Dopo tanta attesa alle coppie omosessuali è stata riconosciuta la tutela economica in caso di morte del partner a seguito della celebrazione dell’unione civile.
Per capire la portata di questa importante novità possiamo partire da un esempio concreto molto esemplificativo. Un legame profondo lega da molti anni due uomini non più giovanissimi, entrambi hanno alle spalle una vita molto diversa da quella che stanno ora trascorrendo insieme: in particolare uno ha avuto due figli dalla ex moglie, da cui – dopo otto anni di matrimonio – si prima separato e, poi, divorziato.
Il primo è rimasto sempre scapolo e disoccupato, mentre l’altro, professore di scuola media – ora in pensione – ha attraversato un percorso di consapevolezza della propria omosessualità più tortuoso ed ha tagliato ogni contatto con ex moglie e figli che, dal canto loro, hanno vissuto l’outing del marito e padre come un tradimento non accettabile. Per rifarsi una vita i due hanno deciso di trasferirsi all’estero, forti di qualche risparmio e della pensione da insegnante.
Per un malore improvviso il professore in pensione muore, lasciando il compagno solo nel dolore per la perdita dell’amore di una vita ma anche privo di una importante fonte di sostentamento. I due uomini, infatti, non avevano mai ratificato la loro unione “di fatto” attraverso l’unione civile, così da ritrovarsi senza alcuna tutela legale. Tale mancanza di tutela economica per il compagno superstite, potrebbe risultare ancora più penalizzante, non avendo infatti il de cuius, ossia in questo caso il pensionato defunto, predisposto in vita alcun testamento al fine di lasciare parte dei propri beni al partner.
A chi spetta la pensione di reversibilità
Quando la famiglia di “primo letto” non ha intenzione di dare un valore morale alla semplice convivenza “di fatto” mediante uno spontaneo e altruistico aiuto, in quanto giuridicamente non dovuto, il compagno superstite potrebbe trovarsi in grosse difficoltà economiche, non potendo neppure accedere allo strumento di tutela riconosciuto dalla legge in tema di pensione di reversibilità.
La pensione di reversibilità infatti permette di ricevere il pagamento di una percentuale del trattamento pensionistico di un soggetto deceduto, la quale di norma spetta: al coniuge anche separato o divorziato, se la separazione è avvenuta senza pronuncia di addebito e se titolare di un assegno di mantenimento o divorzile, al partner di una unione civile, o ai figli del defunto qualora alla data della morte del genitore siano minorenni, inabili, studenti o universitari tra 18 e 26 anni, e a carico del de cuius, ai nipoti minori se a carico degli ascendenti.
In assenza di questi, la pensione di reversibilità va generalmente ai genitori purché ultra sessantacinquenni, non titolari di pensione e che alla data di morte siano a carico del de cuius, infine ai fratelli ed alle sorelle se inabili non titolari di pensione e a carico del de cuius.
L’INSP, a seguito dell’entrata in vigore della Legge Cirinnà, ha emanato la circolare n. 5171/2016, con la quale ha equiparato i coniugi alle persone dello stesso sesso unite civilmente permettendo, quindi, il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità anche a questi ultimi.
La pensione viene riconosciuta anche al partner unito civilmente
Il superstite della coppia omosessuale solo se unito civilmente, essendo parificato al coniuge, ha diritto a una percentuale della pensione di reversibilità di chi è scomparso. La percentuale varia a seconda di vari fattori come, ad esempio, il fatto che sia presente solo il partner, oppure oltre al partner anche un figlio a carico del de cuius oppure più figli a carico del de cuius ecc..
Nel caso che abbiamo trattato, invece, nulla spetterà al partner dato che lui e l’ex insegnante non avevano regolamentato la loro unione civile, risultando una semplice coppia “di fatto”.
È utile precisare, infine, che il diritto a percepire un’indennità economica per il compagno superstite spetta anche nel caso in cui il defunto non abbia ancora ottenuto il pensionamento, quindi anche nei casi in cui la persona muoia in età meno avanzata, purché il lavoratore abbia maturato determinati livelli contributivi.
Coppie di fatto: cosa possono regolare i contratti di convivenza
Le coppie di fatto con la Legge Cirinnà possono registrare i c.d. contratti di convivenza che permettono di regolare alcuni aspetti economici dell’unione.
Dobbiamo precisare, per chiarezza, che questi contratti di convivenza non conferiscono alle coppie i medesimi diritti previsti per chi si sposa e neppure per chi si unisce civilmente. Le unioni civili, infatti, sono accessibili unicamente alle coppie omosessuali e conferiscono un regime di diritti, doveri e tutele largamente assimilabile a quello del matrimonio.
Quali accordi si possono inserire nel contratto
Pensiamo ad una coppia che decide di mettere nero su bianco alcuni aspetti per regolare una convivenza che va avanti da anni ed è stata da poco allietata dall’arrivo di un figlio.
Data la novità della norma, i due non sanno che tipo di accordi inserire e, soprattutto, si chiedono se sia possibile comprendere alcune clausole inerenti la vita del bambino e la sua educazione.
Occorre chiarire che il contenuto dei contratti di convivenza deve essere principalmente di natura patrimoniale. Per fare qualche esempio, quindi, potrebbero essere allegati accordi sulla suddivisione delle spese comuni, sulla contribuzione nell’attività lavorativa domestica e non, sui criteri di attribuzione della proprietà dei beni acquistati dai conviventi (come in una sorta di regime di comunione o separazione), e sulle modalità di uso della casa familiare.
Dato che si trattano questioni patrimoniali, nel contratto di convivenza sarà ammesso l’accordo relativo alla definizione degli aspetti economici in caso di cessazione della convivenza al fine di evitare, nel momento della rottura, discussioni e rivendicazioni.
Un’eccezione si rinviene nella possibilità di determinare le volontà in termini di assistenza nei casi di malattia fisica o psichica e la designazione reciproca ad amministratore di sostegno.
Contratto di convivenza e figli: quali clausole sono permesse
Per rispondere idealmente al dubbio della coppia del nostro esempio possiamo affermare che potrebbero essere ammesse anche le clausole relative al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione dei figli, a meno che non escludano uno degli obblighi predetti che deve ricadere su entrambi i genitori.
È opportuno precisare che si tratta, comunque, di clausole sempre suscettibili di essere revocate e modificate nell’interesse della prole che deve considerarsi sempre preminente rispetto a quello dei conviventi a veder rispettato quanto concordato.
Quale valore ha la promessa di matrimonio
Anche la promessa di matrimonio ha un valore giuridico, potremmo dare questo titolo alle conseguenze del colpo di scena tipico delle più classiche commedia romantiche in cui la coppia “scoppia” a un passo dal matrimonio.
La promessa di matrimonio e i suoi effetti
Il fidanzamento, ovvero la volontà di due persone di frequentarsi con il proposito di sposarsi, è qualificato come promessa di matrimonio. Secondo l’ordinamento italiano, la promessa può essere espressa sia pubblicamente sia tacitamente, ma non obbliga a contrarre matrimonio. Chi abbandona il partner sull’altare non può essere condannato per l’azione in quanto tale, dato che la promessa non obbliga i due fidanzati a sposarsi. Tuttavia, è possibile chiedere la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio ed il risarcimento delle spese sostenute per il matrimonio non celebrato.
La Cassazione ritiene che la rottura immotivata della promessa di matrimonio non possa essere considerata lecita, in quanto si tratta pur sempre del venir meno alla parola data. Tuttavia, dato che la promessa non è vincolante e ognuno è libero di sposarsi o meno, la rottura non è un’azione ”punibile” civilmente, con la condanna ad un risarcimento danni, ma comporta solo l’obbligo di rimborsare la controparte delle spese sostenute in vista del matrimonio, dunque è difficile poter ottenere risarcimenti per danni patrimoniali diversi rispetto a quelli legati alle spese sostenute e oppure per i danni “morali”.
La promessa a scopo seduttivo
La stessa cosa può dirsi della promessa di matrimonio a scopo seduttivo, ossia fatta con il solo obiettivo di avere rapporti sessuali con un’altra persona. In questi casi non si ritiene di riconoscere illecito un comportamento del genere perché riguarda la sfera morale, o eventualmente religiosa, della persona ma non quella giuridica.
Per chi rimane solo all’altare, quindi, non esistono molti rimedi: si alla richiesta di rimborso per le spese sostenute (la chiesa, i fiori, il ricevimento, le bomboniere ecc.) altamente difficile sarà, invece, vendicarsi sull’ex chiedendo un rimborso per le sofferenze morali patite.
Assegno di mantenimento: con la separazione il coniuge più debole ha diritto allo stesso tenore di vita che aveva nel matrimonio
La sentenza della Cassazione Berlusconi-Lario ha stabilito che in fase di separazione il coniuge più debole ha diritto ad avere un assegno di mantenimento parametrato sul tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Con la lettura di questa sentenza a molti è venuta in mente un’altra importante pronuncia della Corte di Cassazione, la n. 11504/17, che invece aveva stabilito, pochi giorni prima, che non era dovuto l’assegno di mantenimento all’ex coniuge che risulti indipendente e autosufficiente anche solo potenzialmente.
La Corte di Cassazione ha, però, respinto il ricorso di Berlusconi, precisando che la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 è andata a regolare la questione dell’assegno di mantenimento in caso di “divorzio”, e perciò, quando si verifica la cessazione dei doveri di solidarietà tra coniugi, mentre – in questo caso – alla base della discussione è stato posto l’assegno versato in sede di “separazione” da Berlusconi al coniuge separato. La Corte ha poi osservato che la separazione non elimina il vincolo coniugale e il coniuge più forte ha il dovere di garantire al coniuge separato lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio. Le Sezioni Unite della Corte, in ogni caso, con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento.
Come si determina l’assegno di mantenimento
La Cassazione ha inoltre precisato che con la separazione non vengono meno gli aspetti di natura patrimoniale e quindi la misura dell’assegno viene stabilita considerando prima di tutto la condizione delle parti ed il loro reddito ma anche le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato alla famiglia e alla formazione del patrimonio di ciascuno, o di quello comune, il tutto valutato in relazione alla durata del matrimonio.
L’assegno a cui il coniuge debole separato ha diritto è di natura assistenziale avendo come scopo quello di rimediare al peggioramento delle condizioni economiche godute in costanza del matrimonio, avvenuto per colpa dello scioglimento del vincolo.
Valutare i redditi delle parti
Ai fini della valutazione dei presupposti per l’attribuzione dell’assegno è necessaria, quindi, un’indagine comparatistica della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente e dell’obbligato con quella della coppia all’epoca del matrimonio.
Questa ricostruzione della posizione patrimoniale e reddituale serve per verificare che chi chiede l’assegno si trovi realmente in una posizione di debolezza e deve essere fatta esaminando le condizioni soggettive (età, professione, salute ecc.) del richiedente, anche sopravvenute, considerando ogni fattore economico, sociale, individuale, ambientale e territoriale.
Divorzio e criteri per calcolare l’assegno di mantenimento per il coniuge: caso della moglie senza reddito
La Cassazione ha parzialmente modificato i criteri per determinare l’assegno mantenimento in caso di divorzio nei confronti della moglie che non ha reddito ampliando la valutazione rispetto al semplice tenore di vita avuto dal coniuge durante il matrimonio e precisando che debba essere considerato anche il contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali di moglie e marito.
Questa novità, in pratica, apre la strada ad una differente valutazione delle situazioni patrimoniali e lavorative dei coniugi che potrebbe portare anche alla revisione di molte pronunce di divorzio – consensuali o giudiziali – già emesse sulla base del criterio del tenore di vita.
Cosa cambia per il coniuge che chiede l’assegno di divorzio?
Andiamo ad esaminare una situazione concreta per capire cosa cambia per chi chiede l’assegno di divorzio.
Immaginiamo una moglie separata, di mezza età, laureata ma casalinga – dato che, durante il matrimonio, i coniugi avevano concordemente deciso che lei si sarebbe occupata dei figli. Attualmente in fase di separazione ha ottenuto un assegno di mantenimento versato dal marito, dirigente d’azienda. Durante l’unione la coppia, anche se non si è mai lasciata andare a lussi sfrenati, ha goduto di un buon tenore di vita: è riuscita anche ad investire i risparmi accantonati, acquistando alcune case poi divise al 50% in fase di separazione.
In sede di divorzio si dovrà valutare se il coniuge richiedente sia economicamente autosufficiente o abbia le capacità effettive per esserlo grazie, per esempio, a proprietà immobiliari, ad un patrimonio personale e la parte richiedente dovrà inoltre dimostrare di essersi resa parte attiva per ottenere i mezzi necessari per vivere ma il tenore di vita goduto con il marito, la contribuzione alla vita familiare e le possibilità economiche dell’epoca matrimoniale saranno considerate rilevanti per determinare la conferma o meno dell’assegno.
Come agire per dimostrare in ogni caso l’impossibilità di avere reddito
Potrà essere utile, ad esempio, iscriversi a corsi di formazione che possano riqualificare il curriculum vitae di una persona fuori dal mercato del lavoro, oppure inserire il proprio profilo nelle banche dati online che svolgono selezione del personale per conto di aziende terze, così come ricorrere al “collocamento” ordinario e parimenti potrà essere utile inviare vari curricula alle diverse aziende in cerca di personale. Un atteggiamento passivo e di “attesa” da parte della richiedente potrebbe essere visto negativamente dai Giudici e portare ad un rigetto della domanda. Nel caso che abbiamo tratteggiato per esempio, l’ex moglie potrebbe essere considerata in grado di mantenersi grazie ai risparmi accantonati durante il matrimonio o magari grazie alla proprietà degli immobili da far affittare e, quindi, potrebbe vedersi negare l’assegno.
Assegno di divorzio per il coniuge economicamente indipendente o autosufficiente | Ritorna la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio
La sentenza n. 11504/17 della Cassazione aveva cambiato la rotta del divorzio in Italia perché aveva negato l’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente autosufficiente o indipendente. In particolare aveva eliminato la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio.
A seguito della pronuncia della Suprema Corte, infatti, il parametro sul quale i Giudici dovevano basare le proprie valutazioni in merito all’assegno di mantenimento per il c.d. “coniuge economicamente debole” non poteva più essere il tenore di vita avuto durante il matrimonio bensì la situazione in cui si trovava effettivamente il richiedente al momento della domanda di divorzio.
La pronuncia è scaturita dal ricorso presentato dall’imprenditrice Lisa Lowenstein nei confronti dell’ex marito, ed ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che le aveva negato l’assegno di mantenimento divorzile.
Anche la Cassazione aveva negato l’assegno di divorzio all’ex moglie facendo tuttavia una diversa valutazione e introducendo innovativi criteri che, per molti, apparivano del tutto in linea con l’evolversi dei tempi, andando quindi a cambiare, in parte, la concezione del matrimonio.
Criterio applicato dalla Corte di Cassazione
Secondo la Cassazione infatti era necessario “superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva” in quanto “è ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Si deve dunque ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”.
A cambiare, quindi, era stato proprio il punto di vista su cui doveva incentrarsi la valutazione del Giudice in Sede di divorzio: come criterio principale non contava più, dunque, lo stile di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio ma la valutazione dell’autosufficienza o dell’indipendenza economica dell’ex coniuge che chiede l’assegno. Ad esempio, se in Sede di divorzio la moglie avesse domandato al Tribunale di condannare il marito al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, bisognava che il Giudice prima accertasse che la moglie non fosse in possesso di redditi idonei, o di un patrimonio mobiliare e immobiliare che le garantisse una rendita o che avesse “la stabile disponibilità” di un’abitazione. Allo stesso modo, nel caso in cui la moglie richiedente fosse stata senza lavoro, il Giudice avrebbe dovuto anche accertare se avesse le “capacità e possibilità effettive” di farlo e se quindi, si stesse eventualmente sottraendo dal cercarsi una occupazione, senza alcun giustificato motivo. Ne conseguiva in merito all’assegno divorzile “se è accertato che il richiedente è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.
Conseguenze della decisione sui divorzi già pronunciati
Una svolta epocale dunque, capace di abbattere un principio che aveva retto granitico per oltre trent’anni e che vedeva come un dogma intoccabile il diritto del coniuge economicamente più debole a mantenere lo stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio e che, bisogna ammettere, ha regalato una certa sicurezza a tutti quei divorziandi che hanno sempre e solo contato sulle risorse economiche dell’altro coniuge.
Questi nuovi criteri di calcolo valevano non solo per chi doveva divorziarsi, o per chi aveva in corso un divorzio, ma anche per chi il divorzio – consensuale o giudiziale – lo aveva già affrontato. Per questo motivo anche chi stava pagando un assegno di mantenimento all’ex moglie, poteva – in caso vi fossero i presupposti – presentare un ricorso di modifica delle condizioni di divorzio, chiedendo al Tribunale di poter ridurre l’importo versato o, in certi casi, di eliminarlo completamente.
Nuova pronuncia della Corte a Sezioni Unite
Le Sezioni Unite della Corte, in ogni caso, con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.
Divorzio e mantenimento: quando l’assegno può essere negato al coniuge economicamente autosufficiente o indipendente
Ci sono voluti quasi 30 anni per giungere ad una riforma epocale per quanto riguarda il diritto al mantenimento del coniuge “debole” in sede di divorzio. Il vecchio orientamento, che prevedeva la quantificazione dell’assegno di mantenimento in base al tenore di vita durante il matrimonio, è infatti cambiato con la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 che ha stabilito che l’assegno di mantenimento, che comunque deve conservare uno spirito assistenziale, debba essere calcolato sulla base della capacità economica di chi lo richiede con, tuttavia, dei criteri ancora più rigorosi rispetto a quanto avveniva in passato.
In altri termini secondo questa pronuncia i Giudici dovevano valutare se la ex moglie o l’ex marito, richiedenti l’assegno di mantenimento, risultassero economicamente autosufficiente (perché, ad esempio, lavorano o hanno un conto in banca che garantisce una rendita finanziaria o ricevono un affitto da immobili locati ecc.) o, tratto ancora più interessante, se potessero essere autosufficienti (perché, ad esempio, si trova in età lavorativa, e potrebbe quindi cercarsi un impiego o lavorare come libero professionista).
Negli ultimi anni si era parlato di una modifica alle regole per la determinazione dell’assegno di mantenimento per l’ex coniuge: le decisioni che negano l’assegno di mantenimento all’ex moglie che va a convivere stabilmente con il nuovo compagno vanno proprio nella direzione di ritenere il matrimonio non più, come alcune volte si sentiva dire, una assicurazione economica sulla vita.
Nel momento in cui l’ex coniuge richiede l’assegno di mantenimento il Giudice deve operare almeno due valutazioni: una sulla situazione economica del richiedente al fine di verificare se ci siano, o meno, i presupposti per ottenere l’assegno e l’altra sulla sua quantificazione.
Secondo l’impostazione dettata nel 2017 dalla Corte di Cassazione in primo luogo la valutazione doveva essere orientata a capire se l’ex coniuge avesse diritto all’assegno di mantenimento, partendo dai criteri di indipendenza e autosufficienza, nel senso che il Giudice valutati i redditi, i beni mobili e immobili di proprietà del richiedente, la disponibilità della casa familiare e la formazione scolastica e professionale, doveva stabilire se esistesse, oppure no, il diritto all’assegno. In questa valutazione il Giudice doveva anche verificare l’eventuale esistenza, per la persona richiedente, di mezzi idonei per rendersi economicamente autonoma o per procurarsi un reddito, valutando in questo anche la capacità lavorativa del soggetto.
Solo nel caso non ci fossero stati i mezzi idonei per rendersi indipendente o per procurarsi un reddito si poteva passare alla quantificazione dell’assegno. Non rilevava più, quindi, la situazione di disoccupazione del richiedente al fine di ottenere il mantenimento nel caso in cui lo stesso non avesse dimostrato di essersi adoperato per trovare un’occupazione.
Anche i termini per il calcolo e la quantificazione dell’assegno di divorzio erano cambiati: il Giudice non doveva più cercare di livellare la differenza economica tra i due coniugi e riportare il coniuge richiedente al tenore di vita che aveva durante il matrimonio, ma doveva quantificare un contributo che permetta allo stesso di mantenersi.
Per la quantificazione quindi non si doveva più considerare come parametro principale la situazione economica del richiedente durante il matrimonio, ossia quello che si chiamava tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma si dovevano considerare criteri più restrittivi: ad esempio, il Tribunale doveva valutare se una somma risultasse adeguata al coniuge per mantenersi oggi, più che per mantenere uno status storico ossia una situazione ormai non più attuale. La Corte di Cassazione sembrava quindi dire che gli ex coniugi dovevano rivolgere lo sguardo più all’oggi che al passato.
Con questa impostazione alcune situazioni risultavano molto difficili da valutare: si pensi al caso di una donna con figli piccoli che tecnicamente avrebbe la capacità lavorativa ma che, dovendo seguire i propri figli, è impossibilitata a svolgere un’occupazione che le permetterebbe il proprio mantenimento, o ancora al fatto che lavorando dovrebbe sobbarcarsi ulteriori costi per pagare baby sitter o persone che possano seguire i figli mentre si trova al lavoro. Allo stesso tempo doveva definirsi quale fosse la valutazione in merito a quelle donne che, concordemente con il marito (ora ex), avevano deciso di fare le casalinghe e che quindi si ritrovavano in una situazione di difficile collocamento lavorativo pur essendo soggetti con potenziale capacità lavorativa.
Per questi motivi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.
Unione Civile e diritti sul lavoro: si a congedo matrimoniale e permesso assistenziale anche alle coppie gay
L’unione civile permette alle coppie gay di ottenere alcuni diritti per quanto riguarda il lavoro: stiamo parlando, in particolare, di congedo matrimoniale e permesso assistenziale per il partner.
La maggior parte delle coppie omosessuali che sta per costituire una unione civile vive questo momento con la trepidazione, l’attesa e l’emozione di un vero e proprio matrimonio. Ed infatti, indipendentemente dal nome scelto dalla Legge, dietro la scelta di unirsi civilmente c’è la volontà di ufficializzare un legame affettivo con un patto che non abbia mai fine.
In questi mesi, giornali, settimanali, siti internet e programmi televisivi hanno dedicato ampi spazi alle storie di coppie LGBT e al giorno fatidico dell’unione civile concentrandosi, come è naturale che sia, sull’aspetto sentimentale e romantico. Tuttavia è anche importante conoscere alcuni aspetti più pratici e di tutela che sono stati regolati dalla Legge Cirinnà.
La parità di diritti anche in ambito lavorativo
Pensiamo ad una coppia lesbica nella quale una è impiegata in un’azienda a tempo indeterminato mentre l’altra è disoccupata. Le due decidono di celebrare l’unione civile con una grande festa che coinvolge amici e parenti ma non sono molto informate sui diritti che la dipendente ha in ambito lavorativo, anche in considerazione del fatto che una delle due non è occupata.
In primo luogo è opportuno sapere che il lavoratore ha diritto a godere del c.d. congedo matrimoniale, ossia della possibilità di assentarsi dal posto di lavoro per 15 giorni retribuiti in un arco di tempo che varia a seconda del Contratto Collettivo applicato al contratto d’assunzione. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il lavoratore ha necessità di curare e assistere il proprio partner.
Per il mondo omosessuale questa “conquista” è stata molto sentita anche perché equipara nei fatti l’unione civile al matrimonio anche agli occhi di datori di lavoro e colleghi: il luogo di lavoro infatti costituisce la vita reale di tutti i giorni dove – purtroppo, in alcuni casi – più forti, finora, sono state le discriminazioni rispetto alle coppie eterosessuali.
In caso di disoccupazione di una delle due, inoltre, viene riconosciuto il diritto alla detrazione fiscale prevista dall’art. 12 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) ed inoltre si potrebbe anche aver diritto all’assegno familiare per il coniuge a carico che, in questo caso, viene applicato analogicamente anche al partner dell’unione civile.
Il riconoscimento dei permessi di natura assistenziale
Se pensiamo che fino ad un anno fa queste agevolazioni non esistevano, possiamo comprendere il motivo per cui le coppie omosessuali vivono questa equiparazione come una conquista importantissima.
Ma vi è di più. Se nella coppia lesbica ci fosse un disabile o un malato grave la Legge permetterebbe all’altra parte unita civilmente, regolarmente occupata, di godere dei tre giorni di permesso mensile retribuiti previsti per i lavoratori dalla Legge n. 104/92 al fine di assistere il familiare, come anche di godere del congedo biennale previsto dalla legge n. 151/01 in caso di grave infermità del coniuge o del partner convivente. Nello stesso modo la lavoratrice superstite potrebbe usufruire del permesso di tre giorni retribuiti in caso di decesso della convivente unita civilmente.
Inoltre, a seguito della costituzione dell’unione civile, sorgeranno diritti e tutele anche in relazione al TFR della lavoratrice. Infatti, tra le novità della Legge c’è la parificazione dei diritti del coniuge al partner: pertanto il partner superstite avrà diritto alla corresponsione del TFR in caso di decesso della compagna, ma anche a seguito dello scioglimento dell’unione civile ci sarà – in certi casi – l’obbligo della lavoratrice di versare parte del proprio TFR alla compagna.
Diritti coppie gay e unione civile: la pensione indiretta in caso di morte del partner non pensionato
Oltre alla pensione di reversibilità, la celebrazione dell’unione civile concede alle coppie gay svariati diritti quali la pensione indiretta in caso di morte del partner non pensionato.
La pensione di reversibilità, infatti, è lo strumento che serve a tutelare il coniuge superstite nel caso in caso di morte dell’altro quando quest’ultimo sia già pensionato.
Con la Legge Cirinnà e con i successivi decreti attuativi dell’unione civile, l’applicazione di tale strumento di tutela è stata estesa anche nel caso di coppie omosessuali unite civilmente.
Ma cosa accade quando la persona deceduta non percepisce ancora una pensione?
Dobbiamo subito chiarire che, in caso di morte del lavoratore, sono previste prestazioni economiche in favore del coniuge, o del partner unito civilmente, anche nel caso in cui il lavoratore non percepiva ancora una pensione ma aveva comunque raggiunto alcuni livelli contributivi previsti dalla legge.
La pensione indiretta: cos’è e quali quote sono previste per il superstite
È la prestazione economica prevista in favore del coniuge, o del partner unito civilmente, del lavoratore defunto nel caso in cui quest’ultimo non abbia raggiunto il diritto ad ottenere la pensione ma possa vantare, al momento del decesso, almeno 780 settimane di contributi oppure 260 settimane di contributi di cui almeno 156 nel quinquennio antecedente la data del decesso.
Come la reversibilità, la pensione indiretta spetta a partire dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è avvenuta la morte del congiunto a prescindere dal momento in cui viene presentata la domanda e i beneficiari posso essere anche i figli minori, disabili o studenti universitari se a carico del genitore, oppure i nipoti che alla morte del nonno o della nonna erano a loro totale carico (in mancanza anche i genitori che abbiano più di 65 anni e non siano titolari di pensione, o ai fratelli e sorelle se inabili e a carico).
La somma erogata a favore di chi ha diritto è calcolata sulla base di una percentuale della “pensione” maturata e, a titolo puramente orientativo, corrisponde al 60% se il beneficiario è il solo coniuge, o il solo partner unito civilmente (che giuridicamente è equiparato al coniuge), al 70% se il beneficiario è solo un figlio, all’80% se sono presenti il coniuge (o il partner) ed un figlio e al 100% se vi è il coniuge (o il partner) con due o più figli.
Indennità per morte versata in un’unica soluzione
Quando il lavoratore deceduto non ha raggiunto i requisiti per ottenere la pensione e neppure i limiti contributivi previsti per l’accesso alla pensione indiretta, ai suoi familiari spetta solo un’indennità erogata una sola volta, solitamente determinata moltiplicando il valore dell’assegno sociale per il numero di anni di contribuzione effettivamente versati dal familiare scomparso. In questo caso la domanda va presentata entro un anno dalla morte pena la perdita del diritto.
Quali diritti nascono sulla casa familiare per le coppie lesbiche in caso di unione civile
L’unione civile fa sorgere importati diritti in relazione alla casa familiare per le coppie lesbiche. Prendiamo l’esempio di due compagne che, a seguito delle incomprensioni e dei continui litigi con le rispettive famiglie d’origine, si trasferiscono a vivere in una nuova città dove una delle due è proprietaria di una casa regalatale dai genitori ai tempi dell’università. Dopo qualche tempo le due partners decidono di celebrare il loro amore registrando l’unione civile. In questo modo i diritti di entrambe sono tutelati dalla Legge Cirinnà anche dinanzi alle ostilità delle famiglie o alle fatalità della vita.
La partner superstite può restare a vivere nella casa familiare
Prima che venissero regolamentate le unioni civili, se la proprietaria dell’abitazione avesse perso la vita, e non avesse lasciato un testamento, la famiglia d’origine avrebbe facilmente potuto estromettere la compagna dalla propria abitazione, occupata senza titolo. Ed infatti la casa sarebbe rientrata nell’eredità e – in assenza di un testamento – sarebbe quindi spettata agli eredi.
Immaginiamo quanto sarebbe potuto essere traumatico per lei rischiare di essere buttata fuori dalla casa in cui aveva vissuto con la propria compagna dopo averla persa.
Oggi la legge sulle unioni civili impedisce questa azione alla famiglia d’origine. La celebrazione dell’unione, infatti, oltre a garantire diritti successori alla parte superstite, le concede di restare a vivere per tutta la vita nella casa che la coppia aveva scelto come abitazione principale, indipendentemente dalla proprietà dell’immobile.
Questo significa, che anche se la proprietà dell’appartamento dovesse essere trasferita ad un membro della famiglia d’origine della compagna deceduta, alla superstite rimarrebbe in ogni caso il diritto di continuare a vivere nella stessa casa salvo il caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, unione civile o di nuova convivenza di fatto.
Casa in affitto e agevolazioni fiscali
Nel caso in cui l’abitazione principale della coppia fosse in locazione, con il contratto di affitto intestato alla persona deceduta, la Legge prevede comunque una tutela nei confronti della parte superstite che avrà diritto a succedere all’altra nel contratto d’affitto.
Grazie agli accorgimenti che abbiamo visto l’abitazione principale della coppia rimane tale anche dinanzi ad un evento negativo come la scomparsa di una parte.
Ma la possibilità di individuare un immobile come residenza principale della famiglia non è rilevante solo in caso di eventi tragici dato che il Legislatore ha equiparato la coppia unita civilmente alla coppia sposata anche per quanto riguarda la regolamentazione di IMU e TASI, prevendendo le agevolazioni “prima casa” per entrambi i residenti.
Coppie omosessuali e unione civile: tutela economica in caso di morte del partner
Dopo tanta attesa alle coppie omosessuali è stata riconosciuta la tutela economica in caso di morte del partner a seguito della celebrazione dell’unione civile.
Per capire la portata di questa importante novità possiamo partire da un esempio concreto molto esemplificativo. Un legame profondo lega da molti anni due uomini non più giovanissimi, entrambi hanno alle spalle una vita molto diversa da quella che stanno ora trascorrendo insieme: in particolare uno ha avuto due figli dalla ex moglie, da cui – dopo otto anni di matrimonio – si prima separato e, poi, divorziato.
Il primo è rimasto sempre scapolo e disoccupato, mentre l’altro, professore di scuola media – ora in pensione – ha attraversato un percorso di consapevolezza della propria omosessualità più tortuoso ed ha tagliato ogni contatto con ex moglie e figli che, dal canto loro, hanno vissuto l’outing del marito e padre come un tradimento non accettabile. Per rifarsi una vita i due hanno deciso di trasferirsi all’estero, forti di qualche risparmio e della pensione da insegnante.
Per un malore improvviso il professore in pensione muore, lasciando il compagno solo nel dolore per la perdita dell’amore di una vita ma anche privo di una importante fonte di sostentamento. I due uomini, infatti, non avevano mai ratificato la loro unione “di fatto” attraverso l’unione civile, così da ritrovarsi senza alcuna tutela legale. Tale mancanza di tutela economica per il compagno superstite, potrebbe risultare ancora più penalizzante, non avendo infatti il de cuius, ossia in questo caso il pensionato defunto, predisposto in vita alcun testamento al fine di lasciare parte dei propri beni al partner.
A chi spetta la pensione di reversibilità
Quando la famiglia di “primo letto” non ha intenzione di dare un valore morale alla semplice convivenza “di fatto” mediante uno spontaneo e altruistico aiuto, in quanto giuridicamente non dovuto, il compagno superstite potrebbe trovarsi in grosse difficoltà economiche, non potendo neppure accedere allo strumento di tutela riconosciuto dalla legge in tema di pensione di reversibilità.
La pensione di reversibilità infatti permette di ricevere il pagamento di una percentuale del trattamento pensionistico di un soggetto deceduto, la quale di norma spetta: al coniuge anche separato o divorziato, se la separazione è avvenuta senza pronuncia di addebito e se titolare di un assegno di mantenimento o divorzile, al partner di una unione civile, o ai figli del defunto qualora alla data della morte del genitore siano minorenni, inabili, studenti o universitari tra 18 e 26 anni, e a carico del de cuius, ai nipoti minori se a carico degli ascendenti.
In assenza di questi, la pensione di reversibilità va generalmente ai genitori purché ultra sessantacinquenni, non titolari di pensione e che alla data di morte siano a carico del de cuius, infine ai fratelli ed alle sorelle se inabili non titolari di pensione e a carico del de cuius.
L’INSP, a seguito dell’entrata in vigore della Legge Cirinnà, ha emanato la circolare n. 5171/2016, con la quale ha equiparato i coniugi alle persone dello stesso sesso unite civilmente permettendo, quindi, il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità anche a questi ultimi.
La pensione viene riconosciuta anche al partner unito civilmente
Il superstite della coppia omosessuale solo se unito civilmente, essendo parificato al coniuge, ha diritto a una percentuale della pensione di reversibilità di chi è scomparso. La percentuale varia a seconda di vari fattori come, ad esempio, il fatto che sia presente solo il partner, oppure oltre al partner anche un figlio a carico del de cuius oppure più figli a carico del de cuius ecc..
Nel caso che abbiamo trattato, invece, nulla spetterà al partner dato che lui e l’ex insegnante non avevano regolamentato la loro unione civile, risultando una semplice coppia “di fatto”.
È utile precisare, infine, che il diritto a percepire un’indennità economica per il compagno superstite spetta anche nel caso in cui il defunto non abbia ancora ottenuto il pensionamento, quindi anche nei casi in cui la persona muoia in età meno avanzata, purché il lavoratore abbia maturato determinati livelli contributivi.
Unione civile, facciamo il punto dopo un anno dall’approvazione Legge Cirinnà
Dopo un anno dall’approvazione della Legge Cirinnà sulla regolamentazione dell’unione civile tra partner omosessuali, avvenuta alla Camera dei Deputati con 369 voti a favore, 193 contrarie e 2, vediamo a che punto è l’Italia in relazione a tale tematica.
Sebbene sia stato necessario attendere l’emanazione di alcuni decreti attuativi utili all’aggiornamento dei Registri Civili dei Comuni e ad altre formalità burocratiche, da alcuni mesi a questa parte la legge ha trovato piena attuazione.
Nord e sud, la doppia velocità delle unioni civili omosessuali
Anche per quanto riguarda l’ufficializzazione dei legami tra persone dello stesso sesso il nostro paese si sta dimostrando diviso in due, con il nord che ha ampiamente superato le regioni meridionali per quanto rigurda il numero di unioni civili celebrate.
Da un’indagine di Infodata, aggiornata al 31 Gennaio 2017, in Italia risultanto essere state registrate o, comunque, già prenotate 1690 unioni civili delle quali 495 nella sola città di Milano e 430 nella Capitale. Oltre il 50% del totale delle celebrazioni, quindi, è avvenuto (o avverrà a breve) nelle due pricipali metropoli, con una notevole differenza rispetto ad che hanno distaccato nettamente altri grandi centri urbani come Torino (202), Bologna (101), Napoli (87) e Firenze (83).
Il raffronto della statistica diviene ancora più marcato se svolto rispetto ai capoluoghi di provincia del sud dove passiamo dalle pochissime 16 unioni di Bari, alla singola celebrazione di Potenza per arrivare a barrare la casella numero zero sia a Campobasso che a Catanzaro.
Tempi di attesa da Comune a Comune e “contributi” economici: alcuni Comuni fanno cassa
Celebrare un’unione civile si presenta apparentemente facilissimo: la maggioranza dei Comuni ha adibito un ufficio ad hoc oppure una linea telefonica diretta o una apposita sezione sul proprio sito internet. Rivolgendosi direttamente ai funzionari incaricati è poi possibile ricevere tutte le informazioni utili alla celebrazione (documenti da presentare, imposte di bollo, tempistiche per le pubblicazioni ecc.).
Se quindi a livello teorico tutto sembra facile, tuttavia sul lato pratico molte coppie stanno verificando la presenza di un vero e proprio “intoppo” dato che molti Comuni presentano lunghe liste d’attesa che rendono assai problematico l’accesso alla cerimonia per la quale, talvolta, si è costretti ad attendere svariati mesi.
Se pensassimo di poter evitare queste lungaggini cercando un altro Comune diverso da quello di residenza le difficoltà potrebbero diventare di altra natura. E’ infatti successo che alcuni Municipi, pur garantendo le celebrazioni in tempi più rapidi, richiedano costi più elevati. In tale contesto, appare quindi necessario che le Amministrazioni comunali che hanno accumulato lunghi tempi d’attesa continuino ad adoperarsi per arrivare, si auspica in tempi brevi, ad una normalizzazione.
Diritto dei nonni a vedere i nipoti: si alla tutela in Tribunale
I nonni hanno uno specifico diritto a vedere i nipoti. Quando i genitori dei bambini impediscono questo rapporto è possibile chiedere tutela al Tribunale che può ordinare specifici diritti di visita.
Spesso non facciamo caso a quanto siano importanti per i nostri figli le figure dei nonni e, per questo, il Legislatore è intervenuto a tutela di un rapporto molto importante per la crescita della prole.
Spessissimo vediamo nonni particolarmente legati ai loro nipoti, che talvolta li accudiscono quotidianamente fino all’inizio della scuola. Pensiamo a quante volte abbiamo visto un nonno che mostra al bambino le meraviglie del mondo o, più semplicemente, gli insegna ad andare in bicicletta, o ancora che telefona ai nipotini ogni sera, prima che si addormentino.
Se in una simile situazione i genitori decidessero di lasciarsi, sarebbe impensabile la sola ipotesi d’interrompere i rapporti con il nonno senza portare uno sconvolgimento all’interno della vita dei bambini. L’allontanamento dal nonno sarebbe solo causa di sofferenza, oltre a rappresentare un improvviso e brusco cambio di rotta rispetto alle normali abitudini dei minori. Proprio per questa ragione negli ultimi anni sono stati introdotti rimedi volti a tutelare maggiormente i rapporti dei figli con le famiglie d’origine.
Il diritto di visita dei nonni
Oggi, molto più che in passato, sono tutelati i legami dei minori coinvolti in una crisi familiare con i nonni materni e paterni. L’importanza per i nipoti di poter continuare a mantenere dei rapporti significativi con i nonni è stata recepita dando la possibilità ai nonni di far valere i propri diritti anche in Tribunale. Se un genitore negasse al proprio figlio ogni contatto con la famiglia dell’altro genitore, o della propria, i nonni potrebbero fare causa e ottenere il riconoscimento al diritto di visita del nipote.
Alcuni potrebbero dire che si sono aumentate le possibilità di litigiosità all’interno di un nucleo familiare già provato dalla separazione, ma forse l’importanza di preservare il rapporto con i propri nonni, e più in generale con la propria famiglia di origine, è un diritto per il minore per il quale val bene correre questo rischio.