Quando cioè vi sia una manipolazione arbitraria del testo legislativo e si sconfini nel diritto libero (Cassazione Sezione Prima Civile n. 11880 del 20 settembre 2001, Pres. Greco, Rel. Luccioli).
In base alla legge 13 aprile 1988 n. 117 chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un provvedimento giudiziario può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni, in caso di colpa grave del magistrato. La legge precisa che, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
Costituiscono, per la legge, colpa grave del magistrato:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
Quanto alla fattispecie di cui alla lettera a) può osservarsi che l’espresso richiamo alla “negligenza inescusabile” nella commissione della grave violazione di legge postula una totale mancanza di attenzione nell’ uso degli strumenti normativi, una trascuratezza così marcata da non poter trovare alcuna plausibile giustificazione e da apparire espressione di assoluta incuria e mancanza di professionalità. Per ciò che concerne le ipotesi di cui alle lett. b) e c) il dato testuale, richiedendo che il fatto risulti o sia escluso “incontrastabilmente” dagli atti del procedimento e che l’errore sia determinato, ancora una volta, da “negligenza inescusabile”, manifesta l’intenzione del legislatore di riferirsi all’ errore macroscopico, commesso in un contesto di piena evidenza ed immediata rilevabilità del fatto o della sua negazione dagli atti del processo, reso possibile da una tale disattenzione nella lettura delle emergenze processuali tali da apparire oggettivamente inescusabile. Il giudice non risponde degli errori di diritto determinati da un’erronea scelta interpretativa: la “grave violazione di legge” viene a sostanziarsi nella violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma , ovvero – secondo una tipologia elaborata dalla dottrina – nella interpretazione del suo significato in termini contrastanti con ogni criterio logico, nell’ adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, nella manipolazione arbitraria del testo normativo, nello sconfinamento nel diritto libero, mentre resta nell’area di esenzione da responsabilità la lettura della legge secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente, quando dell’opzione interpretativa seguita si dia conto e ragione nella motivazione.
Sulla base di tali principi è possibile quindi ravvisare il discrimine tra attività interpretativa tutelata e colpa grave, ritenendo fonte di responsabilità quei comportamenti, atti e provvedimenti che non possono considerarsi manifestazioni di discrezionalità interpretativa esplicata all’interno della dialettica processuale, ma appaiono determinati da una inescusabile e macroscopica negligenza del magistrato nella lettura del complesso normativo. Ciò vale anche a dire che può parlarsi di negligenza inescusabile non sulla base della mera non conformità della decisione a diritto, ma in quanto, tenuto conto delle ragioni con le quali il giudice abbia motivato detta decisione, essa non trovi alcun aggancio nell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale né abbia, in mancanza di detti referenti, una qualsiasi plausibile giustificazione sul piano logico.
Conseguentemente non può ravvisarsi un errore rilevante ai sensi delle lett. b) e c) ove il giudice abbia ritenuto una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti; né può qualificarsi come rilevante l’errore riscontrato a posteriori dal giudice dell’impugnazione sulla base del controllo esercitato sull’attività accertativa e valutativa.
IL MANCATO ESERCIZIO, DA PARTE DEL GIUDICE DEL LAVORO, DEL POTERE-DOVERE DI SVOLGERE D’UFFICIO UN’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA AL FINE DI ACCERTARE LA VERITÀ MATERIALE, NON È DIRETTAMENTE CENSURABILE IN CASSAZIONE
Ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione (Cassazione Sezione Lavoro n. 6531 del 10 maggio 2001, Pres. Trezza, Rel. De Matteis).
Anche nel processo del lavoro vige il principio dispositivo, in base al quale il giudice deve fondare la sua decisione sulle prove offerte dalle parti.
Tuttavia il legislatore ha stabilito, con l’art. 421 cod. proc. civ., che il giudice del lavoro può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, con ciò contemperando, per la particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo; pertanto, quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, non può farsi meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia d’ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti. Il mancato esercizio di tale potere-dovere, però, non è direttamente denunziabile in cassazione, anche in assenza di espressa motivazione sul punto, ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondi su di un elemento probatorio offerto da una delle parti ma contrastato dall’altra e di per sé non dotato di sicura affidabilità, senza la necessaria verifica e senza che dal contesto del provvedimento possano desumersi le ragioni che hanno indotto ad ometterla. Pertanto la sentenza potrà essere impugnata davanti alla Suprema Corte per illogicità della motivazione.
IL RITARDO DI UN PRESIDENTE DI SEZIONE NEL DEPOSITO DELLE SUE SENTENZE PUÒ ESSERE GIUSTIFICATO DALLO SVOLGIMENTO DI ALTRE FUNZIONI CONNESSE ALL’INCARICO DIRETTIVO
Come il controllo della motivazione delle decisioni emesse dagli altri giudici del Collegio (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 195 del 12 maggio 2001, Pres. Vela, Rel. Prestipino).
Il magistrato Giampaolo F., presidente di sezione presso il Tribunale di Modena, è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere, negli anni dal 1993 al 1997, in violazione del dovere di laboriosità e di diligenza, posto in essere ritardi abnormi nel deposito di provvedimenti giudiziari da lui redatti e, in particolare, per avere depositato duecentosei sentenze civili con ritardi superiori al 120° giorno, di cui centonovantadue dopo 180 giorni e, di queste, quarantadue con un ritardo superiore all’anno, per avere depositato un’ordinanza riservata oltre il trentesimo giorno e per non avere ancora effettuato il deposito delle minute delle sentenze in quindici cause civili decise da oltre 180 giorni.
A conclusione della fase istruttoria e del successivo dibattimento, il magistrato è stato dichiarato responsabile dell’incolpazione ascrittagli e gli è stata inflitta la sanzione dell’ammonimento.
La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, premesso che il ritardo aveva riguardato il deposito di centottantacinque e non di duecentosei sentenze e ritenuto che la dilazione nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali integra un illecito disciplinare qualora non sussistono eventi giustificativi quali l’eccessivo carico di lavoro o gravi situazioni personali o familiari, ha rilevato che il comportamento tenuto dal magistrato era privo di giustificazione, dato che il medesimo aveva un carico di lavoro non diverso da quello dei colleghi operanti nella sezione. Il giudice disciplinare aggiungeva che non poteva essere considerata come valida scusante l’ansia di perfezionismo cui aveva fatto riferimento l’incolpato – il quale aveva fatto presente che non licenziava le sentenze senza averne curato ogni particolare, persino sotto il profilo grafico – dato che il provvedimento giudiziale non é il fine della condotta del giudicante, ma uno strumento posto a servizio dei cittadini per la soluzione dei concreti problemi di vita e dato che la giustificazione addotta costituiva la prova che il magistrato G.F. non aveva saputo organizzare il proprio lavoro trovando un giusto punto di equilibro fra l’esigenza di redigere provvedimenti ben costruiti e ben motivati e la necessità di rispondere sollecitamente all’attesa dei destinatari, castigati da ritardi eccessivi.
Questa decisione è stata impugnata, con ricorso per cassazione, dal magistrato incolpato, per violazione e falsa applicazione della normativa disciplinare e per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 195 del 12 maggio 2001, Pres. Vela, Rel. Prestipino) ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che la sentenza impugnata non sia stata sufficientemente motivata su una delle circostanze evidenziate dal magistrato per escludere la sua mancanza di operosità e di negligenza. La Corte ha ricordato la costante giurisprudenza secondo cui i ritardi nel deposito delle sentenze, anche se consistenti e gravi, non rilevano sotto il profilo della diligenza tutte le volte in cui i fatti addebitati al magistrato risultino determinati non da un comportamento di scarsa laboriosità o da negligenza o neghittosità, bensì da un carico di lavoro individualmente eccezionale gravante sul magistrato. Nel caso in esame – ha osservato la Corte – il giudice disciplinare non ha adeguatamente motivato sulla circostanza che il magistrato incolpato, oltre a redigere, tra il gennaio 1993 e il febbraio 1998, novecento sentenze, aveva svolto le funzioni di presidente di sezione, le quali non consistevano soltanto nel compito di assegnare i procedimenti ai giudici, ma certamente attenevano, nei casi di decisione collegiale, anche allo studio dei processi assegnati ai relatori nonché al controllo della motivazione dei singoli provvedimenti prima della loro pubblicazione. Pertanto il giudice disciplinare – ha affermato la Corte – avrebbe dovuto tenere in considerazione tale cumulo di attività al fine di stabilire se l’impegno lavorativo del magistrato fosse superiore a quello degli altri componenti del collegio.
UTILIZZABILI COME PROVA LE INTERCETTAZIONI DI CONVERSAZIONI TRA UN AVVOCATO E I SUOI CLIENTI IN MERITO ALL’ACQUISTO DI UN APPARTAMENTO DA DESTINARE A SFRUTTAMENTO DELLA PROSTITUZIONE
Non sono coperte dal segreto professionale (Cassazione Sezione Sesta Penale n. 21206 del 24 maggio 2001, Pres. Trojano, Rel. Ambrosini).
L’avvocato Roberto G. è stato sottoposto ad indagini da parte del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Modena per avere curato l’acquisto di un appartamento per conto di due clienti che intendevano utilizzarlo a fini di sfruttamento della prostituzione. A suo carico è stato ipotizzato il reato di concorso in favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Nel corso delle indagini sono state disposte intercettazioni telefoniche sull’utenza dei suoi clienti. Il GIP del Tribunale di Modena ha ritenuto che dal contenuto delle conversazioni telefoniche tra l’avvocato e i suoi clienti, siano emersi elementi comprovanti l’ipotizzato concorso e pertanto ha disposto a carico del legale la misura cautelare degli arresti domiciliari. La difesa dell’indagato ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche tra un avvocato e i suoi clienti in base all’art. 271 del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce che non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni degli avvocati, quando hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione della loro professione.
La Suprema Corte (Sezione Sesta Penale n. 21206 del 24 maggio 2001, Pres. Trojano, Rel. Ambrosini) ha rigettato il ricorso, rilevando che le conversazioni intercettate nnon avevano ad oggetto una normale operazione di compravendita, in quanto il contratto era finalizzato ad attività illecite. Utilizzare il proprio bagaglio di conoscenze tecniche per consentire, per far commettere o commettere in concorso un reato – ha affermato la Corte – rientra in una sfera che esula dall’attività tipicamente professionale, onde le relative conversazioni non appaiono suscettibili di essere assorbite sotto la tutela del segreto professionale.
RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DELL’AVVOCATO PER L’INTERVISTA DI NATURA PUBBLICITARIA E PER AFFERMAZIONI DENIGRATORIE SUL CONTO DI UN COLLEGA
Inosservanza del dovere di decoro e riservatezza – Violazione degli obblighi di correttezza professionale (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 218 del 26 maggio 2001, Pres. Vessia, Rel. Vella).
L’avvocato Annamaria B. è stata sottoposta a procedimento disciplinare con l’addebito, tra l’altro, di “essere venuta meno ai doveri di decoro e di riservatezza professionale per avere rilasciato ad un mensile una lunga intervista, nel corso della quale aveva fatto pubblicità esplicita e diretta ad alcune marche di prodotti di bellezza pronunciando, tra l’altro, le seguenti frasi: <
Alla professionista è stato anche, addebitato di “essere venuta meno agli obblighi di correttezza professionale per avere dichiarato alla signora S. D. S., cliente dell’avvocata E. Z. V., che questa era una persona scorretta”; che “rivolgendosi per assistenza professionale alla Z. non poteva capitare peggio”; “che l’avvocata Z. era nota per vendere la documentazione affidatale dai clienti al migliore offerente”; “che se la D.S. si fosse invece rivolta a lei per la assistenza legale (separazione personale), avrebbe ottenuto molto di più”.
Il Consiglio dell’Ordine territoriale competente le ha inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dell’esercizio della professione per due mesi.
Questa decisione è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense che ha rilevato che l’intervista concessa al mensile, insieme a tutto il contesto dell’articolo, dava un’obiettiva impressione della ricerca di una pubblicità indiretta a favore della incolpata. Il Consiglio ha inoltre ritenuto che siano state adeguatamente accertate le affermazioni denigratorie, sul conto di una collega, attribuite alla professionista incolpata. L’avvocato A.B. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per vizi procedurali e per difetti di motivazione.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 218 del 26 maggio 2001, Pres. Vessia, Rel. Vella) ha rigettato il ricorso osservando, tra l’altro, che le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono ricorribili per cassazione soltanto per eccesso di potere, incompetenza e violazione di legge e, quindi, solo in caso di totale mancanza o apparenza di motivazione. In questo caso – ha affermato la Corte – la decisione del Consiglio Nazionale Forense, è stata motivata con argomenti sintetici, ma sufficienti e immuni da errori di diritto.
IL DOVERE DI FEDELTÀ VERSO IL CLIENTE NON GIUSTIFICA COMPORTAMENTI SCORRETTI DELL’AVVOCATO NEI CONFRONTI DELLA CONTROPARTE
Il professionista ne risponde sul piano disciplinare (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 222 del 25 maggio 2001, Pres. Grossi, Rel. Paolini).
L’avvocato Fabio D. ha promosso, per conto di un suo cliente, una causa civile di risarcimento danni contro una compagnia di assicurazioni. La convenuta è rimasta contumace, ma, in corso di causa, ha eseguito un pagamento di dieci milioni di lire. L’avvocato non ha dato atto, nel giudizio, dell’acconto ricevuto ed ha ottenuto la condanna per l’intero importo richiesto. Successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, egli ha agito esecutivamente per ottenere il pagamento dell’intero importo della condanna, omettendo, anche nella fase esecutiva, di dare atto della somma ricevuta. Egli è stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine Territoriale, con l’addebito di aver tenuto un comportamento contrario alla correttezza, alla dignità e al decoro professionali. Egli si è difeso sostenendo di avere agito nell’interesse del suo cliente e di non essere tenuto a rendere dichiarazioni favorevoli alla controparte contumace. Il Consiglio gli ha applicato la sanzione della sospensione dell’attività professionale per tre mesi. Il ricorso proposto dall’avvocato avverso questa decisione è stato rigettato dal Consiglio Nazionale Forense che ha ritenuto censurabile non solo il comportamento addebitato al professionista, ma anche la condotta da lui tenuta nel procedimento disciplinare.
L’avvocato ha proposto ricorso per cassazione. La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 222 del 25 maggio 2001, Pres. Grossi, Rel. Paolini) ha rigettato il ricorso, affermando che il Consiglio Nazionale Forense ha correttamente motivato la sua decisione, rilevando che il professionista aveva dato prova di ignorare i doveri di lealtà, probità e correttezza cui deve essere costantemente improntata la condotta dell’avvocato. La condotta tenuta in questo caso dal professionista – ha osservato la Corte – è manifestamente contraria non solo alla dignità e al decoro professionale, ma anche alla “regola dell’honeste vivere, che costituisce il substrato di ogni ordinamento giuridico”; tale comportamento costituisce un uso distorto di strumenti apprestati dal diritto in funzione della tutela di posizioni soggettive legittime, per procurare a sé, o ad altri, vantaggi indebiti ed attribuzioni patrimoniali sostanzialmente non spettanti e prive di giustificazioni. L’adempimento di assistere fedelmente i clienti, imposto agli avvocati dalla deontologia professionale – ha concluso la Corte – non può essere utilmente invocato dal professionista a giustificazione di comportamenti oggettivamente scorretti ed eticamente riprovevoli.
IL SOSTITUTO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA NON È TENUTO, IN LINEA DI PRINCIPIO, A CONSULTARE IL TITOLARE DELL’UFFICIO PRIMA DI ADOTTARE PROVVEDIMENTI DI PARTICOLARE IMPORTANZA
A meno che la consultazione preventiva sia prevista da provvedimenti organizzativi (Cassazione, Sezioni Unite n. 227 del 28 maggio 2001, Pres. Vessia, Rel. Vittoria).
Il Procuratore della Repubblica, titolare dell’ufficio, ha facoltà di stabilire, mediante provvedimenti organizzativi, che i suoi sostituti lo consultino prima di emettere provvedimenti di particolare importanza. Ove egli abbia esercitato questo potere, i magistrati addetti all’ufficio sono tenuti alla consultazione preventiva e possono essere sottoposti a procedimento disciplinare nel caso che non lo facciano. In mancanza di istruzioni organizzative di questo tipo, non può affermarsi, in linea di principio, un dovere dei sostituti di consultare il titolare dell’ufficio ogni qual volta si accingano ad adottare un provvedimento di particolare importanza. L’autonomia dei magistrati addetti all’ufficio del pubblico ministero, mentre è piena nello svolgimento delle loro funzioni in udienza, nell’esercizio delle altre attribuzioni può essere limitata mediante provvedimenti organizzativi, perché la loro posizione si inserisce in un ufficio il cui titolare ha il potere di dirigerlo e di organizzarlo tenendo conto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio Superiore della Magistratura (Cassazione Sezioni Unite n. 227 del 28 maggio 2001, Pres. Vessia, Rel. Vittoria).
PER POTER PRODURRE NUOVI DOCUMENTI NEL GIUDIZIO CIVILE DI SECONDO GRADO, OCCORRE INDICARLI E DEPOSITARLI CON L’ATTO DI APPELLO
Non solo nelle cause di lavoro ma anche in quelle ordinarie (Cassazione Sezione Terza Civile n. 7510 del 4 giugno 2001, Pres. Grossi, Rel. Lucentini).
Nelle cause civili ordinarie, come in quelle di lavoro, è possibile produrre nuovi documenti in appello. Perché la produzione sia ammissibile, è tuttavia necessario che i documenti vengano indicati nell’atto di appello e depositati insieme ad esso, al fine di salvaguardare le esigenze di celerità del processo e di consentire l’immediata e completa instaurazione del contraddittorio. Il giudice di appello non può pertanto fondare la sua decisione su documenti prodotti per la prima volta nel secondo grado del giudizio, senza essere stati indicati nell’atto di appello e depositati unitamente ad esso.
IL DECRETO DI ESPULSIONE DI UN IMMIGRATO POLACCO È ILLEGITTIMO SE ACCOMPAGNATO DA UNA TRADUZIONE IN LINGUA INGLESE, SENZA CHE SIA DIMOSTRATA L’IMPOSSIBILITÀ DI TRADURLO NELLA LINGUA DEL DESTINATARIO
Per violazione del diritto di difesa (Cassazione Sezione Prima Civile n. 9138 del 6 luglio 2001, Pres. Carnevale, Rel. Vitrone).
Igor B., cittadino polacco, è stato espulso dall’Italia nell’ottobre del 1999 con decreto del Prefetto di Pordenone. Il provvedimento gli è stato notificato con traduzione in lingua inglese. Egli ha impugnato il decreto davanti al Tribunale di Pordenone, sostenendo che il testo del provvedimento era stato immotivatamente tradotto in lingua inglese e non in una lingua a lui comprensibile e che comunque l’espulsione doveva ritenersi illegittima per la mancanza di qualsiasi accertamento sulle ragioni della sua permanenza in Italia e della mancata richiesta del permesso di soggiorno. Igor B. ha fatto anche presente che egli era in possesso di un’offerta di lavoro, con garanzia di vitto e alloggio, fattagli dall’amministratore del circo Togni. Il Tribunale ha dichiarato la nullità del decreto di espulsione per mancanza di motivazione in merito alle ragioni che avrebbero impedito la sua traduzione in una lingua nota al destinatario; il Tribunale ha anche ritenuto rilevante l’accertamento, attraverso le dichiarazioni dell’amministratore del circo Togni, di un’offerta di lavoro al ricorrente, in quanto ciò consentiva di ravvisare la prospettiva di un suo impiego stabile e legale.
Il Ministero dell’Interno e il Prefetto di Pordenone hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo che il provvedimento, pur se accompagnato da una traduzione in inglese, aveva raggiunto il suo scopo, avendo posto l’intimato in condizioni di rivolgersi tempestivamente all’autorità giudiziaria; i ricorrenti hanno anche rilevato che la legge non impone l’obbligo tassativo di tradurre il provvedimento di espulsione nella lingua del destinatario, essendo a tal fine sufficiente la traduzione in inglese. La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 9138 del 6 luglio 2001, Pres. Carnevale, Rel. Vitrone) ha rigettato il ricorso, osservando che la legge prevede l’obbligo, per l’autorità amministrativa, di comunicare all’interessato ogni atto concernente l’espulsione unitamente ad una traduzione in una lingua a lui conosciuta e, solo ove ciò non sia possibile, in lingua francese, inglese, o spagnola. Tale obbligo – ha affermato la Corte – viene meno solo quando il giudice di merito abbia accertato, con motivazione logicamente argomentata, la comprovata conoscenza della lingua italiana da parte dell’interessato, poiché solo in tal caso resta irrilevante la mancata conoscenza della lingua nella quale il decreto di espulsione è stato tradotto.
La Cassazione ha richiamato l’orientamento della Corte Costituzionale secondo cui anche allo straniero irregolarmente soggiornante in Italia dev’essere riconosciuto il pieno esercizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e dall’art. 13 della legge 25 ottobre 1977, n. 881, con la quale è stato ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici stipulato a New York il 19 dicembre 1966; il pieno esercizio del diritto di difesa comporta che il destinatario di un provvedimento restrittivo della sua libertà di autodeterminazione dev’essere messo in grado di comprenderne il contenuto e il significato. Poiché la legge richiede che il provvedimento di espulsione sia portato a conoscenza dell’interessato con modalità che ne garantiscano in concreto la conoscibilità – ha affermato la Cassazione – la sua mancata traduzione nella lingua del suo paese d’origine o in altra lingua da lui conosciuta lede il diritto di difesa; né tale lesione è sanata dalla comunicazione del provvedimento con una traduzione in lingua inglese senza la preventiva giustificazione della impossibilità di rendere compiutamente noto il provvedimento al suo destinatario, poiché, se al giudice non è consentito sindacare le modalità di organizzazione dei servizi della pubblica amministrazione, egli è pur sempre tenuto ad annullare il provvedimento amministrativo che non sia conforme alla legge la quale consente la traduzione in una delle tre lingue solo “ove non sia possibile” quella in una lingua nota all’interessato. Neppure può invocarsi la sanatoria per il raggiungimento dello scopo dell’atto quante volte lo straniero abbia presentato tempestivo ricorso difendendosi nel merito – ha affermato la Corte – poiché la sanatoria della nullità degli atti processuali, prevista in via generale dall’art. 156, co. 3, cod. proc. civ., non consente di superare la violazione del diritto di difesa derivante dalla comunicazione di un provvedimento amministrativo in forme che non ne garantiscano la piena e immediata conoscibilità all’interessato fuori dei casi in cui ciò non sia in concreto possibile.
LA CASSAZIONE DEVE ESSERE FEDELE AI SUOI PRECEDENTI
Per assicurare l’uniforme interpretazione della legge (Cassazione Sezione Lavoro n. 9336 del 10 luglio 2001, Pres. Trezza, Rel. Evangelista).
Esiste per la Corte Suprema il dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione di assicurare l’esatta osservanza, l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale. Tale funzione è attribuita alla Corte dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario di cui al Regio Decreto 30 gennaio 1941 n. 12, ma assume anche rilevanza costituzionale, essendo strumentale al suo espletamento il principio, sancito dall’art. 111 Cost., dell’indeclinabilità del controllo di legittimità delle sentenze. La Corte può discostarsi dai suoi precedenti quando le si sottopongano argomenti che non siano già stati disattesi o che propongano questioni di particolare gravità.
IL CITTADINO PUÒ CHIEDERE ALLO STATO IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO IN CASO DI GRAVI VIOLAZIONI DI LEGGE DETERMINATE DA ERRORI MACROSCOPICI E DA NEGLIGENZE ASSOLUTAMENTE INGIUSTIFICABILI
Quando cioè vi sia una manipolazione arbitraria del testo legislativo e si sconfini nel diritto libero (Cassazione Sezione Prima Civile n. 11880 del 20 settembre 2001, Pres. Greco, Rel. Luccioli).
In base alla legge 13 aprile 1988 n. 117 chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un provvedimento giudiziario può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni, in caso di colpa grave del magistrato. La legge precisa che, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
Costituiscono, per la legge, colpa grave del magistrato:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
Quanto alla fattispecie di cui alla lettera a) può osservarsi che l’espresso richiamo alla “negligenza inescusabile” nella commissione della grave violazione di legge postula una totale mancanza di attenzione nell’ uso degli strumenti normativi, una trascuratezza così marcata da non poter trovare alcuna plausibile giustificazione e da apparire espressione di assoluta incuria e mancanza di professionalità. Per ciò che concerne le ipotesi di cui alle lett. b) e c) il dato testuale, richiedendo che il fatto risulti o sia escluso “incontrastabilmente” dagli atti del procedimento e che l’errore sia determinato, ancora una volta, da “negligenza inescusabile”, manifesta l’intenzione del legislatore di riferirsi all’ errore macroscopico, commesso in un contesto di piena evidenza ed immediata rilevabilità del fatto o della sua negazione dagli atti del processo, reso possibile da una tale disattenzione nella lettura delle emergenze processuali tali da apparire oggettivamente inescusabile. Il giudice non risponde degli errori di diritto determinati da un’erronea scelta interpretativa: la “grave violazione di legge” viene a sostanziarsi nella violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma , ovvero – secondo una tipologia elaborata dalla dottrina – nella interpretazione del suo significato in termini contrastanti con ogni criterio logico, nell’ adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, nella manipolazione arbitraria del testo normativo, nello sconfinamento nel diritto libero, mentre resta nell’area di esenzione da responsabilità la lettura della legge secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente, quando dell’opzione interpretativa seguita si dia conto e ragione nella motivazione.
Sulla base di tali principi è possibile quindi ravvisare il discrimine tra attività interpretativa tutelata e colpa grave, ritenendo fonte di responsabilità quei comportamenti, atti e provvedimenti che non possono considerarsi manifestazioni di discrezionalità interpretativa esplicata all’interno della dialettica processuale, ma appaiono determinati da una inescusabile e macroscopica negligenza del magistrato nella lettura del complesso normativo. Ciò vale anche a dire che può parlarsi di negligenza inescusabile non sulla base della mera non conformità della decisione a diritto, ma in quanto, tenuto conto delle ragioni con le quali il giudice abbia motivato detta decisione, essa non trovi alcun aggancio nell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale né abbia, in mancanza di detti referenti, una qualsiasi plausibile giustificazione sul piano logico.
Conseguentemente non può ravvisarsi un errore rilevante ai sensi delle lett. b) e c) ove il giudice abbia ritenuto una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti; né può qualificarsi come rilevante l’errore riscontrato a posteriori dal giudice dell’impugnazione sulla base del controllo esercitato sull’attività accertativa e valutativa.
LA SOCIETÀ CHE GESTISCE L’AEROPORTO, NON LA COMPAGNIA AEREA, RISPONDE DEI DANNI SUBITI DAI PASSEGGERI SULL’AUTOMEZZO CHE LI PORTA ALL’AEREO PER L’IMBARCO
Non si applica la convenzione di Varsavia (Cassazione Sezione Terza Civile n. 12015 del 25 settembre 2001, Pres. Duva, Rel. Vittoria).
Nel febbraio del 1985 Elio C. e Giuseppe D. si sono fatti male mentre, all’interno dell’aeroporto di Linate, venivano trasportati su un autobus all’imbarco su un aereo dell’Alisarda diretto a Palma di Maiorca; l’incidente è stato causato da un’erronea manovra dell’autista del mezzo sul quale si trovavano, appartenente alla Società Esercizi Autoportuali, SEA. Essi hanno agito davanti al Tribunale di Milano per ottenere dalla SEA il risarcimento del danno. Il Tribunale con sentenza del marzo 1996 ha dichiarato la SEA responsabile dei danni e obbligata al risarcimento. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Milano che ha ritenuto applicabile la convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929 in materia di trasporto internazionale di passeggeri o merci per via aerea e ha rilevato che i danneggiati avevano iniziato il giudizio dopo il decorso del termine di decadenza, di due anni dal fatto, stabilito dall’art. 29 di tale convenzione. I danneggiati hanno proposto ricorso per cassazione sostenendo che la convenzione di Varsavia non regola la responsabilità dei soggetti, diversi dalle compagnia aeree, che gestiscono i servizi di terra.
La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 12015 del 25 settembre 2001, Pres. Duva, Rel. Vittoria) ha accolto il ricorso, osservando che la convenzione di Varsavia si applica quando l’incidente si sia prodotto a bordo dell’aereo o nel corso delle operazioni di imbarco o di sbarco. Il trasporto dall’aerostazione verso l’aereo – ha rilevato la Corte – non può essere considerato operazione di imbarco, inerente al trasporto aereo e pertanto rientrante nella responsabilità del vettore, né il gestore dell’esercizio aeroportuale può essere considerato un soggetto incaricato dalla compagnia aerea. Conseguentemente la Corte ha affermato che in materia deve essere applicata la legge italiana, con esclusione della decadenza prevista dalla Convenzione di Varsavia.
IL LOCATORE NON DOVRÀ PIÙ DIMOSTRARE DI AVERE PAGATO LE TASSE PER POTER SFRATTARE L’INQUILINO
L’articolo 7 della legge n. 431 del 1998 contrasta con l’articolo 24 della Costituzione (Corte Costituzionale n. 333 del 5 ottobre 2001, Pres. Ruperto, Red. Marini).
Carlo B., ha ottenuto nei confronti di Mohammed B. un provvedimento di rilascio di un appartamento, per scadenza del contratto di locazione. Poiché l’appartamento non è stato rilasciato, Carlo B. ha notificato all’inquilino un atto di precetto, preannunciando l’azione esecutiva. Mohammed B. ha proposto opposizione davanti al Tribunale di Firenze facendo presente che nell’atto di precetto non erano state inserite le indicazioni previste dall’art. 7 della L. 9/12/1998 n. 431 (disciplina delle locazione e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo), ossia: “gli estremi di registrazione del contratto di locazione, gli estremi dell’ultima denuncia dell’unità immobiliare ai fini dell’applicazione dell’ICI, gli estremi dell’ultima dichiarazione dei redditi nella quale il reddito derivante dal contratto era stato dichiarato, nonché gli estremi dei versamenti dell’ICI relativi all’anno precedente a quello di competenza”. Il Tribunale, avendo rilevato che in effetti Carlo B. non aveva osservato le formalità prescritte dalla legge, ha sollevato la questione di legittimità dell’art. 7 L. n. 431 del 1998 per contrasto con l’art. 24 della Costituzione, che tutela il diritto di agire in giudizio.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 333 del 5 ottobre 2001 (Pres. Ruperto, Red. Marini), ha ritenuto fondata la questione sollevata dal Tribunale ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della L. 9/12/1998 n. 431. Il diritto di agire in giudizio – ha affermato la Corte – non può essere sottoposto ad oneri che sono diretti al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali. In questo caso, l’onere posto a carico del locatore, di dimostrare di avere assolto alcuni obblighi tributari – ha osservato la Corte – risponde esclusivamente a fini di controllo fiscale e risulta pertanto privo di qualsivoglia connessione con il processo esecutivo e con gli interessi che questo è diretto a realizzare.