Intervento di Prof. Jean-François Bergier, presidente della CIE alla conferenza-stampa del 22 marzo 2002
Eccoci all’ultimo incontro tra voi e la CIE, che d’altronde non esiste più dal dicembre scorso. I suoi membri sono orgogliosi di potervi presentare la sintesi finale del loro impegno, pubblicata simultaneamente in quattro lingue. L’incontro ci offre però anche l’occasione di ringraziare la stampa svizzera ed estera e l’opinione pubblica che hanno accompagnato il nostro lavoro con notevole senso critico. Nel corso degli ultimi cinque anni, s’era instaurato un vero e proprio dialogo. Se, a volte, è un po’ mancata la serenità di cui avremmo gradito vederci attorniati, ciò dipende dal fatto che la posta in gioco dava vita a emozioni contrastanti, segni evidenti, a loro volta, dell’importanza e della necessità del compito che ci era stato affidato. Sia come sia, la CIE ha comunque saputo preservare la propria indipendenza in ogni circostanza.
Quattro sono gli obiettivi perseguiti dalla sintesi che oggi vi consegniamo:
– Riprendere e riassumere i risultati di tutte le nostre indagini, esposti nei 25 volumi di studi, contributi alla ricerca e perizie giuridiche, onde rendere tali risultati più facilmente accessibili a tutti ed evidenziare i più significativi.
– Adempiere al vero senso di un lavoro di sintesi, sforzandosi di mostrare il grado e il modo in cui i vari aspetti studiati interagiscono, venendo a formare un corpo unico, complesso, ma indissociabile: il tutto dà senso alle parti.
– Situare i dati da noi portati alla luce nel loro contesto nazionale e internazionale, in un clima, in un sistema di valori e di riferimenti o, piuttosto, in sistemi contrapposti, il cui scontro avvenuto tra il 1933 e il 1945 generò la tragedia.
– Ricordare, infine, i limiti contro cui cozza la nostra impresa, ciò che non siamo stati in grado di risolvere, per mancanza di fonti o del tempo necessario a trarre profitto di tutti i dati di cui disponevamo; in questo senso, essa apre prospettive a future ricerche.
Nei suoi 5 anni di vita, la CIE ha profuso gran parte delle proprie energie nelle ricerche d’archivio, in fondi pubblici e soprattutto privati. Pochi mesi sono quindi rimasti per la redazione, la traduzione e la pubblicazione del Rapporto finale, avvenute inoltre in condizioni materiali insolite e scomode, di cui porta responsabilità il Consiglio federale. Per questi motivi, il libro non ha tutta la perfezione formale che avremmo desiderato. La fretta traspare nella redazione e nelle traduzioni, dove non mancano le ridondanze, persino lievi contraddizioni nella valutazione di uno stesso fatto ad opera di autori diversi. L’accordo di Washington del 1946, per esempio, è visto nel capitolo 2 come un relativo insuccesso della diplomazia svizzera e nel capitolo 7 come un successo della stessa. : è una questione di punto di vista, come nel caso del bicchiere che per una persona è mezzo pieno e per l’altra mezzo vuoto…Simili dissonanze secondarie sono inerenti ad un lavoro collettivo. Abbiamo preferito accettare questi difetti e rispettare le scadenze di consegna, piuttosto che accumulare ritardi nel rincorrere una perfezione forse illusoria.
Guardando al fondo delle cose, mi preme sottolineare ciò che ritengo essenziale: questo testo, in gran parte scritto personalmente dai membri della CIE, che l’hanno inoltre ampiamente discusso e modificato prima di approvarlo, è sostenuto all’unanimità dalla Commissione. Non c’è voluta nessuna procedura particolare per appianare opinioni contrastanti: tutti noi assumiamo la responsabilità per tutto quanto viene esposto nel Rapporto. Ovviamente, se ognuno avesse avuto la libertà di scrivere da solo questa sintesi, si sarebbe espresso in modo diverso. Non eravamo sempre dello stesso parere sulla forma da adottare per raccontare i fatti ed esporre la loro interpretazione, ma siamo sempre riusciti a trovare un compromesso che, mi sembra, non toglie nulla alla credibilità dell’enunciato, anzi! Per quanto riguarda invece la sostanza dell’opera, la sua struttura e le conclusioni che vi si traggono, siamo tutti d’accordo.
Voi sapete che l’incarico ricevuto non esigeva da noi una storia generale della Svizzera al tempo del nazionalsocialismo e oltre quegli anni. Ci imponeva solo di chiarire alcuni punti controversi o poco noti di quella storia, gli aspetti che sembravano indicare come la Svizzera, cioè i suoi dirigenti politici ed economici, avessero in parte abdicato alle loro responsabilità.
Effettivamente, siamo giunti alla conclusione che in tre campi l’assunzione delle proprie responsabilità è stata carente, addirittura molto carente.
Primo campo: la politica d’asilo della Confederazione e dei cantoni. Si tratta di gran lunga della questione più delicata, poiché riguarda la vita di migliaia di esseri umani. Al pari di parecchi storici che l’hanno preceduta, la CIE ha dovuto constatare che questa politica fu troppo restrittiva e che lo fu inutilmente. L’incertezza riguardo alle cifre e le speculazioni che ne decorrono non cambiano una virgola a quest’affermazione: moltissime persone in pericolo di vita furono respinte senza motivo; altre furono accolte, ma non sempre se ne rispettò la dignità umana. Il coraggio di alcuni cittadini, il loro senso della giustizia e il generoso impegno di ampie cerchie della popolazione hanno un po’ mitigato la politica ufficiale, senza però poterne mutare il corso. Eppure, le autorità erano al corrente del destino che attendeva le vittime, e sapevano pure che un atteggiamento più flessibile e generoso non avrebbe avuto conseguenze insopportabili né per la sovranità del paese né per le condizioni di vita della popolazione, per precarie che fossero. Ciò ci impedisce di lasciar cadere l’affermazione, forse provocatoria nella forma, ma rispettosa della realtà, che la politica delle autorità svizzere ha contribuito alla realizzazione del più atroce obiettivo nazista, quello dello sterminio.
Secondo campo: gli accomodamenti con le potenze dell’Asse consentiti dallo Stato e da una parte dell’economia privata. Questa è una questione ostica, poiché nessuno può dubitare della necessità di arrivare a dei compromessi, senza i quali si rischiava il tracollo politico ed economico della Svizzera. Paradossalmente, un certo grado di cooperazione economica con il regime nazista funse da elemento di resistenza all’influsso dalla potenza tedesca e s’inserì nel dispositivo di difesa nazionale. A quel tempo era difficile valutare qual era il punto oltre cui ci si sarebbe spinti troppo lontano. Ora, noi mostriamo che in effetti si andò spesso troppo lontano, sia a Berna che nelle sedi di certe imprese; certe, ma non tutte, il che rivela che esistevano margini di manovra, i quali furono però individuati e utilizzati in modo diverso, troppo poco sistematicamente. Le nostre ricerche non hanno portato alla luce nessun caso di cooperazione per motivi ideologici o per simpatia verso il regime nazista, né da parte di organi statali né da parte dell’industria. Talune imprese vi hanno visto un’opportunità di guadagno, altre una condizione per sopravvivere – al pari della Confederazione stessa, del resto. Tuttavia, tale collaborazione ha avuto per effetto di ledere il rigoroso rispetto della neutralità. Una neutralità che empiva la retorica ufficiale, che legittimava azioni a volte scabrose o il rifiuto d’agire. Uno slogan multiuso, ma che permise distorsioni dei doveri imposti dal diritto di neutralità, le più palesi delle quali furono il cosiddetto credito del miliardo, la fornitura di materiale di guerra statale, il controllo insufficiente del traffico ferroviario tra la Germania e l’Italia.
Terzo campo di responsabilità mal gestita: la questione delle restituzioni nel dopoguerra. Né la Confederazione, attraverso disposizioni legali insufficienti e inadeguate né le imprese private, le banche, le assicurazioni, i fiduciari, le gallerie d’arte o i musei non hanno adottato con la dovuta serietà e tempestività le misure che s’imponevano, onde permettere a tutti gli aventi diritti di rientrare in possesso dei loro beni. Questa mancanza non dipese da malevolenza, dall’intenzione di arricchirsi a spese delle vittime, ma soprattutto da negligenza, dalla mancata percezione di un problema ritenuto in fondo marginale; oppure dal desiderio di conservare intatti i vantaggi derivanti dalla strategia della discrezione, specialmente quelli del segreto bancario. Questa politica ha creato i cosiddetti “averi in giacenza” ed è all’origine delle rivendicazioni e dei problemi legati alla propria immagine e alla propria storia, che la Svizzera s’è vista costretta ad affrontare in questi ultimi anni, avendoli trascurati quando sarebbe stato il momento di risolverli.
Le questioni appena esposte non sono le uniche che abbiamo cercato di chiarire. Ad esse se ne allacciano altre, per esempio l’impiego di 11’000 lavoratori forzati nelle imprese svizzere in Germania, l’occultamento di interessi tedeschi e italiani, il transito di fondi nazisti (e di criminali in fuga) e l’elenco potrebbe continuare.
D’altro canto, le risposte fornite a queste questioni non sono né complete né definitive. La ricerca deve proseguire. D’ora innanzi, non potrà fare a meno di superare gli stretti orizzonti nazionali, di organizzarsi a livello mondiale. Poiché la maggior parte dei campi del nostro legittimo interesse oltrepassa le frontiere, sfugge alle prospettive limitate dei singoli Stati implicati. la CIE non c’è più, ma i suoi membri sì; essi veglieranno a che lo slancio preso qui e altrove non si esaurisca.
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