IL MANCATO ESERCIZIO, DA PARTE DEL GIUDICE DEL LAVORO, DEL POTERE-DOVERE DI SVOLGERE D’UFFICIO UN’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA AL FINE DI ACCERTARE LA VERITÀ MATERIALE, NON È DIRETTAMENTE CENSURABILE IN CASSAZIONE
Ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione (Cassazione Sezione Lavoro n. 6531 del 10 maggio 2001, Pres. Trezza, Rel. De Matteis).
Anche nel processo del lavoro vige il principio dispositivo, in base al quale il giudice deve fondare la sua decisione sulle prove offerte dalle parti.
Tuttavia il legislatore ha stabilito, con l’art. 421 cod. proc. civ., che il giudice del lavoro può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, con ciò contemperando, per la particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo; pertanto, quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, non può farsi meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia d’ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti. Il mancato esercizio di tale potere-dovere, però, non è direttamente denunziabile in cassazione, anche in assenza di espressa motivazione sul punto, ma può tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondi su di un elemento probatorio offerto da una delle parti ma contrastato dall’altra e di per sé non dotato di sicura affidabilità, senza la necessaria verifica e senza che dal contesto del provvedimento possano desumersi le ragioni che hanno indotto ad ometterla. Pertanto la sentenza potrà essere impugnata davanti alla Suprema Corte per illogicità della motivazione.
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