L’AVVOCATO HA IL DOVERE DI INFORMARE IL CLIENTE DELL’ESITO NEGATIVO DI UNA CAUSA
In base al codice deontologico forense (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 8225 del 6 giugno 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Luccioli).
L’avvocato Giuseppe S. è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere volontariamente omesso di informare un cliente dell’esito negativo di una causa, con la conseguenza che questi si era visto improvvisamente notificare un atto di precetto per il pagamento delle spese di giudizio. Il Consiglio dell’Ordine locale lo ha ritenuto responsabile dell’infrazione, in base all’art. 40 del codice deontologico forense che prevede per l’avvocato il dovere di informare il cliente. Egli ha impugnato tale decisione rilevando che secondo l’art. 40, l’avvocato è tenuto ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli “quando lo reputi opportuno e ogni qual volta l’assistito ne faccia richiesta”. Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso affermando che l’art. 40 deve essere interpretato in base al principio generale di lealtà verso la parte assistita. L’avvocato S. ha proposto ricorso per cassazione invocando il principio di stretta interpretazione delle norme deontologiche, in quanto assimilabili alle leggi penali.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 8225 del 6 giugno 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Luccioli) ha rigettato il ricorso. Le norme del codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 14 aprile 1997 – ha osservato la Corte – si qualificano come norme giuridiche vincolanti nell’ ambito dell’ordinamento di categoria, che trovano fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense di cui al r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, ed in particolare nell’ art. 12, comma 10, che impone agli avvocati di “adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’ amministrazione della giustizia”, e nell’ art. 38 comma l°, ai sensi del quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati “che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale”.
La formulazione per clausole generali di tali prescrizioni trova specificazione nelle norme del codice deontologico, il quale nel suo primo titolo enuncia, qualificandoli “principi generali”, una serie di doveri diretti a segnare lo svolgimento della professione, mentre nei successivi titoli elenca alcuni canoni complementari volti a tipizzare, nella misura del possibile, comportamenti nei rapporti con colleghi, con la parte assistita, con la controparte, i magistrati ed i terzi, desunti dall’esperienza di settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare, costituenti a loro volta mere esplicitazioni delle regole generali, inidonei quindi ad esaurire la tipologia delle violazioni deontologiche e privi di ogni efficacia limitativa della portata di dette regole.
Tale relazione tra le norme in esame è chiaramente enunciata nella disposizione finale di cui all’ art. 60, che nel chiarire che le previsioni specifiche del codice “costituiscono esemplificazioni dei comportamenti più ricorrenti e non limitano l’ambito di applicazione dei principi generali espressi” si pone come norma di chiusura ed integrativa dell’ intero testo.
Correttamente pertanto – ha concluso la Corte – la sentenza impugnata, superando il dato letterale fornito dall’art. 40 del codice deontologico ed assumendo tale disposizione nel suo effettivo valore esemplificativo, ha riportato il dovere di informazione in essa evocato nell’ ambito dei principi generali dettati nello stesso codice e nella legge professionale, motivatamente ritenendo che l’aver omesso di dare notizia al cliente dell’esito del processo costituisse condotta contraria ai doveri deontologici e tale da meritare la sanzione inflitta.
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