IL RITARDO DI UN PRESIDENTE DI SEZIONE NEL DEPOSITO DELLE SUE SENTENZE PUÒ ESSERE GIUSTIFICATO DALLO SVOLGIMENTO DI ALTRE FUNZIONI CONNESSE ALL’INCARICO DIRETTIVO
Come il controllo della motivazione delle decisioni emesse dagli altri giudici del Collegio (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 195 del 12 maggio 2001, Pres. Vela, Rel. Prestipino).
Il magistrato Giampaolo F., presidente di sezione presso il Tribunale di Modena, è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere, negli anni dal 1993 al 1997, in violazione del dovere di laboriosità e di diligenza, posto in essere ritardi abnormi nel deposito di provvedimenti giudiziari da lui redatti e, in particolare, per avere depositato duecentosei sentenze civili con ritardi superiori al 120° giorno, di cui centonovantadue dopo 180 giorni e, di queste, quarantadue con un ritardo superiore all’anno, per avere depositato un’ordinanza riservata oltre il trentesimo giorno e per non avere ancora effettuato il deposito delle minute delle sentenze in quindici cause civili decise da oltre 180 giorni.
A conclusione della fase istruttoria e del successivo dibattimento, il magistrato è stato dichiarato responsabile dell’incolpazione ascrittagli e gli è stata inflitta la sanzione dell’ammonimento.
La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, premesso che il ritardo aveva riguardato il deposito di centottantacinque e non di duecentosei sentenze e ritenuto che la dilazione nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali integra un illecito disciplinare qualora non sussistono eventi giustificativi quali l’eccessivo carico di lavoro o gravi situazioni personali o familiari, ha rilevato che il comportamento tenuto dal magistrato era privo di giustificazione, dato che il medesimo aveva un carico di lavoro non diverso da quello dei colleghi operanti nella sezione. Il giudice disciplinare aggiungeva che non poteva essere considerata come valida scusante l’ansia di perfezionismo cui aveva fatto riferimento l’incolpato – il quale aveva fatto presente che non licenziava le sentenze senza averne curato ogni particolare, persino sotto il profilo grafico – dato che il provvedimento giudiziale non é il fine della condotta del giudicante, ma uno strumento posto a servizio dei cittadini per la soluzione dei concreti problemi di vita e dato che la giustificazione addotta costituiva la prova che il magistrato G.F. non aveva saputo organizzare il proprio lavoro trovando un giusto punto di equilibro fra l’esigenza di redigere provvedimenti ben costruiti e ben motivati e la necessità di rispondere sollecitamente all’attesa dei destinatari, castigati da ritardi eccessivi.
Questa decisione è stata impugnata, con ricorso per cassazione, dal magistrato incolpato, per violazione e falsa applicazione della normativa disciplinare e per omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 195 del 12 maggio 2001, Pres. Vela, Rel. Prestipino) ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che la sentenza impugnata non sia stata sufficientemente motivata su una delle circostanze evidenziate dal magistrato per escludere la sua mancanza di operosità e di negligenza. La Corte ha ricordato la costante giurisprudenza secondo cui i ritardi nel deposito delle sentenze, anche se consistenti e gravi, non rilevano sotto il profilo della diligenza tutte le volte in cui i fatti addebitati al magistrato risultino determinati non da un comportamento di scarsa laboriosità o da negligenza o neghittosità, bensì da un carico di lavoro individualmente eccezionale gravante sul magistrato. Nel caso in esame – ha osservato la Corte – il giudice disciplinare non ha adeguatamente motivato sulla circostanza che il magistrato incolpato, oltre a redigere, tra il gennaio 1993 e il febbraio 1998, novecento sentenze, aveva svolto le funzioni di presidente di sezione, le quali non consistevano soltanto nel compito di assegnare i procedimenti ai giudici, ma certamente attenevano, nei casi di decisione collegiale, anche allo studio dei processi assegnati ai relatori nonché al controllo della motivazione dei singoli provvedimenti prima della loro pubblicazione. Pertanto il giudice disciplinare – ha affermato la Corte – avrebbe dovuto tenere in considerazione tale cumulo di attività al fine di stabilire se l’impegno lavorativo del magistrato fosse superiore a quello degli altri componenti del collegio.
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