Sono possibili conseguenze penali se una mamma ostacola il diritto di visita al figlio del papà separato, o divorziato. Prendiamo ad esempio la situazione di una madre dato che statisticamente sono loro i genitori con cui i figli minori vengono prevalentemente collocati dopo la separazione o il divorzio.
Stessa disciplina in caso di separazione e divorzio
Faremo un esempio un po’ estremo che, tuttavia, ci permette di comprendere i limiti da rispettare secondo la Legge. Teniamo presente, inoltre, che quanto sarà illustrato è applicabile in tutte le situazioni di affidamento (esclusivo o condiviso) e sia in fase di separazione che divorzio.
Pensiamo ad una lunga e tormentata relazione, ad un amore costellato da comunità, carcere, ospedali, per colpa della droga che tormenta lui e, di riflesso, lei. Poi il matrimonio sembra portare serenità, e l’arrivo dei figli pare aver scacciato via i demoni del passato. Ma con il tempo i vecchi problemi di tossicodipendenza del marito tornano a manifestarsi. Nonostante l’aiuto e il supporto della moglie, lui è in balia della droga e non mostra l’intenzione di disintossicarsi, mettendo anche in pericolo i figli con ripetuti episodi d’irresponsabilità. L’esasperazione vince sull’amore, la coppia si separa e lei ottiene l’affidamento esclusivo dei figli, che potranno vedere il padre una volta alla settimana.
L’esistenza di simili figure genitoriali è davvero frequente: inaffidabili, immaturi, annebbiati dagli stupefacenti o dall’alcol, diventano fantasmi, la loro assenza diventa la normalità per i figli, che col tempo sviluppano astio e rancore nei confronti di un genitore dal quale si sentono abbandonati.
Poi l’astio diventa rifiuto al punto che i figli possono arrivare a voler cancellare quel genitore che ha fatto loro del male. Immaginiamo le difficoltà di una madre in una simile situazione. Come potrebbe imporsi sui propri figli per far vedere loro il padre, anche se avesse superato i suoi problemi di tossicodipendenza? Sarebbe davvero difficile non capire la loro posizione.
Quando possono verificarsi conseguenze penalistiche
Un genitore, però, ha il dovere di cercare di tutelare il rapporto tra i figli e l’altro genitore.
Ostacolare volutamente il diritto di visita ai figli può essere sanzionato anche dal punto di vista penale. Di fatto, questo comportamento si traduce nel mancato rispetto delle condizioni stabilite dall’Autorità Giudiziaria in merito all’affidamento dei figli e s’incorre nel reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice, reato che è punibile con la reclusione fino a tre anni e una multa fino a 1.032 euro.
È bene precisare che il reato in questione si configura non solo se il genitore elude consapevolmente il provvedimento del giudice, ma anche se non fa nulla per assicurarsi che tale decisione venga rispettata.
In altre parole, l’inerzia consapevole di chi non si accerta che le disposizioni del Giudice vengano rispettate è punibile allo stesso modo di chi volontariamente le trasgredisce. Peraltro, si tratta di un reato procedibile d’ufficio, il che significa che non è necessaria la presentazione di una querela da parte del genitore che si vede negato il diritto di visita ai figli.
Il comportamento della madre, quindi, potrebbe essere considerato illegittimo, pertanto sarebbe opportuno che si attivasse magari per modificare le condizioni relative al diritto di visita del padre con minori, chiedendo eventualmente anche l’aiuto di un Professionista che li segua nel percorso di riavvicinamento al padre, o chiedendo al Giudice di sospendere gli incontri se i disagi dei bambini fossero davvero gravi.
Stare semplicemente a guardare i propri figli che rifiutano di vedere il padre, invece, può avere le accennate ripercussioni.
Separazione e divorzio: prevalenza dell’affidamento condiviso dei figli | Conflittualità mamma e papà
Dopo la separazione o il divorzio dei genitori il Tribunale tende a pronunciare con prevalenza l’affidamento condiviso dei figli anche se mamme e papà vivono un rapporto di forte conflittualità.
Quando il Tribunale deve decidere sulla sorte dei figli minorenni nel momento in cui la loro famigli a si disgrega, infatti, è tenuto a prendere provvedimenti che devono soddisfare un requisito fondamentale: preservare il loro interesse e il loro diritto alla bigenitorialità. Il giudice deve cioè assicurare ai figli la possibilità di crescere in un ambiente sereno, conservando rapporti significativi con entrambi i genitori anche dopo che il loro matrimonio o la loro unione sono terminati. È per questa ragione che la normativa pone in una posizione di privilegio l’affidamento condiviso.
Differenza tra affidamento e collocazione
Nel linguaggio comune, i concetti di “affidamento” e “collocazione” vengono confusi e spesso utilizzati impropriamente. In realtà tra i due termini vi è una sostanziale differenza.
Affidamento significa individuare il genitore che debba esercitare la responsabilità sui figli, prendendo sia le decisioni quotidiane che quelle di primario interesse per loro, con un coinvolgimento esclusivo del genitore nella vita del bambino ed un obbligo di educazione del figlio seguendo la sua crescita psicofisica.
Viceversa, la collocazione identifica unicamente il genitore con cui il figlio vive prevalentemente.
Negli ultimi anni i Giudici si esprimo con una prevalenza netta in favore di un affidamento condiviso dei figli con la collocazione presso uno dei due genitori, che, statisticamente, è più spesso la madre. Ciò significa che i figli continuano solitamente a vivere nella casa familiare con il genitore collocatario e che l’altro avrà il diritto e il dovere di collaborare alla loro educazione, dividendo con l’ex le responsabilità e gli obblighi della loro formazione, contribuendo al mantenimento ma anche alle scelte inerenti alla loro vite.
Le condizioni per l’affidamento condiviso
L’affidamento condiviso si caratterizza, quindi, non per l’esatta suddivisione dei tempi che il minore trascorre con l’uno o con l’altro genitore, ma per la condivisione delle scelte educative e formative e per la pari partecipazione comune alla vita del figlio. Lo scopo infatti è responsabilizzare i genitori nella tutela dei minori coinvolti.
Solo se l’affidamento a uno dei due genitori può danneggiare in modo concreto ed effettivo il figlio, l’opzione che verrà perseguita sarà quella dell’affido esclusivo all’altro genitore.
Si tratta però di casi estremi. Per fare solo alcuni esempi dovrebbe verificarsi una grave conflittualità tra minore e genitore o una situazione di maltrattamento del bambino o tossicodipendenza del papà o della mamma. La semplice conflittualità tra coniugi, invece, non costituisce motivo sufficiente per impedire l’affidamento condiviso. D’altronde, due persone possono decidere in qualsiasi momento di porre fine alla loro unione e ricominciare da zero, ma due genitori non dovrebbero mai sottrarsi ai loro doveri nei confronti dei figli.
Conseguenze penali possibili se la mamma ostacola il diritto di visita al figlio del papà separato
Sono possibili conseguenze penali se una mamma ostacola il diritto di visita al figlio del papà separato, o divorziato. Prendiamo ad esempio la situazione di una madre dato che statisticamente sono loro i genitori con cui i figli minori vengono prevalentemente collocati dopo la separazione o il divorzio.
Stessa disciplina in caso di separazione e divorzio
Faremo un esempio un po’ estremo che, tuttavia, ci permette di comprendere i limiti da rispettare secondo la Legge. Teniamo presente, inoltre, che quanto sarà illustrato è applicabile in tutte le situazioni di affidamento (esclusivo o condiviso) e sia in fase di separazione che divorzio.
Pensiamo ad una lunga e tormentata relazione, ad un amore costellato da comunità, carcere, ospedali, per colpa della droga che tormenta lui e, di riflesso, lei. Poi il matrimonio sembra portare serenità, e l’arrivo dei figli pare aver scacciato via i demoni del passato. Ma con il tempo i vecchi problemi di tossicodipendenza del marito tornano a manifestarsi. Nonostante l’aiuto e il supporto della moglie, lui è in balia della droga e non mostra l’intenzione di disintossicarsi, mettendo anche in pericolo i figli con ripetuti episodi d’irresponsabilità. L’esasperazione vince sull’amore, la coppia si separa e lei ottiene l’affidamento esclusivo dei figli, che potranno vedere il padre una volta alla settimana.
L’esistenza di simili figure genitoriali è davvero frequente: inaffidabili, immaturi, annebbiati dagli stupefacenti o dall’alcol, diventano fantasmi, la loro assenza diventa la normalità per i figli, che col tempo sviluppano astio e rancore nei confronti di un genitore dal quale si sentono abbandonati.
Poi l’astio diventa rifiuto al punto che i figli possono arrivare a voler cancellare quel genitore che ha fatto loro del male. Immaginiamo le difficoltà di una madre in una simile situazione. Come potrebbe imporsi sui propri figli per far vedere loro il padre, anche se avesse superato i suoi problemi di tossicodipendenza? Sarebbe davvero difficile non capire la loro posizione.
Quando possono verificarsi conseguenze penalistiche
Un genitore, però, ha il dovere di cercare di tutelare il rapporto tra i figli e l’altro genitore.
Ostacolare volutamente il diritto di visita ai figli può essere sanzionato anche dal punto di vista penale. Di fatto, questo comportamento si traduce nel mancato rispetto delle condizioni stabilite dall’Autorità Giudiziaria in merito all’affidamento dei figli e s’incorre nel reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice, reato che è punibile con la reclusione fino a tre anni e una multa fino a 1.032 euro.
È bene precisare che il reato in questione si configura non solo se il genitore elude consapevolmente il provvedimento del giudice, ma anche se non fa nulla per assicurarsi che tale decisione venga rispettata.
In altre parole, l’inerzia consapevole di chi non si accerta che le disposizioni del Giudice vengano rispettate è punibile allo stesso modo di chi volontariamente le trasgredisce. Peraltro, si tratta di un reato procedibile d’ufficio, il che significa che non è necessaria la presentazione di una querela da parte del genitore che si vede negato il diritto di visita ai figli.
Il comportamento della madre, quindi, potrebbe essere considerato illegittimo, pertanto sarebbe opportuno che si attivasse magari per modificare le condizioni relative al diritto di visita del padre con minori, chiedendo eventualmente anche l’aiuto di un Professionista che li segua nel percorso di riavvicinamento al padre, o chiedendo al Giudice di sospendere gli incontri se i disagi dei bambini fossero davvero gravi.
Stare semplicemente a guardare i propri figli che rifiutano di vedere il padre, invece, può avere le accennate ripercussioni.
Eliminate le differenze tra figli legittimi e figli naturali | Riforma filiazione del 2012
Probabilmente poche persone sanno che la riforma sulla filiazione del 2012 è risultata epocale dato che ha parificato figli legittimi e naturali: tutte le residuali differenze, infatti, sono state eliminate.
La Legge, approvata dal Parlamento nel 2012 ed entrata in vigore nel 2013, ha definitivamente uniformato la normativa alla realtà della società civile, dove è ormai frequentissimo che un figlio nasca al di fuori del matrimonio.
Parità tra figli nati durante il matrimonio e figli nati fuori dal matrimonio
Con la parificazione tra i figli nati in costanza di matrimonio e figli nati al di fuori non vi è più alcuna differenza tra figli legittimi e naturali: questo comporta una sostanziale parità di diritti tra tutti i figli.
Se fino a pochi anni fa, infatti, i figli nati dal matrimonio, tradizionalmente definiti “legittimi”, vantavano più diritti rispetto a quelli nati da unioni di fatto o da relazioni estemporanee (i cosiddetti figli “naturali”), oggi entrambi godono per legge delle medesime tutele.
Già da qualche anno era in moto un processo di graduale parificazione con l’attenuazione dei privilegi per i figli legittimi che adesso si sono azzerati. Uno degli esempi di maggior rilievo che possiamo citare per comprendere la portata del cambiamento riguarda le successioni. In particolare è ormai impossibile, per i figli legittimi, liquidare la somma di eredità spettante ai fratelli, nati fuori dal matrimonio, per escluderli dall’asse ereditario e dai poteri decisionali che concede la qualità di erede.
I diritti derivanti dallo status di figlio
Lo status di figlio, così come definito dalla norma, si configura di fatto come un “macrodiritto” che trova molteplici livelli di applicazione per tutti i figli, indipendentemente dalla qualità della loro nascita.
Il figlio ha innanzitutto il diritto a ricevere un’istruzione adeguata che assecondi le sue naturali inclinazioni e predisposizioni. In questo senso, i genitori non potranno ignorare la sua autonomia decisionale e il suo diritto di essere ascoltato nelle questioni che lo riguardano più da vicino.
Analogamente al diritto all’istruzione, derivano sempre dallo status di figlio anche il diritto al mantenimento e alla bigenitorialità. Il primo deve essere garantito, secondo la legge, fino al raggiungimento dell’indipendenza economica del ragazzo, a prescindere dal fatto che questo avvenga o meno al compimento del diciottesimo anno di età. Il secondo intende invece assicurare al figlio il diritto-dovere di godere di rapporti paritari con entrambi i genitori.
Questi diritti investono di specifici doveri non solo i genitori ma anche l’intero tessuto sociale. Ciò significa, ad esempio, che il diritto all’istruzione, dovendo essere calibrato in funzione delle disponibilità economiche dei genitori stessi, fa sì che, in mancanza delle necessarie risorse finanziarie, siano le istituzioni pubbliche a dover intervenire, per assicurare ai capaci e meritevoli l’accesso ai più alti gradi di formazione.
Allo stesso modo, la legge prevede che in caso di una provata incapacità dei genitori ad assolvere i loro compiti nei confronti dei figli, siano le autorità pubbliche a dover provvedere, affinché i diritti dei minori vengano rispettati.
L’intervento dello Stato è previsto per tutelare il minore, in quanto membro “privilegiato” della collettività che deve attivarsi per salvaguardare i soggetti più deboli, indipendentemente dal fatto che i loro genitori siano sposati, separati oppure del tutto sconosciuti.
Assegno di mantenimento rivalutabile anche su accordo di moglie e marito | Rivalutazione annuale Istat
L’assegno di mantenimento (ma anche l’assegno divorzile) riconosciuto in favore del coniuge economicamente più debole prevede per legge la rivalutazione annuale in base agli indici Istat ma è rivalutabile anche sulla scorta di un accordo differente raggiunto da moglie e marito, per esempio in funzione del variare delle condizioni economiche delle parti.
Cos’è la rivalutazione dell’assegno di mantenimento
L’ammontare dell’assegno di mantenimento che il giudice riconosce in sede di separazione, o divorzio, viene calcolato in funzione a un determinato potere d’acquisto. Col passare del tempo, però, la svalutazione della moneta potrebbe determinare una consistente perdita di tale potere. È per questa ragione che è previsto dalla legge un aggiornamento annuale dell’assegno di mantenimento sulla base di indici Istat, di solito il FOI.
Tale rivalutazione è obbligatoria e si applica anche se il Giudice non l’ha espressamente indicata nella sentenza di separazione o divorzio. Di conseguenza, essa è sempre dovuta e sempre esigibile, entro un termine di prescrizione quinquennale.
All’atto pratico chi deve pagare l’assegno ogni anno deve calcolare, e versare, la cifra “aggiornata” rispetto a quella determinata dal Giudice.
La rivalutazione su diverso accordo delle parti
Marito e moglie, però, possono anche accordarsi per un adeguamento personalizzato. È il caso frequente, per esempio, del beneficiario che si trasferisce all’estero, in un paese dove la moneta soffre di un’inflazione più gravosa che in Italia.
In questo caso esiste una regola inderogabile: la somma adeguata secondo l’indice concordato non potrà mai essere inferiore a quella disposta dal Giudice che, quindi, rimane il limite minimo da versare. Pensiamo ai casi in cui l’inflazione sia negativa ed un aggiornamento in tal senso potrebbe portare ad ottenere un importo inferiore a quello originario.
L’obbligato non potrà versare l’importo adeguato ma dovrà pagare, almeno, la somma decisa dal Giudice in sede di separazione.
In questi casi dovremo stare attenti ad un ulteriore aspetto relativo al recupero delle somme eventualmente non versate.
L’adeguamento Istat è automatico e, in caso di mancato versamento, permette di procedere con il diretto recupero del credito (precetto) anche se nella sentenza o nel verbale di separazione o nella sentenza di divorzio non è espressamente previsto.
Un adeguamento personalizzato, invece, deve essere chiaramente ratificato altrimenti l’eventuale recupero, in caso di inadempimento dell’obbligato, non è possibile in via diretta. La parte interessata dovrà incardinare un apposito giudizio per far riconoscere dal Tribunale la diversa pattuizione intervenuta in sede di separazione o divorzio o in un momento successivo tra i coniugi.
Rapporto tra assegno di mantenimento e tenore di vita matrimoniale: dipende dai redditi | Separazione
L’assegno di mantenimento riconosciuto in fase di separazione dovrebbe permettere al coniuge che lo richiede di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio. Tale rapporto è garantito solo dopo la valutazione dei redditi dell’obbligato da parte del Giudice.
Consideriamo, ad esempio, il caso di una famiglia composta da tre persone: madre, padre e figlio. I coniugi sono entrambi impiegati, ma la mamma lavora part-time, così da poter trascorrere più tempo con il bambino. La famiglia, per tutta la durata della convivenza coniugale, ha mantenuto un tenore di vita ben al di sopra delle proprie possibilità, al punto tale che il marito, per poter far fronte alle numerose spese, ha contratto debiti con diverse società che erogano prestiti personali, il tutto all’oscuro della moglie.
Durante un’eventuale fase di separazione la moglie potrebbe pretendere un assegno di mantenimento parametrato allo stile di vita sostenuto fino a quel momento, ma l’immaginazione si scontrerebbe con il colore del conto in banca, il rosso!
Il processo di determinazione dell’assegno di mantenimento
E’ vero che di fronte alla richiesta di un assegno di mantenimento in fase di separazione, il Giudice deve valutare in via principale il tenore di vita mantenuto dalla coppia durante la convivenza coniugale e analizzare se il diritto all’assegno esista realmente.
Perché sia riconosciuta l’esistenza del diritto è, però, necessario che al richiedente non venga addebitata la separazione e dimostri di non avere i mezzi idonei a mantenere lo stile di vita precedente, né di poterli procurare per ragioni oggettive.
Infine, il giudice dovrà stabilire se la separazione abbia provocato uno sbilanciamento tra le risorse economiche del marito e quelle della moglie. In questo senso, non è necessario che il coniuge richiedente versi in stato di bisogno, essendo sufficiente dimostrare che le risorse di cui dispone non bastano a garantire il tenore di vita goduto in precedenza.
Quando il tenore di vita goduto dai coniugi durante la convivenza non è affatto sostenibile per le loro capacità reddituali, però, il Giudice non potrà considerarlo come il parametro di riferimento per la determinazione dell’assegno di mantenimento.
Rapporto tra stile di vita e redditi
Il Giudice, quindi, è obbligato ad effettuare una disamina della vera situazione patrimoniale e reddituale di entrambi per desumere il tenore di vita reale che la famiglia è in grado di mantenere. A quel punto, solo in presenza di un’effettiva disparità di risorse tra i coniugi, potrà arrivare a definire l’ammontare dell’eventuale assegno.
Dobbiamo considerare che l’assegno può essere riconosciuto solo compatibilmente con il reddito ed il patrimonio dell’obbligato. Laddove, quindi, per una difficoltà economica, non sia possibile mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale, l’assegno dovrà rispettare questa evidenza. Grazie alla sconsideratezza del marito, quindi, la famiglia di cui abbiamo tratteggiato l’ipotetico profilo, dopo la separazione, si troverà con ogni probabilità a doversi adattare ad uno stile di vita molto inferiore al precedente.
Religioni diverse dei genitori non condizionano l’affidamento del figlio | Separazione e divorzio
Due genitori possono professare religioni diverse: questo normalmente non influenza la decisione sull’affidamento del figlio nell’ambito del giudizio di separazione o divorzio. È indubbio, però, che esistono alcune scelte nella vita di una persona che possono incidere in maniera significativa sulla sua esistenza e, a volte, su quella delle persone che la circondano, come i familiari. La decisione di abbracciare una nuova fede potrebbe essere uno di questi casi.
Pensiamo ad una coppia in procinto di separarsi in cui la moglie si è appena convertita ad una nuova professione religiosa. Questa confessione prevede, per i fedeli più osservanti, il rifiuto di sottoporsi a trasfusioni di sangue o a trapianti di organi, col rischio di poter mettere in pericolo, in caso di gravi emergenze, la loro stessa vita.
Il marito ha delle forti perplessità in merito al nuovo credo della moglie che ha apportato un radicale cambiamento nelle sue abitudini e frequentazioni e teme che questa rivoluzione nella vita personale della donna possa influenzare anche la vita dei loro bambini. Per questo preferirebbe che potessero restare a vivere con lui.
La religione è una scelta libera difesa dalla Costituzione
La fede religiosa è espressione dell’individualità di ciascuno, rappresenta una libera scelta e, in quanto tale, è difesa dalla Costituzione Italiana. Convertirsi a una nuova fede rappresenta una decisione legittima alla quale nessuno può opporsi.
Per questa ragione, in sede di separazione o divorzio, la religione non può essere di per sé fattore discriminante sulla base del quale il Giudice può decidere o meno a chi affidare o collocare i minori. Perché questo avvenga, è necessario che sia dimostrato che le pratiche religiose messe in atto dal genitore possano arrecare danni psicologici, fisici o formativi al minore.
Le possibilità del marito di ottenere la collocazione dei figli dipendono dal fatto che riesca a dimostrare, durante la causa, che la conversione della moglie costituisce concretamente un fattore di rischio per i bambini. Oppure che, in virtù della nuova fede della mamma, i minori siano costretti a cambiare radicalmente il loro stile di vita, le abitudini e i rapporti sociali, provocando loro smarrimento, turbamenti e difficoltà relazionali.
La sola conversione della madre e l’eventuale difficoltà di conciliare le convinzioni ideologiche tra marito e moglie non basterà per ottenere la collocazione dei figli.
Il cambio di sesso da minorenni in Italia è impossibile anche con il consenso dei genitori
I minorenni in Italia non possono procedere con il cambio di sesso neppure se i genitori danno il loro consenso. Il tema è estremamente delicato, non solo perché tocca diversi aspetti dell’individuo, ma anche perché vi è molta confusione al riguardo, derivante per lo più da un diffuso perbenismo che non ha fatto altro che alimentare ignoranza, stereotipi e pregiudizi.
Cos’è il disturbo dell’identità di genere
Si chiama “disturbo dell’identità di genere” o “disforia di genere” e si manifesta in quelle persone che s’identificano nel sesso opposto rispetto a quello biologico o che si sentono inadeguati nel ruolo di genere che corrisponde ad esso.
Secondo gli studi più recenti in materia, la disforia di genere potrebbe iniziare a manifestarsi negli anni dell’adolescenza o addirittura durante l’infanzia.
In questi casi i genitori, inconsapevolmente, possono sottovalutare la questione se non hanno gli strumenti per rapportarsi in maniera giusta con il figlio o la figlia.
Pensiamo ad una bambina che ha sempre manifestato segni tipicamente maschili che, però, viene spinta dai genitori ad agire contro la sua volontà, indossando abiti più femminili o svolgendo attività ricreative più adatte a una femmina.
Con l’adolescenza, le difficoltà e il tormento interiore della ragazza potrebbero presentarsi con maggiore irruenza. La giovane, magari derisa dai compagni di classe e incompresa dai genitori, rischierebbe di chiudersi nella sua sofferenza. In certi casi, però, i genitori sono più comprensivi di quanto si creda e probabilmente, la vista di tanto dolore, li farebbe decidere a rivolgersi a un centro di specialisti, al fine di fornire un valido supporto psicologico alla figlia.
La ragazza potrebbe così iniziare un percorso di analisi, mentre parallelamente i genitori potrebbero trovare appoggio e suggerimenti su come meglio gestire la situazione. Dopo mesi di trattamento, madre e padre si potrebbero convincere a ritenere che la soluzione migliore per la figlia possa effettivamente essere il cambio di sesso, come la giovane chiede da tempo.
Questa travagliata vicenda familiare fatta di supporto ma anche di sofferenze da un lato avrà cementato il legame dei genitori con la figlia ma, dall’altra, non potrà avere immediato seguito nella pratica.
Cambiamento di sesso: una scelta che è permessa con la rappresentanza dei genitori
In Italia, infatti, fino a questo momento non è ammessa la possibilità di “delegare” a terzi la decisione di cambiare sesso neppure se questi terzi sono i genitori, a tutti gli effetti tutori legali dei figli minori.
I genitori, quindi, non possono presentare per conto della figlia la domanda di autorizzazione al cambiamento di sesso. Questa è ritenuta una decisione che interessa un “diritto personalissimo” che, in quanto tale, non ammette rappresentanza, cioè non può essere esercitato da nessun altro.
Il minore che desideri cambiare sesso, quindi, dovrà attendere il compimento della maggiore età e a quel punto agire autonomamente. Finché non raggiunge la soglia del diciottesimo anno, infatti, non gli è riconosciuta la possibilità di agire né potrà chiedere ai propri genitori di farsi portavoce della sua richiesta
Assegnazione casa familiare: disposta anche se i genitori non sono sposati | Convivenza e coppie di fatto
Tutti i figli godono degli stessi diritti, che derivano loro dallo status di figlio e non dal fatto di essere nati durante il matrimonio dei genitori. Ciò ha dirette implicazioni per le coppie di conviventi. In caso di cessazione della convivenza, infatti, se si è in presenza di figli, i genitori devono rispettare le regole previste per le coppie sposate, che si separano, in materia di affidamento e mantenimento dei figli e assegnazione della casa familiare. Lo scopo è quello di tutelare i figli e i loro interessi.
La casa familiare dopo la rottura della convivenza
Il concetto di assegnazione della casa familiare veniva solitamente associato a una procedura di separazione. Oggi è ormai assodata la possibilità di procedere con la decisione sulla casa anche di fronte alla fine di una convivenza more uxorio. La casa familiare, come luogo di protezione naturale del bambino, infatti, è strettamente legata ai suoi bisogni ed alle sue esigenze. Per questo motivo le decisioni che la coinvolgono sono influenzate dalla presenza di un figlio. Del resto se due conviventi diventano genitori contraggono gli stessi e identici obblighi nei confronti dei figli rispetto a due genitori sposati. Il principio di responsabilità genitoriale, infatti, deriva dalla maternità e dalla paternità, non dal matrimonio.
Di fronte alla nascita di un bambino, quindi, i genitori conviventi hanno il dovere di far fronte a tutte le sue esigenze, anche nel momento in cui la convivenza dovesse interrompersi. Come durante una separazione, infatti, la fine di una convivenza può rappresentare per il figlio un momento particolarmente difficile. Il bambino potrebbe faticare, soprattutto nei primi tempi, ad accettare il distacco da uno dei due genitori. Si tratta di una fase molto delicata, soprattutto se il figlio coinvolto è molto piccolo: l’iniziale spaesamento per la mancanza di uno dei suoi punti di riferimento potrebbe provocargli stress, sofferenza e, in generale, una sensazione di disagio. Naturalmente, la situazione si complica se questa fase di distacco è accompagnata da un clima di accesa conflittualità, determinato da contese tra i genitori.
Per queste ragioni a tutela del minore si cerca di limitare, per quanto possibile, ogni ulteriore significativo cambiamento che potrebbe turbarlo, primo tra tutti l’improvviso cambio di casa.
Nella grande maggioranza dei casi, quando due genitori ex conviventi si trovano dinanzi al Tribunale per la definizione dell’affidamento e del mantenimento dei figli, il Giudice assegna la casa familiare al genitore prevalentemente convivente con loro, proprio per i motivi che abbiamo accennato. Ciò vale indipendentemente dalla proprietà dell’immobile: l’assegnazione viene effettuata senza badare al fatto che essa appartenga ad uno solo dei genitori o sia in comproprietà. In sostanza l’eventuale proprietario non assegnatario resterà proprietario dell’immobile ma dovrà andare a vivere da un’altra parte.
La mediazione familiare, un aiuto per risolvere il conflitto tra moglie e marito
Se tra moglie e marito sorge un conflitto che provoca una crisi matrimoniale, affrontare un percorso di mediazione familiare può diventare un valido aiuto per evitare lo spettro della separazione e del divorzio.
Come funziona la mediazione familiare
La mediazione familiare è un percorso che i due coniugi intraprendono insieme per riorganizzare gli equilibri della famiglia. È quel cammino che li porta a scegliere di comune accordo come determinare il loro presente e futuro.
Naturalmente, non sono soli ma vengono guidati e consigliati da una figura qualificata, il mediatore, il cui compito consiste proprio nell’aiutare marito e moglie a prendere decisioni che soddisfino le esigenze di entrambi. Il mediatore supporta la coppia e la aiuta a spianare la strada verso un accordo che, se tutto va bene, potrà far riconciliare marito e moglie.
Nel caso in cui la riconciliazione fosse impossibile, invece, il percorso effettuato al fianco del mediatore permetterà alla coppia, con l’ausilio di un avvocato familiarista, di procedere con una risoluzione consensuale del legame matrimoniale, ossia con un percorso meno difficile sia psicologicamente che a livello giuridico.
Quale ruolo ha l’Avvocato familiarista dopo la mediazione
Quando marito e moglie decidono di separarsi o di divorziare significa che il mediatore ha fallito nell’intento di farli riconciliare ma può aiutarli a trovare un punto d’incontro che è fondamentale anche da un punto di vista economico: un procedimento consensuale, infatti, risulterà essere più rapido e meno snervante ma anche decisamente più economico per la coppia.
In questa fase affidarsi ad un Avvocato familiarista è essenziale per essere sicuri che tutti gli aspetti giuridici vengano affrontati in modo professionale e che sia garantita una tutela dei diritti, anche economici, della famiglia.
La paura di chi si accinge ad affrontare una separazione o un divorzio è, spesso, quella di trovarsi nelle mani di una persona non specializzata in diritto di famiglia che, alla fine, chieda una parcella esorbitante senza offrire le necessarie tutele.
Chi pensa che tutti si possano occupare di procedimenti di famiglia, infatti, fa un grossolano errore. Avere a che fare con la crisi di un nucleo familiare è un incarico decisamente delicato, che può influenzare la vita dei coniugi, e degli eventuali figli, per sempre.
È importante che tra l’avvocato e il coniuge si crei un rapporto d’intesa, di collaborazione e soprattutto di fiducia: chi è coinvolto in un procedimento di separazione o divorzio non sempre è obiettivo sulla realtà dei fatti; ecco perché la fiducia è essenziale fin dal primo istante soprattutto se si vuole cercare di raggiungere un accordo, scopo che dovrebbe essere primario per tutti.
Al fine di trattare in modo organico una simile posizione l’Avvocato potrà farsi coadiuvare da altre figure professionali come psicologi e psicoterapeuti, anche infantili, o psichiatri che possono lavorare al fianco del legale per mitigare gli asti o per aiutare i figli a superare il momento in modo meno traumatico.
Genitori separati o divorziati: il collocamento del figlio non dipende dal trasferimento in un’altra città
Il trasferimento in un’altra città non determina l’automatica modifica del collocamento del figlio in caso di genitori separati o divorziati o ex conviventi. Il lavoro, gli affetti o il desiderio di cambiare vita: sono tutte motivazioni che possono determinare la scelta di cambiare residenza verso una nuova città o perfino in un’altra nazione. Quando ci sono dei figli, però, questo slancio rischia di subire uno stop.
Quando il cambio di residenza non è concordato
Se i due genitori sono d’accordo, e non trovano ostacolo nella diversa volontà della prole, è tendenzialmente escluso ogni impedimento al trasferimento. Se madre e padre non hanno lo stesso punto di vista, invece, possono sorgere le problematiche.
Vediamo a proposito cosa accadrebbe ad un padre che vive con i due figli avuti dall’ex moglie. I bambini sono stati collocati presso di lui ma affidati anche alla madre, che vive con un nuovo compagno nello stesso quartiere dell’ex marito. I rapporti tra i genitori sono rimasti cordiali e la vicinanza facilita molto la madre, che riesce a vedere i figli quasi quotidianamente.
Il padre, desideroso da tempo di cambiare lavoro, riceve un’offerta molto allettante in un’altra città a pochi chilometri di distanza dalla attuale. Prima di prendere una decisione, che inevitabilmente coinvolgerebbe anche i figli, il padre si confronta con l’ex moglie che si dimostra restia all’idea di un cambio di residenza. Non vuole che i figli lo seguano perché ha paura di non poterli vedere come adesso.
Quando non c’è l’accordo tra padre e madre, pertanto, il genitore che vuole cambiare residenza dovrebbe chiedere l’intervento del Tribunale, il quale dovrebbe valutare se il cambio possa impattare sul diritto di visita dell’altro genitore, ma soprattutto sulla vita dei figli stessi.
Le valutazioni del Giudice sul cambio di residenza
Di per sé, il trasferimento del genitore con cui vivono prevalentemente i figli non implica che debbano andare a vivere con l’altro. Le situazioni devono essere esaminate caso per caso. Gli stessi criteri vengono utilizzati dai Giudici sia in caso di genitori separati o divorziati che in caso di genitori ex conviventi.
In primo luogo il Giudice dovrà valutare se tale spostamento possa turbare o creare disagio ai minori. Cambiare città significa dover abbandonare l’ambiente in cui i bambini sono cresciuti e con esso i parenti, gli amici, la scuola. Il Giudice potrebbe ascoltare i minori proprio per prendere in considerazione le loro posizioni e le loro reazioni rispetto all’idea di un trasferimento.
Si dovrà anche valutare se il cambio di residenza possa compromettere significativamente il rapporto dei figli con l’altro genitore, che potrebbe avere maggiori difficoltà a passare del tempo con i bambini e partecipare alla loro vita quotidiana.
Dopo queste dovute premesse in un caso come quello che abbiamo descritto, data la scarsa distanza tra le due città, è probabile che il Giudice non impedisca il cambio di residenza dei figli. Il diritto di visita della madre, infatti, può essere agevolmente mantenuto o modificato per venire incontro alle nuove esigenze sue e dei minori.
L’impedimento potrebbe essere rappresentato più dall’eventuale disagio dei bambini all’idea di abbandonare la città e la casa in cui sono cresciuti che dall’opposizione della ex.
Come recuperare le spese straordinarie dei figli escluse dall’assegno di mantenimento
L’assegno di mantenimento mensile non comprende tutte le spese necessarie alle esigenze dei figli. I genitori, però, devono contribuire anche alle spese escluse, cosiddette straordinarie. Se uno dei due non paga queste spese agire per recuperare la quota da rimborsare può non essere agevole.
Quali sono le spese straordinarie
Dobbiamo precisare che non esiste una distinzione netta tra le spese straordinarie e quelle comprese nell’assegno, molto dipende dal caso concreto; solitamente, però, le spese straordinarie sono tutte quelle che non vanno a soddisfare le normali esigenze quotidiane (spese scolastiche, spese per lo sport ecc).
Al giorno d’oggi tutti cerchiamo di stare attenti alle spese. Se abbiamo dei figli, però, possiamo avere difficoltà maggiori: le scuole, i vestiti, lo sport, i videogiochi… I bambini hanno pretese sempre più costose e sempre maggiori.
Per i genitori single la situazione rischia di essere ancora più rischiosa: occuparsi da soli di un pargolo non è sempre facile ed è molto dispendioso. Quando l’altro genitore, poi, non rispetta i suoi obblighi di mantenimento i problemi possono diventare davvero seri.
È importantissimo che il genitore obbligato a versare l’assegno rispetti non solo le modalità e le scadenze previste, ma paghi anche la sua quota di spese straordinarie. In questo modo anche i figli saranno protetti e potranno svolgere le loro attività abituali senza rinunce. Quando, però, ci troviamo di fronte ad un ex partner che non versa quanto dovuto possiamo agire per tutelare sia noi stessi che i nostri figli.
Come agire contro il genitore che non paga
L’iter da percorrere in questi casi non è sempre lo stesso. Quando non viene pagato l’assegno di mantenimento, infatti, è possibile agire immediatamente in via esecutiva, prima con un precetto e poi con il pignoramento, per esempio, dei beni o del conto corrente dell’altro, perché si tratta di una somma certa già determinata dal Giudice.
Per avere il rimborso delle spese straordinarie, invece, è tendenzialmente opportuno iniziare una causa che accerti e determini l’effettiva spesa, ordinando all’altro genitore il pagamento della sua quota.
Ultimamente i Giudici hanno ammesso la possibilità di ricorrere immediatamente al precetto anche in caso di spese straordinarie giustificate da appositi riscontri documentali. Questa operazione, però, può rivelarsi più rischiosa derivando da un’interpretazione giurisprudenziale e, quindi, prestarsi a opposizioni da parte del genitore precettato.
Quali tutele ha la moglie se il marito vende tutto per non pagare l’assegno di mantenimento | Sequestro e ipoteca
Quando il marito deve pagare l’assegno di mantenimento (o di divorzio) alla moglie ma, tentando di evitarlo, vende buona parte dei suoi beni, la moglie può azionare precise tutele giudiziarie come il sequestro e l’ipoteca.
Quando iniziare a temere il mancato versamento dell’assegno
Affrontiamo, come sempre, un esempio concreto che possa permettere di comprendere l’operatività della disciplina. Marito e moglie sono separati. Lui è titolare di una piccola impresa e proprietario di diversi immobili. Lei, ex dipendente, ha lasciato il lavoro durante la convivenza matrimoniale per poter badare ai figli.
La sentenza di separazione le ha riconosciuto un assegno di mantenimento periodico oltre all’assegnazione della casa familiare, nella quale vive con i figli ancora minorenni.
Il marito, seppur rispettando l’accordo si è sempre lamentato dell’elevata cifra da versare. Dopo qualche tempo la moglie viene a sapere dell’intenzione del marito di mettere in vendita tutti gli immobili in suo possesso e di voler cedere, quanto prima, anche la sua attività. Incredula e spaventata teme di restare improvvisamente senza assegno di mantenimento, di fatto l’unica fonte di sostentamento di cui dispone.
A questo punto è opportuno che la moglie agisca per tutelare il suo credito ed evitare di rimanere sorpresa dalle mosse del marito.
Le garanzie per il beneficiario dell’assegno di mantenimento
Quando la prospettiva che l’obbligato smetta di versare l’assegno di mantenimento diventa concreta e reale (es. perché vende molti beni di proprietà o smette inspiegabilmente di lavorare, tutte cose che fanno dubitare della possibilità di continuare a versare una somma mensile, magari elevata), il beneficiario ha diversi strumenti a disposizione mediante i quali assicurarsi il rispetto dei propri diritti.
In caso di fallimento dell’impresa che fa capo al coniuge che versa l’assegno, ad esempio, si può chiedere che vengano effettuati dei sequestri conservativi; in altri termini, i beni mobili o immobili sottoposti a sequestro conservativo vengono bloccati e successivamente pignorati, a garanzia del proprio credito.
Il coniuge titolare di un assegno di mantenimento, tra l’altro, è considerato un creditore privilegiato: ciò significa che in qualsiasi circostanza avrà la priorità di liquidazione rispetto ad eventuali altri creditori.
Esiste poi un ulteriore strumento che il beneficiario dell’assegno può utilizzare: si tratta dell’iscrizione di ipoteca. L’iscrizione può essere applicata sia sui beni disponibili, nel momento in cui viene emessa la sentenza di separazione (o di divorzio), sia su quelli che il debitore acquista in una fase successiva.
Si tratta di una pratica applicabile non solo in caso di separazione giudiziale, ma anche in caso di separazione consensuale (così come in fase di divorzio). L’iscrizione è esente da imposta ipotecaria, ma è bene sapere che se i presupposti vengono meno, il coniuge debitore potrà chiedere al Giudice la cancellazione dell’ipoteca o una riduzione della somma ipotecata.
È opportuno precisare che non costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca i provvedimenti temporanei e urgenti che il Giudice emette in attesa della sentenza di separazione o del divorzio, quando il tentativo di conciliazione tra i due coniugi previsto dal procedimento giudiziale non va a buon fine.