gruppo associativo denominato Magistratura Democratica, non può configurare una ipotesi di interesse del giudice nella causa (art. 51 comma 1° n. 1) quando non sia ricollegabile a fatti specifici; la genericità della indicazione normativa circa l’interesse nella causa, non esclude, infatti, l’onere del ricusante di indicare fatti specifici in relazione ai quali possa configurarsi un interesse personale e concreto, anche soltanto indiretto, del giudice rispetto alla causa, all’oggetto o ai soggetti che ne sono parti. Tale “appartenenza” – ha concluso la Corte – nemmeno può configurare, essa sola, un’ipotesi di “inimicizia grave” atteso che questa può rendere concreto anche un semplice sospetto di imparzialità del giudice soltanto allorché sia ricollegabile a specifici fatti – i quali debbono essere attribuibili direttamente al giudice ricusato – che l’abbiano resa manifesta.
LA SOSPENSIONE DEI TERMINI PROCESSUALI NEL PERIODO FERIALE SI APPLICA ANCHE ALLA IMPUGNAZIONE DEI DECRETI DI ESPULSIONE DAL TERRITORIO NAZIONALE
Non rientra fra le eccezioni previste dal legislatore (Cassazione Sezione Prima Civile n. 14662 del 15 ottobre 2002, Pres. De Musis, Rel. Morelli).
Il Prefetto di Milano ha emesso, nei confronti di Luis Oswaldo B., cittadino straniero, un decreto di espulsione dal territorio nazionale. Il provvedimento, notificato il 21 agosto 2000, è stato impugnato dal destinatario davanti al Tribunale di Milano, con atto depositato il 2 settembre 2000. Il Tribunale, rilevato che in base alla legge (art. 13 d.lgs. 1998) il decreto di espulsione deve essere impugnato entro giorni cinque dalla sua notifica, ha dichiarato inammissibile l’impugnazione. Il Tribunale ha escluso che a questo tipo di procedimento, per la sua specialità, sia applicabile la sospensione feriale dei termini prevista dalla legge n. 762 del 1969 per il periodo dal 1 agosto al 15 settembre. Luis Oswaldo ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale per violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 14662 del 15 ottobre 2002, Pres. De Musis, Rel. Morelli) ha accolto il ricorso. La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (dal 1 agosto al 15 settembre) ha carattere generale – ha osservato la Corte – mentre le eccezioni a tale regola, introdotte nel successivo art. 3 della stessa legge n. 762 del 1969 cit., hanno carattere tassativo e “non sono suscettibili di applicazione analogica”; per cui, appunto, non essendo prevista alcuna espressa deroga, alla regola della sospensione feriale, per l’impugnazione dei decreti prefettizi di espulsione dello straniero, il Tribunale non poteva desumerla – come ha fatto – per implicito ed ha errato quindi nel ritenere il ricorso tardivo.
LA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI PUBBLICO IMPIEGO SPETTA AL GIUDICE ORDINARIO ANCHE PER LE DOMANDE RIFERITE A COMPORTAMENTI ILLEGITTIMI TENUTI DALL’AMMINISTRAZIONE INIZIATI PRIMA DEL 30 GIUGNO 1998 E CONTINUATI SUCCESSIVAMENTE
Si deve evitare un antieconomico frazionamento dei giudizi (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 14835 del 18 ottobre 2002, Pres. Carbone, Rel. Evangelista).
Guglielmo B., dipendente dell’Ente Pubblico Comunità Montana Valtiberina Toscana, con mansioni di operaio forestale, ha subito nel febbraio 1986 un infortunio dal quale gli è derivata un’invalidità permanente nella misura del 34%. La sua richiesta di essere adibito a mansioni meno gravose è stata disattesa dalla datrice di lavoro. Nel marzo del 1999 egli ha chiesto al Giudice del Lavoro di Arezzo di condannare la Comunità ad assegnargli mansioni compatibili con la sua condizione di salute e a risarcirgli il danno cagionatogli con il comportamento omissivo tenuto fino ad allora. La Comunità ha proposto ricorso alla Suprema Corte per regolamento preventivo di giurisdizione. Essa ha sostenuto che i fatti posti a fondamento della domanda si erano verificati prima del 30 giugno 1998 e pertanto, in base al D.Lgs. n. 80 del 1998 in materia di privatizzazione del pubblico impiego, la controversia doveva ritenersi rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 14835 del 18 ottobre 2002, Pres. Carbone, Rel. Evangelista) ha ritenuto infondato il ricorso ed ha dichiarato la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. La legge – ha affermato la Corte – ha affidato al giudice ordinario la decisione delle controversie in materia di pubblico impiego per le questioni attinenti al periodo successivo al 30 giugno 1998, ma essa deve essere interpretata nel senso che quando la pretesa abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si deve fare riferimento al momento di compiuta realizzazione del fatto dannoso e quindi al momento di cessazione della permanenza: ciò in applicazione del criterio interpretativo inteso ad evitare frazionamenti della tutela processuale tra giurisdizioni diverse e, quindi, a realizzare esigenze di economia coerenti con l’art. 24 Costituzione (tutela dei diritti) e idoneo a prevenire il contrasto di giudicati in ordine a pretese uguali nel contenuto seppure differenziate ratione temporis. Alla stregua di questo principio, già affermato dalle Sezioni Unite con sentenza in data 24 febbraio 2000 – ha osservato la Corte – è agevole rilevare che, nel caso di specie, quando è stata proposta la domanda nel marzo 1999, l’omissione, asseritamente illegittima e lesiva del diritto alla salute dal lavoratore, ancora permaneva, come si desume dall’intero contesto dell’atto introduttivo del giudizio, nonché dalle sue conclusioni, che, in effetti, sollecitano la condanna della datrice di lavoro all’emissione di provvedimenti destinati a mettere termine all’omissione stessa; trattandosi, dunque, di permanenza ancora in atto dopo la data del 30 giugno 1998, deve riconoscersi che la domanda è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario.