Per le affiliazioni o appartenenze successive al marzo 1990 la colpa è “in re ipsa” – (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1736 del 18 febbraio 1997, Pres. La Torre, Rel. Genghini).
Nel 1994 il magistrato F.P. è stato sottoposto a procedimento disciplinare per avere assunto, con giuramento prestato per affiliazione alla loggia massonica “Athernum” di Pescara, il 5 luglio 1978, impegni incompatibili con i doveri di trasparenza («non palesare i segreti della iniziazione muratoria”), di imparzialità (“difendere i suoi Fratelli”), di soggezione soltanto alla legge (“non professare principi che osteggino quelli propugnati dalla libera Muratoria”), così rendendosi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui doveva godere.
La Sezione disciplinare, non senza dare atto che il Dr. F. nel 1979 era passato al “grado II) della massoneria” e che da questa era stato “depennato” in data 4 gennaio 1985 per “scarsa frequentazione”, affermava la responsabilità dell’incolpato, irrogandogli la sanzione dell’ammonimento: ciò in quanto egli, per il solo fatto di avere prestato il giuramento massonico, era venuto meno al dovere di fedeltà alla Repubblica.
Il magistrato ha impugnato questa decisione con ricorso alla Suprema Corte, sostenendo che la responsabilità disciplinare non può essere affermata unicamente in base ad un dato oggettivo, ossia per il fatto di aver prestato nel 1978, il giuramento massonico, senza tener conto che all’epoca l’appartenere alla massoneria non era percepibile come disdicevole per un magistrato, avendo il Consiglio Superiore della Magistratura adottato la prima delibera in tal senso il 22 marzo 1990. La Corte (Sezioni Unite Civili n. 1736 del 18 febbraio 1998, Pres. La Torre. Rel. Genghini) ha accolto il ricorso affermando che l’appartenenza alla massoneria ha assunto, di per sé, le connotazioni di un illecito disciplinare soltanto nel marzo 1990, allorché il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato. Per stabilire se l’appartenenza alla massoneria, nel periodo antecedente al marzo 1990 possa configurare per un magistrato un illecito disciplinare – ha affermato la Corte – non è sufficiente stabilire che egli abbia prestato il giuramento iniziatico, ma occorre accertare la sussistenza di altri elementi negativi, ed in particolare quelli derivanti da un’impegnata e attiva militanza, quali: a) la lunga durata dell’appartenenza alla massoneria; b) la frequentazione assidua e comunque non sporadica; c) il cursus honorum che il magistrato abbia conseguito all’interno di essa, essendo ciò il segno di una benemerenza che, nella sua immagine rovesciata, si pone in contrasto, per il magistrato, con i doveri di dedizione all’ufficio e apre, inoltre, il dubbio del se e quanto quella estranea benemerenza sia stata o sia apparsa propiziata dalla funzione giudiziaria. Ancora: d) la mancanza di discrezione o addirittura l’ostentazione nell’esibire l’appartenenza alla massoneria cosi da ingenerare nei terzi o l’impressione di favorevoli predisposizioni (verso “i fratelli”) o il timore (da parte degli altri) di parzialità, pregiudicando in ambo i casi la considerazione del magistrato e la credibilità della funzione giudiziaria; e) la situazione ambientale, laddove il ruolo della massoneria o il potere d’influenza a essa attribuita dall’opinione pubblica del luogo rende o fa sembrare ancora più inaffidabile la posizione del magistrato, degradandone la figura. In queste e in ogni altra manifestazione comportamentale del genere, che nell’ampia varietà dei casi può presentarsi al motivato accertamento di merito del giudice disciplinare, vi è una condotta deontologicamente riprovevole della quale il magistrato ha piena consapevolezza, conoscendone o dovendo conoscerne il disvalore. Occorre, in conclusione – ha affermato la Corte – tener presente un duplice discrimine:
– il primo è di carattere temporale: per le affiliazioni o appartenenze massoniche successive al 22 marzo 1990, la colpa è “in re ipsa”, consistendo nell’inosservanza del divieto posto dalla risoluzione consiliare emessa in quella data, e restando solo da valutare – anche ai fini della sanzione più appropriata – l’entità e il grado della colpa;
– il secondo discrimine, che riguarda i comportamenti anteriori, è di natura sostanziale: essi integrano o no l’illecito disciplinare secondo che, in concreto, sia accertata o esclusa la “colpa” nel senso sopra indicato.
Questa linea interpretativa – ha osservato la Corte – sembra la più idonea per conciliare il giusto rigore della risoluzione consiliare del 22 marzo 1990 con 1’esigenza, altrettanto giusta, di differenziare posizioni soggettive che, anche nella valutazione deontologica, non sono uguali (a volte anzi sono assai diverse) e che, altrimenti, verrebbero indiscriminatamente accomunate nella stessa ottica punitiva. Un tale appiattimento valutativo, appena attenuato ma non eliminato sul piano sanzionatorio dalla distinzione fra censura e ammonimento (che è pur sempre una pena), finisce, oltre tutto, per ferire il principio costituzionale di uguaglianza, in quanto parifica situazioni fra loro diverse, quali sono: a) sotto il profilo temporale, da una parte, i comportamenti che, essendo successivi alla risoluzione consiliare del 22 marzo 1990, sono già di per sé inosservanti del divieto ivi posto e per ciò stesso contra ius, e dall’altra invece quelli che, essendo anteriori, non sono connotabili con questa impronta di illiceità; b) sotto il profilo sostanziale, poi, da una parte i contegni discutibili sotto il profilo puramente formale, o al più dello stile, e dall’altra invece quelle condotte che sono effettivamente e sicuramente lesive della deontologia del magistrato (tanto se posteriori quanto se antecedenti alla suddetta data).
Nel caso in esame – ha concluso la Corte – trattandosi di affiliazione antecedente al 1990, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto considerare che il magistrato si è difeso sin dall’inizio affermando di non aver partecipato ad altra riunione massonica dopo quella di iniziazione nella quale prestò giuramento, essendo rimasto sostanzialmente estraneo all’attività di quella associazione, indifferente alla non richiesta promozione e persino moroso nel pagamento di alcune quote associative.
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
Nuovi criteri per la successione dei figli dopo la riforma del 2012
La riforma sulla filiazione del 2012 ha introdotto nuovi criteri per la successione dei figli dato che ha sancito definitivamente la sostanziale uguaglianza tra figli nati durante il matrimonio, una volta chiamati legittimi, e figli nati al di fuori del matrimonio, prima chiamati naturali. Al di là del valore etico, questa riforma è andata ad abbattere le ultime differenze tra i figli e gli interventi più significativi son stati in ambito successorio.
I nuovi criteri per la successione dei figli
La novità più importante è stata la cancellazione del cosiddetto “diritto di commutazione”.
Il diritto di commutazione era quella possibilità che avevano i figli legittimi di liquidare, in denaro o beni immobili, i fratelli nati da relazioni fuori dal matrimonio del genitore deceduto.
In questo modo i fratelli venivano liquidati per la porzione di eredità a loro spettante e non entravano a far parte della divisione ereditaria.
In caso di opposizione da parte dei figli naturali, era necessario rivolgersi al Giudice, il quale, valutate le circostanze personali e patrimoniali, era tenuto a prendere una decisione. Oggi, invece, anche i figli nati al di fuori del matrimonio entrano a pieno titolo nella divisione ereditaria. Non solo: il diritto successorio non è riconosciuto unicamente nei confronti dei genitori, ma anche di tutti gli altri parenti.
La precedente riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva sì compiuto un sostanziale passo in avanti in questa direzione, introducendo il dovere di ciascun genitore di mantenere, educare e istruire i figli anche se nati fuori dal matrimonio. Ma erano rimaste comunque delle differenze di trattamento tra figli nati all’interno o all’esterno del matrimonio, la maggior parte delle quali riguardavano proprio i diritti successori.
Di fatto, si venivano a creare ingiustificati privilegi e disparità che legavano la nascita del bambino alla sua futura possibilità di accedere o meno all’eredità familiare. Quasi come se i figli concepiti e nati nel matrimonio godessero di una superiorità affettiva, e quindi materiale, su tutti gli altri.
Possiamo dire, quindi, che è stato fatto un ulteriore passo avanti in una società come quella attuale, caratterizzata dalla costante diminuzione di nuovi matrimoni a fronte di un aumento, via via sempre maggiore, di convivenze, dove la precedente normativa poteva apparire decisamente anacronistica.
Assegnazione della casa familiare in caso di marito e moglie separati o divorziati senza figli
L’assegnazione della casa familiare è un provvedimento che difficilmente viene emesso dal Tribunale in caso di marito e moglie separati o divorziati senza figli. Se non c’è accordo tra i coniugi, infatti, il Giudice tende a evitare che il godimento dell’immobile venga concesso ad un soggetto che non ne sia il proprietario.
L’assegnazione della casa familiare in mancanza di figli
Quando sono presenti dei figli la casa familiare viene normalmente assegnata al coniuge presso il quale sono collocati, cioè il genitore con cui i figli vivono per la maggior parte del tempo. Questa regola “non scritta” è dettata dall’esigenza di garantire ai figli la possibilità di continuare a vivere nell’ambiente domestico in cui hanno vissuto fino al momento della separazione.
Quando si discute la separazione o il divorzio di una coppia senza figli, invece, l’assegnazione della casa familiare non è un processo automatico. Si tratta di un tema ampiamente dibattuto tra le aule di Tribunale e rispetto al quale la storia di ogni coppia andrebbe analizzata singolarmente.
In linea generale, se la coppia riesce a raggiungere un accordo di separazione o divorzio consensuale, l’assegnazione della casa familiare può essere inserita tra le condizioni indipendentemente da chi sia il vero proprietario. Marito e moglie possono, quindi, arrivare a definire le modalità di spartizione dei beni comuni, casa compresa, ma anche stabilire che uno dei due ci possa vivere anche se l’immobile non è di sua proprietà.
Cosa succede alla casa familiare in mancanza di accordo
Se marito e moglie non sono d’accordo sarà il Giudice a esprimersi sulla sorte dell’abitazione. Se l’immobile è di proprietà di uno solo dei due coniugi, questo verrà con molte probabilità lasciato al suo legittimo proprietario. Nemmeno in caso di addebito di separazione vi sono grosse possibilità da parte dell’altro coniuge di ottenere l’assegnazione della casa.
Se invece marito e moglie hanno acquistato l’abitazione in comunione dei beni, la soluzione più frequente che viene adottata, e incoraggiata dai Giudici, è quella di mettere in vendita l’immobile e suddividere il ricavato.
Tuttavia in caso di coniugi comproprietari potrebbe anche accadere che l’abitazione venga assegnata al coniuge che, per effetto della separazione, risulti economicamente più debole. Si tratta di un’ipotesi percorribile solo in presenza di una sensibile disparità economica, che potrebbe essere in parte riequilibrata mediante l’assegnazione dell’immobile.
IL GIUDICE E’ LIBERO DI FORMARE IL PROPRIO CONVINCIMENTO ANCHE IN BASE A PROVE ATIPICHE
Purché congruamente valutate (Cassazione Sezione Lavoro n. 4666 del 27 marzo 2003, Pres. Prestipino, Rel. Lamorgese).
L’art. 116 cod. proc. civ. stabilisce che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. In base a questo principio il giudice è libero di formare il proprio convincimento in base agli elementi probatori acquisiti al processo che ritiene rilevanti per la sua decisione, anche se non espressamente disciplinati dalla legge. Egli può cioè utilizzare anche le cosiddette prove atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo. L’unico limite per l’utilizzabilità di tali prove è costituito dal dovere di dare congrua motivazione dei criteri adottati per la loro valutazione.
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
MESSAGGIO INFORMALE DEL GIP AL P.M. PER SEGNALARE LE ARGOMENTAZIONI DELLA DIFESA E SOLLECITARE “DUE RIGHE”
Può configurare un illecito disciplinare (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 360 del 16 gennaio 1998, Pres. Vessia, Rel. Genghini).
In un processo penale davanti al Tribunale di Palermo, il Pubblico Ministero ha chiesto al Giudice per le Indagini Preliminari una proroga del termine per le indagini. La difesa dell’imputato si è opposta. Il magistrato L.C., che esercitava le funzioni di GIP ne ha informato il PM con un biglietto del seguente tenore: “Caro Giovanni ti rimetto le argomentazioni svolte dal difensore di L. avverso la richiesta di proroga delle indagini, non per un parere, che proceduralmente non è previsto, ma perché argomentare in senso contrario presuppone l’attento esame del fascicolo che è ponderoso. Mi pare opportuno che voi ne abbiate notizia, al fine di paralizzare future eccezioni di nullità. – Ti sarei grato se tu volessi scrivermi informalmente due righe, in modo da evitarmi una noiosa camera di consiglio.”
In seguito a ciò, per iniziativa del ministro di Grazia e Giustizia, L.C. è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere indirizzato al P.M. richieste informali non contemplate dal codice di procedura, mancando gravemente ai propri doveri, rendendosi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere il magistrato e compromettendo così il prestigio dell’Ordine Giudiziario, anche perchè della vicenda si era occupata la stampa.
La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha inflitto a L.C. la sanzione della censura e ne ha disposto il trasferimento d’ufficio, in quanto ha ritenuto che il magistrato incolpato con la sua condotta, oltre a violare le norme processuali, aveva dimostrato “la pregiudiziale e preconcetta presa di posizione a favore del P.M.” ed aveva in tal modo “sostanzialmente abdicato al proprio ruolo di garantire, con imparzialità e terzietà, ad entrambe le parti processuali pari possibilità di far valere le proprie ragioni”.
Contro questa decisione il magistrato ha proposto ricorso, sostenendo tra l’altro che il suo messaggio non era destinato a divenire pubblico e si inseriva nei rapporti di tretta colleganza che si stabiliscono negli uffici giudiziari fra i magistrati del Pubblico Ministero e quelli dell’Ufficio del GIP.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 360 del 16 gennaio 1998, Pres. Vessia, Rel. Genghini), ha rigettao il ricorso, osservando che la sanzione disciplinare è stata irrogata non semplicemente per la erroneità del procedimento adottato dal GIP, ma perchè la condotta di questo magistrato era stata viziata dal modo di concepire l’esercizio delle proprie funzioni, non conforme al dovere di imparzialità e terzietà nella dialettica processuale tra le parti.
Questa impropria impostazione del rapporto con il PM, ha rilevato la Corte, è rivelata in particolare da alcuni punti del messaggio quali l’esplicito richiamo alla sgradevole necessità di “un attento esame del fascicolo che è ponderoso”, al desiderio di evitare “una noiosa camera di consiglio” nonché al “fine di paralizzare future eccezioni di nullità”.
La Corte ha ritenuto adeguata la sanzione, anche perchè, come è stato rilevato dalla sezione disciplinare del C.S.M. la missiva in questione “ha avuto diffusione, anche se limitata territorialmente, attraverso la pubblicazione sugli organi di stampa, con conseguente grave pregiudizio per il magistrato incolpato e dell’intero Ordine Giudiziario.”
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
L’APPARTENENZA DEL MAGISTRATO ALLA MASSONERIA NEL PERIODO ANTECEDENTE AL MARZO 1990 PUÒ CONFIGURARE ILLECITO DISCIPLINARE OVE SI ACCERTI UNA SUA ATTIVA MILITANZA
Per le affiliazioni o appartenenze successive al marzo 1990 la colpa è “in re ipsa” – (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1736 del 18 febbraio 1997, Pres. La Torre, Rel. Genghini).
Nel 1994 il magistrato F.P. è stato sottoposto a procedimento disciplinare per avere assunto, con giuramento prestato per affiliazione alla loggia massonica “Athernum” di Pescara, il 5 luglio 1978, impegni incompatibili con i doveri di trasparenza («non palesare i segreti della iniziazione muratoria”), di imparzialità (“difendere i suoi Fratelli”), di soggezione soltanto alla legge (“non professare principi che osteggino quelli propugnati dalla libera Muratoria”), così rendendosi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui doveva godere.
La Sezione disciplinare, non senza dare atto che il Dr. F. nel 1979 era passato al “grado II) della massoneria” e che da questa era stato “depennato” in data 4 gennaio 1985 per “scarsa frequentazione”, affermava la responsabilità dell’incolpato, irrogandogli la sanzione dell’ammonimento: ciò in quanto egli, per il solo fatto di avere prestato il giuramento massonico, era venuto meno al dovere di fedeltà alla Repubblica.
Il magistrato ha impugnato questa decisione con ricorso alla Suprema Corte, sostenendo che la responsabilità disciplinare non può essere affermata unicamente in base ad un dato oggettivo, ossia per il fatto di aver prestato nel 1978, il giuramento massonico, senza tener conto che all’epoca l’appartenere alla massoneria non era percepibile come disdicevole per un magistrato, avendo il Consiglio Superiore della Magistratura adottato la prima delibera in tal senso il 22 marzo 1990. La Corte (Sezioni Unite Civili n. 1736 del 18 febbraio 1998, Pres. La Torre. Rel. Genghini) ha accolto il ricorso affermando che l’appartenenza alla massoneria ha assunto, di per sé, le connotazioni di un illecito disciplinare soltanto nel marzo 1990, allorché il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato. Per stabilire se l’appartenenza alla massoneria, nel periodo antecedente al marzo 1990 possa configurare per un magistrato un illecito disciplinare – ha affermato la Corte – non è sufficiente stabilire che egli abbia prestato il giuramento iniziatico, ma occorre accertare la sussistenza di altri elementi negativi, ed in particolare quelli derivanti da un’impegnata e attiva militanza, quali: a) la lunga durata dell’appartenenza alla massoneria; b) la frequentazione assidua e comunque non sporadica; c) il cursus honorum che il magistrato abbia conseguito all’interno di essa, essendo ciò il segno di una benemerenza che, nella sua immagine rovesciata, si pone in contrasto, per il magistrato, con i doveri di dedizione all’ufficio e apre, inoltre, il dubbio del se e quanto quella estranea benemerenza sia stata o sia apparsa propiziata dalla funzione giudiziaria. Ancora: d) la mancanza di discrezione o addirittura l’ostentazione nell’esibire l’appartenenza alla massoneria cosi da ingenerare nei terzi o l’impressione di favorevoli predisposizioni (verso “i fratelli”) o il timore (da parte degli altri) di parzialità, pregiudicando in ambo i casi la considerazione del magistrato e la credibilità della funzione giudiziaria; e) la situazione ambientale, laddove il ruolo della massoneria o il potere d’influenza a essa attribuita dall’opinione pubblica del luogo rende o fa sembrare ancora più inaffidabile la posizione del magistrato, degradandone la figura. In queste e in ogni altra manifestazione comportamentale del genere, che nell’ampia varietà dei casi può presentarsi al motivato accertamento di merito del giudice disciplinare, vi è una condotta deontologicamente riprovevole della quale il magistrato ha piena consapevolezza, conoscendone o dovendo conoscerne il disvalore. Occorre, in conclusione – ha affermato la Corte – tener presente un duplice discrimine:
– il primo è di carattere temporale: per le affiliazioni o appartenenze massoniche successive al 22 marzo 1990, la colpa è “in re ipsa”, consistendo nell’inosservanza del divieto posto dalla risoluzione consiliare emessa in quella data, e restando solo da valutare – anche ai fini della sanzione più appropriata – l’entità e il grado della colpa;
– il secondo discrimine, che riguarda i comportamenti anteriori, è di natura sostanziale: essi integrano o no l’illecito disciplinare secondo che, in concreto, sia accertata o esclusa la “colpa” nel senso sopra indicato.
Questa linea interpretativa – ha osservato la Corte – sembra la più idonea per conciliare il giusto rigore della risoluzione consiliare del 22 marzo 1990 con 1’esigenza, altrettanto giusta, di differenziare posizioni soggettive che, anche nella valutazione deontologica, non sono uguali (a volte anzi sono assai diverse) e che, altrimenti, verrebbero indiscriminatamente accomunate nella stessa ottica punitiva. Un tale appiattimento valutativo, appena attenuato ma non eliminato sul piano sanzionatorio dalla distinzione fra censura e ammonimento (che è pur sempre una pena), finisce, oltre tutto, per ferire il principio costituzionale di uguaglianza, in quanto parifica situazioni fra loro diverse, quali sono: a) sotto il profilo temporale, da una parte, i comportamenti che, essendo successivi alla risoluzione consiliare del 22 marzo 1990, sono già di per sé inosservanti del divieto ivi posto e per ciò stesso contra ius, e dall’altra invece quelli che, essendo anteriori, non sono connotabili con questa impronta di illiceità; b) sotto il profilo sostanziale, poi, da una parte i contegni discutibili sotto il profilo puramente formale, o al più dello stile, e dall’altra invece quelle condotte che sono effettivamente e sicuramente lesive della deontologia del magistrato (tanto se posteriori quanto se antecedenti alla suddetta data).
Nel caso in esame – ha concluso la Corte – trattandosi di affiliazione antecedente al 1990, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto considerare che il magistrato si è difeso sin dall’inizio affermando di non aver partecipato ad altra riunione massonica dopo quella di iniziazione nella quale prestò giuramento, essendo rimasto sostanzialmente estraneo all’attività di quella associazione, indifferente alla non richiesta promozione e persino moroso nel pagamento di alcune quote associative.
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
GARANZIA DI INDIPENDENZA DEI GIUDICI NON TOGATI COMPONENTI DI SEZIONI SPECIALIZZATE DELLA MAGISTRATURA ORDINARIA
(Corte Costituzionale n. 83 del 1 aprile 1998, Pres. Granata, Red. Mirabelli).
La legge 12 novembre 1990 n. 339 sull’Ordine Nazionale dei Geologi prevede all’art. 6, che le decisioni del Consiglio Nazionale in materia di iscrizioni, cancellazioni e provvedimenti disciplinari possono essere impugnate davanti al Tribunale Civile, la cui composizione deve essere integrata da due iscritti all’Ordine designati di volta in volta dal Consiglio Nazionale. Nel corso di un giudizio relativo all’iscrizione di un geologo nell’Albo, il Tribunale di Torino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 L. n. 339 del 1990 per contrasto con l’art. 25 della Costituzione che afferma il principio del giudice naturale precostituito per legge. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 83 del 1 aprile 1998, (Pres. Granata, Red. Mirabelli) ha ritenuto fondata la questione, enunciando principi di portata generale in materia di costituzione e funzionamento di collegi giudicanti specializzati e comprendenti giudici non togati.
Essa, pur affermando che la Costituzione consente l’istituzione di tali organi giurisdizionali, ha precisato che il meccanismo di nomina dei giudici non togati deve essere tali da assicurare loro piena indipendenza ed ha escluso che essi possano essere designati di volta in volta con riferimento a specifiche controversie. Pertanto la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, della legge 12 novembre 1990 n. 339, limitatamente alle parole “designati di volta in volta dal Consiglio Nazionale” ed ha stabilito che il potere di nomina dei giudici non togati per le decisioni concernenti l’Ordine dei Geologi deve ritenersi rimesso al Consiglio Superiore della Magistratura e da questo può essere delegato ai presidenti delle Corti d’Appello.
In considerazione dell’importanza della decisione, Legge e giustizia ne riporta il testo integrale nella Sezione Documenti.
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
RIGETTATI DALLA SUPREMA CORTE VARI RICORSI DI MAGISTRATI RAGGIUNTI DA PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI
Tra i comportamenti sanzionati: mancanza di equilibrio, improprie dichiarazioni alla stampa, eccessivo zelo indagatorio (Sezioni Unite n.ri 6956, 6957, 6958 e 6959 del 16 luglio 1998, n. 7091 del 20 luglio 1998 e n. 7478 del 30 luglio 1998).
Con una serie di decisioni depositate nello scorso luglio, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno respinto vari ricorsi proposti da magistrati contro sanzioni disciplinari loro applicate dal Consiglio Superiore. Tra i comportamenti sanzionati si segnalano:
– Mancanza di equilibrio – Si tratta del presidente di un Tribunale della libertà che, irritato per il ritardo di un componente del Collegio impegnato in un’altra incombenza, ha chiuso l’udienza dopo avere atteso per soli 16 minuti, senza svolgere con la dovuta cura la ricerca di un sostituto, determinando in tal modo la perdita di efficacia dei provvedimenti restrittivi impugnati (Cass. Sez. Un. n. 6956 del 16 luglio 1998, Pres. La Torre, Rel. Cristarella Orestano);
– Omessa comunicazione di notizie utili per un’indagine – Si tratta di un sostituto procuratore della Repubblica che, avendo appreso da una conoscente notizie che potevano essere utili per lo svolgimento delle indagini in corso su una clamorosa vicenda di ripetuti omicidi, ha omesso di comunicarle tempestivamente al titolare dell’inchiesta (Cass. Sez. Un n. 6957 del 16 luglio 1998, Pres. La Torre, Rel. Giannantonio).
– Dichiarazioni alla stampa in merito all’operato di colleghi, con rivelazione del contenuto di intercettazioni telefoniche ancora coperte dal segreto processuale – Si tratta di un Procuratore della Repubblica che, con dichiarazioni riportate da numerosi organi di stampa, ha criticato l’operato di due suoi sostituti per il modo con cui conducevano le inchieste e per la leggerezza con cui richiedevano provvedimenti cautelari, riferendosi al contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite nel corso di un’indagine e ancora coperte dal segreto istruttorio (Cass. Sez. Un. n. 6958 del 16 luglio 1998, Pres. Bile, Rel. Cristarella Orestano).
– Assegnazione di incarichi di consulenza a professionista amico di famigliari – Si tratta di un Consigliere di Corte di Appello che ha conferito vari incarichi di consulenza ad un geometra notoriamente legato da rapporti di amicizia e frequentazione con suo padre, oltreché da rapporti di convivenza con sua sorella, suscitando commenti negativi negli ambienti forensi (Cass. Sez. Un . n. 6959 del 16 luglio 1998, Pres. Bile, Rel. Cristarella Orestano).
– Attività didattica retribuita svolta in forma di impresa – Si tratta di due procuratori aggiunti che hanno svolto attività didattica retribuita di preparazione ai concorsi per uditore giudiziario e per esami di procuratore legale. Ai corsi, di durata semestrale, partecipavano circa 200 persone che pagavano una quota di iscrizione di lire 100.000 oltre ad una retta mensile di pari importo (Cass. Sez. Un. n. 7091 del 20 luglio 1998, Pres. La Torre, Rel. Ianniruberto).
– Eccessivo zelo indagatorio manifestatosi con indebite pressioni su persone informate dei fatti allo scopo di indurle a rendere utili per l’accusa – Si tratta di un sostituto procuratore che, per il comportamento tenuto nell’interrogare persone informate dei fatti, sottoponendole ad indebite pressioni, è stato ritenuto responsabile di “eccessivo zelo indagatorio e disinvoltura strategica”, nonché di “cadute di equilibrio e serenità che hanno comportato scarsa considerazione della dignità delle persone interrogate” (Cass. Sez. Un. n. 7478 del 30 luglio 1998, Pres. La Torre, Rel. Ianniruberto).
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
SOTTOSCRIZIONE DELLA SENTENZA DA PARTE DEL GIUDICE PIÙ ANZIANO DEL COLLEGIO, IN SOSTITUZIONE DEL PRESIDENTE
Non è consentita in caso di trasferimento del magistrato sostituito (Cassazione Sezione Lavoro n. 10948 del 2 novembre 1998, Pres. Mattone, Rel. Roselli).
Deve ritenersi nulla, in base all’art. 132 cod. proc. civ., la sentenza di Tribunale sottoscritta dal componente più anziano del Collegio invece che dal presidente, impedito in quanto “trasferito ad altra sede”.
L’art. 132 cit., terzo comma, prescrive che la sentenza emessa dal giudice collegiale sia sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice estensore e che, se il primo non può sottoscrivere, per morte o per altro impedimento, la sentenza sia sottoscritta dal componente più anziano del Collegio, purchè prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento, con ciò attribuendo al giudice più anziano il potere-dovere di surrogarsi al presidente nella collazione e nella sottoscrizione della sentenza (art. 119 disp. att. cod. proc. civ.).
Quanto alla natura dell’impedimento, la giurisprudenza della Suprema Corte non è stata sempre uniforme. Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice civile si affermò un orientamento assai estensivo, che portò a ravvisare l’impedimento a sottoscrivere perfino nella fruizione del congedo ordinario (Cass. 9 gennaio 1948 n. 16). Mentre questo orientamento fu presto abbandonato, rimase, e fu accolto anche dalla dottrina, quello secondo cui la valutazione della gravità dell’impedimento è discrezionale e perciò incensurabile in Cassazione (Cass. 19 marzo 1948).
In un secondo momento prevalse la tesi restrittiva, che considerava valido impedimento a sottoscrivere solo l’impossibilità fisica o psichica, anche temporanea (Cass. 22 maggio 1954 n. 1654, 16 giugno 1954 n. 2049) e perciò lo escludeva nel caso di trasferimento del giudice ad altra sede, considerato che nella nuova sede la sentenza “gli può essere rimessa a cura dell’ufficio che egli ha lasciato” (Cass. 19 luglio 1957 n. 3029, 15 febbraio 1963 n. 336, che richiede la definitività ed irrimediabilità dell’impedimento, 7 gennaio 1966 n. 131).
Questo orientamento è poi prevalso. Deve pertanto ritenersi che il trasferimento del magistrato non costituisca impedimento definitivo e assoluto, tale da giustificare la mancata sottoscrizione del presidente e così da escludere la nullità della sentenza.
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
ANCHE PER I CREDITI DI LAVORO MATURATI DOPO IL 31 DICEMBRE 1994 SONO DOVUTI, IN CASO DI RITARDATO PAGAMENTO, SIA LA RIVALUTAZIONE MONETARIA CHE GLI INTERESSI LEGALI
Il divieto di cumulo, stabilito con la legge 23 dicembre 1994 n. 724 è contrario alla Costituzione (Corte Costituzionale n. 459 del 2 novembre 2000, Pres. Mirabelli, Red. Marini).
C.T., ex dipendente della Fiat Auto S.p.A., avendo percepito con ritardo il trattamento di fine rapporto, ha chiesto al Pretore di Torino di condannare l’azienda al pagamento sia degli interessi legali che dell’importo risultante dalla rivalutazione monetaria del suo credito. Egli ha fatto riferimento all’art. 429 cod. proc. civ. che prevede, per i crediti di lavoro, la rivalutazione e, in aggiunta, gli interessi.
L’azienda si è difesa sostenendo che, poiché il rapporto di lavoro era cessato dopo il 31 dicembre 1994 e quindi il credito della lavoratrice era sorto dopo tale data, doveva applicarsi l’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, che esclude il cumulo degli interessi legali e della rivalutazione monetaria per i crediti di lavoro sorti dopo il 31 dicembre 1994; questa norma consente di ottenere, in alternativa, o la rivalutazione o gli interessi.
Il Pretore di Torino, con ordinanza del 21 maggio 1999, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma invocata dall’azienda, richiamando la costante giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui questa disposizione si applica non solo ai crediti verso gli istituti previdenziali, ma anche a quelli verso i datori di lavoro.
Secondo il Pretore di Torino l’esclusione del cumulo per i crediti di lavoro sorti dopo il 31 dicembre 1994 appariva in contrasto con gli artt. 3 (principio di eguaglianza e ragionevolezza) e 36 (diritto all’equa retribuzione) della Costituzione. Analoga questione è stata sollevata dal Tribunale di Trani.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 459 del 2 novembre 2000, Pres. Mirabelli, Red. Marini), ha ritenuto fondata la questione ed ha conseguentemente dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994 n. 724 (misure di razionalizzazione della finanza pubblica) limitatamente alle parole “e privati””.
Nella motivazione, di cui pubblichiamo il testo integrale nella sezione Documenti, la Corte ha rilevato che, mentre il divieto di cumulo fra rivalutazione ed interessi per i crediti previdenziali può ritenersi giustificato dalle necessità di contenimento della spesa pubblica, un’analoga esigenza non è ravvisabile per i crediti derivanti da rapporti di diritto privato. La Corte ha pertanto ritenuto applicabile il principio, affermato in precedenti sue decisioni, secondo cui deve essere tutelato il valore reale delle prestazioni dovute al lavoratore subordinato.
La materia concernente le conseguenze del ritardato adempimento dei crediti di lavoro – ha affermato la Corte – non può in alcun modo ritenersi estranea alla garanzia costituzionale della giusta retribuzione, essendo indubbio che l’idoneità della retribuzione ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa si ponga in funzione non solo del suo ammontare ma anche della puntualità della sua corresponsione, del pari essenziale, come è evidente, al soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita del lavoratore e dei suoi familiari; aspetto quest’ultimo che porta necessariamente a diversificare i crediti di lavoro da quelli comuni e che, perciò stesso, richiede per i primi una tutela differenziata da quella accordata ai secondi.
Il presente collegamento è tratto da www.legge-e-giustizia.it
COLPO DI MANO FISCALE SUL PROCESSO DEL LAVORO
Tornano tasse e balzelli, in barba alla Costituzione.
Mentre da ogni parte si preannunciavano sgravi fiscali a favore dei lavoratori, la nuova legge in materia di patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti (29 marzo 2001 n. 134), recentemente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, ha reintrodotto ingenti oneri per spese giudiziarie, tasse di registro, ecc. nelle cause di lavoro. Infatti la nuova legge ha abrogato, con effetto dal 15 luglio 2002, l’art. 10 della legge n. 533/73 che assicurava la gratuità, in materia fiscale, del processo del lavoro. Le ragioni di questa inopinata iniziativa non sono chiare: esigenze di bilancio o desiderio di limitare l’intervento del giudice nei rapporti di lavoro e di assicurare anche in questo modo la tanto auspicata flessibilità dei rapporti fra aziende e dipendenti? Quali che siano le finalità perseguite, gli effetti della riforma sono evidenti. In barba alla Costituzione, che prevede l’eliminazione degli ostacoli di ordine economico che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini (art. 3) e garantisce a tutti la possibilità di agire in giudizio (art. 24), il Parlamento ha aggravato la disparità fra lavoratori e datori di lavoro in materia di costi del servizio giudiziario. Tasse e balzelli vari che, per un’azienda, hanno un’incidenza economica minima, per il singolo lavoratore rappresentano un costo non indifferente, tale da poterlo indurre a rinunciare alla tutela dei suoi diritti. Di questa innovazione legislativa si fa menzione in una nota allegata alla relazione della commissione per lo studio e la revisione per la normativa processuale del lavoro. La pubblichiamo nella sezione Documenti.
NOMINA DEL CONCILIATORE DA PARTE DEL GIUDICE, POSSIBILITÀ DI ARBITRATO, AZIONE SOMMARIA PER L’IMPUGNAZIONE DI LICENZIAMENTI, DELEGA LEGISLATIVA PER LA RIFORMA DEL CONTENZIOSO AMMINISTRATIVO IN MATERIA PREVIDENZIALE, INTEGRAZIONE DEI CONSIGLI GIUDIZIARI
Sono alcune delle proposte avanzate dalla commissione per la revisione delle norme del processo del lavoro – Il testo integrale della relazione conclusiva presentata il 7 maggio 2001.
La commissione istituita dai ministri del Lavoro e della Giustizia per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro ha concluso i suoi lavori con la presentazione di una relazione in data 7 maggio 2001 di cui pubblichiamo il testo integrale nella sezione Documenti.
Tra le proposte di maggior rilievo, quelle che hanno ad oggetto:
IL RILIEVO DI ASSURDITÀ È UN CRITERIO INTERPRETATIVO DA UTILIZZARE CON CAUTELA
Sia per le norme di legge che per i contratti (Cassazione Sezione Lavoro n. 6415 dell’8 maggio 2001, Pres. Santojanni, Rel. Spanò).
Nell’attività interpretativa, il criterio che conduce ad escludere una determinata soluzione perché assurda (argumentum ad absurdum), mutuato da discipline scientifiche e applicabile nei casi in cui ci si trova di fronte ad un’alternativa secca tale da escludere una soluzione intermedia ed articolata, va utilizzato con estrema cautela dal giudice il quale deve piuttosto ricordare a se stesso che inducere difficultatem non est adducere argumentum.
Particolare cautela si impone nell’uso di tale argomento per l’interpretazione dei testi normativi poiché la reductio ad absurdum, fondata sulla presunta ragionevolezza del buon legislatore, si presenta come un’argomentazione fragile, equivoca, inidonea a correggere la lettera e la ratio della legge poiché l’assurdo è “nozione storicamente relativa e soggettivamente mutevole che non acquista oggettività sociale” e non può quindi essere assunto come canone logico atto a giustificare la soluzione opposta, senza tener conto delle varie articolate soluzioni intermedie giustificate dalla complessa disciplina della materia.
Il canone in discorso può peraltro essere meglio invocato nell’interpretazione degli atti di autonomia privata, risolvendosi in sostanza in un richiamo ai principi dettati agli articoli 1366 cod. civ. (interpretare il contratto secondo buona fede), 1369 cod. civ. (attribuire ad espressioni che possono avere più sensi quella più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto), 1371 cod. civ. (realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti nei contratti a titolo oneroso).