Sentenza 28 marzo 2003 n. 4736/2003 Assegno di divorzio – Prova della mancanza dei mezzi di sostentamento – Iscrizione liste collocamento – Stato patologico che sconsiglia attività lavorativa
Cassazione – Sezione Prima Civile
Sentenza 28 marzo 2003 n. 4736/2003
Presidente A. Saggio – Relatore A. Criscuolo
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato il 20 settembre 1995 G. D. chiese al Tribunale di Napoli che fosse pronunziata la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lui contratto con rito religioso il primo gennaio 1991 con F. L..
A sostegno della domanda addusse che erano trascorsi oltre tre anni dalla comparizione delle parti davanti al presidente del Tribunale nel giudizio di separazione personale concluso con decreto di omologazione in data 9 gennaio 1992. Aggiunse che da quel tempo l’effettiva convivenza era cessata e che lo stato di separazione perdurava.
Esperito senza esito il tentativo di conciliazione, il presidente del Tribunale determinò in via provvisoria l’assegno di mantenimento a favore della convenuta in lire 400.000 mensili e rimise le parti davanti al giudice istruttore per l’ulteriore corso del processo.
La convenuta L. si costituì e non si oppose al divorzio, ma chiese un adeguamento dell’assegno nella misura minima di lire 500.000 mensili.
All’esito dell’istruzione il Tribunale, con sentenza depositata il 23 luglio 1996, pronunziò la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra le parti; pose a carico del D. il pagamento di un assegno mensile di lire 400.000, da adeguare secondo gli indici Istat su base annua; dichiarò compensate le spese del giudizio.
Il D. propose appello, chiedendo la riforma della sentenza nella parte in cui aveva riconosciuto alla L. il diritto ad un assegno di divorzio. A sostegno del gravame addusse che i presupposti per il riconoscimento di tale assegno non ricorrevano perché non era provata l’effettiva impossibilità per la convenuta di procurarsi da sola i mezzi necessari al suo sostentamento. L’appellante osservò, inoltre, che il Tribunale, nel determinare la misura dell’assegno, non aveva considerato la brevissima durata del matrimonio (appena sette mesi fino alla comparizione delle parti nella fase presidenziale del giudizio di separazione) e il fatto che l’ex casa coniugale e il relativo arredo erano stati acquistati dal medesimo appellante in epoca anteriore alla celebrazione del matrimonio. Egli, infine, dichiarò che – quale sottoufficiale dei carabinieri – riceveva uno stipendio netto di circa lire 2.500.000 al mese, col quale doveva provvedere non soltanto al proprio mantenimento ma anche a quello della sua convivente, dalla quale aveva avuto due figlie ancora in tenera età.
L’appellata si costituì per resistere al gravame, del quale contestò la fondatezza chiedendone il rigetto.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza depositata il 13 luglio 1999, in parziale accoglimento dell’impugnazione determinò in lire 300.000 mensili, da rivalutare annualmente in base agli indici Istat, la misura dell’assegno dovuto dal D. alla L. e dichiarò compensate tra le parti le spese del grado.
La Corte territoriale considerò:
che, quanto al primo motivo, secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza condizioni indispensabili per il riconoscimento dell’assegno di divorzio (avente natura assistenziale) erano la mancanza, per il coniuge che lo richiedeva, di mezzi adeguati o l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive e l’inferiorità della sua posizione economica rispetto all’altro coniuge, mentre gli altri criteri (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, reddito di entrambi), valutati e confrontati alla luce della durata del matrimonio, erano destinati ad operare soltanto se l’accertamento dell’unico elemento obiettivo si fosse risolto positivamente;
che, nel caso in esame, dalla documentazione prodotta dalla L. risultava che costei era iscritta come disoccupata nelle liste di collocamento e dalle certificazioni mediche, inoltre, emergeva che l’appellata era affetta da “nevrosi reattiva con note fobico-ossessive in soggetto psicolabile”, malattia per la quale era sconsigliato l’espletamento di attività lavorative;
che, pertanto, poiché l’appellata aveva provato di essere priva di adeguati mezzi economici per ragioni indipendenti dalla sua volontà, il giudizio espresso dal Tribunale in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per il riconoscimento del diritto all’assegno andava condiviso;
che, invece, il secondo motivo d’impugnazione, col quale il D. aveva contestato la congruità dell’assegno di divorzio fissato dal primo giudice, appariva parzialmente fondato, perché una ponderata valutazione dei criteri indicati dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, messi anche in relazione alla breve durata della convivenza matrimoniale, conduceva a ritenere equa una riduzione dell’assegno medesimo a lire 300.000 mensili, da adeguare annualmente secondo gli indici Istat, in quanto tale somma si rivelava più aderente alle concrete possibilità economiche del D., avuto riguardo allo stipendio riscosso dall’appellante e all’esigenza di provvedere anche al mantenimento della sua nuova compagna e delle due figlie avute dalla stessa.
Contro la suddetta sentenza il D. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo, illustrato con memoria. L’intimata non ha svolto in questa sede attività difensiva.
Motivi della decisione
Con l’unico mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 (come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74) e dell’art. 116 c.p, c., nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civile.
La legge n. 74 del 1987, modificando la precedente disciplina dell’assegno di divorzio, avrebbe subordinato l’attribuzione di tale assegno alla sola circostanza che il coniuge economicamente più debole non abbia mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni obiettive.
La sola mancanza di mezzi adeguati, dunque, non sarebbe più sufficiente per il riconoscimento dell’assegno, essendo altresì necessario che il soggetto non possa procurarseli per ragioni obiettive.
La Corte territoriale avrebbe confermato a carico del D. l’obbligo di pagare il detto assegno facendo leva sia sull’iscrizione della L. nelle liste di collocamento sia sulle certificazioni mediche in atti, mentre una corretta interpretazione dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 (testo vigente) e l’applicazione dei principi elaborati da questa Corte avrebbero dovuto condurla a soluzione opposta.
La sentenza impugnata, infatti, si porrebbe in contrasto sia con la ratio legis, che avrebbe inteso escludere la possibilità per un coniuge di vedersi riconoscere pure rendite di posizione, sia con il principio enunciato da questa Corte secondo cui “in tema di divorzio, il coniuge che richiede l’assegno di cui al comma sesto dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, mentre può limitarsi a dedurre di non avere i mezzi adeguati, trasferendo così sulla controparte l’onere probatorio della contraria verità, allorché deduce invece la impossibilità per ragioni obiettive di procurarsi quei mezzi ha l’onere di provare il fondamento di tale situazione”. Nel caso in esame la Corte di appello sarebbe incorsa in palese contraddizione, nel ritenere raggiunta la prova dell’impossibilità per l’intimata di procurarsi propri mezzi di sostentamento, sulla base di due documenti tra loro in contrasto, cioè l’iscrizione al collocamento effettuata dalla donna per essere avviata al lavoro ed un certificato medico che escluderebbe la capacità lavorativa della stessa donna.
La contraddizione risulterebbe ancor più evidente considerando che la L., nata nel 1969, avrebbe un’età che la porrebbe in grado di svolgere qualunque attività lavorativa, onde la prova dell’impossibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento dovrebbe essere offerta in modo rigoroso e non con un semplice certificato medico non supportato da altri documenti.
Inoltre la detta impossibilità non sarebbe provata dall’iscrizione nelle liste di collocamento, di per sé insufficiente a dimostrare di avere fattivamente ricercato l’inserimento in un’attività lavorativa, circostanza in relazione alla quale mancherebbe in atti qualsiasi prova.
Richiamati ancora i principi affermati da questa Corte per il riconoscimento dell’assegno, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non avrebbe dato la necessaria rilevanza al brevissimo periodo di convivenza coniugale che avrebbe caratterizzato il matrimonio de quo, pur documentato in atti (in realtà inferiore a sette mesi). Sarebbe stato legittimo chiedersi se una convivenza coniugale così breve fosse idonea a giustificare il riconoscimento del diritto ad un assegno di divorzio, soprattutto quando il coniuge richiedente sia in giovanissima età e manchi una prova certa in grado di escludere che il medesimo sia in condizioni di procurarsi adeguati mezzi di sostentamento.
La soluzione negativa si imporrebbe anche alla luce di un altro principio, del pari disapplicato dalla Corte territoriale, secondo cui nell’accertamento delle capacità patrimoniali dell’obbligato il giudice deve tenere conto del reddito di quest’ultimo al netto delle spese di produzione e degli oneri derivanti dalla contribuzione ai bisogni di una nuova famiglia, costituita dall’obbligato medesimo dopo il divorzio.
Il ricorso non ha fondamento.
La Corte territoriale ha avuto ben presente il principio di diritto secondo cui, nell’ambito del sistema normativo introdotto con la legge n. 74 del 1987, l’attribuzione dell’assegno di divorzio è subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza di mezzi adeguati o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, essendo gli altri criteri destinati ad operare soltanto se l’accertamento della predetta circostanza attributiva risulti di segno positivo (Cass., 13 maggio 1998, n. 4809, richiamata anche nella sentenza impugnata). Anzi proprio dal suddetto principio ha preso le mosse per motivare poi il convincimento espresso (v. sentenza impugnata, pag. 5).
Passando ad esaminare la fattispecie concreta essa però ha ritenuto: a) che, in base alla documentazione prodotta, l’intimata risultava iscritta come disoccupata nelle liste di collocamento; b) che la medesima intimata, secondo certificazioni mediche rilasciate da uno specialista in psichiatria, era affetta da “nevrosi reattiva con note fobico-ossessive in soggetto psicolabile”, malattia per la quale era sconsigliato l’espletamento di attività lavorative.
Orbene, da queste risultanze documentali la Corte di merito ha desunto, in primo luogo, che la donna era priva di mezzi economici adeguati (per tali dovendosi intendere quelli idonei a garantirle lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio). Questo apprezzamento di fatto, basato sullo stato di disoccupazione (cioè sulla mancanza di redditi da lavoro) in un contesto processuale nel quale neppure in questa sede si allega la disponibilità di altri mezzi da parte della L., non è illogico né incongruo e dunque si sottrae a sindacato nella presente sede di legittimità.
La Corte romana, altresì, dalle certificazioni mediche prodotte ha tratto il convincimento che l’intimata avesse fornito la prova di non essere in grado di procurarsi quei mezzi per ragioni indipendenti dalla sua volontà, individuate nello stato di malattia (nevrosi reattiva in soggetto psicolabile) documentato dalle suddette certificazioni.
Al riguardo va in primo luogo osservato che la contraddizione denunziata dal ricorrente (tra iscrizione al collocamento e risultanze dei certificati medici) non sussiste. L’iscrizione al collocamento, infatti, rivela sia lo stato di disoccupazione sia la volontà e la disponibilità a cercare un inserimento nel mondo del lavoro, mentre lo stato patologico emergente dai certificati medici esprime un’oggettiva difficoltà a conseguire quel risultato, ad onta della giovane età del soggetto. I due dati, lungi dall’essere tra loro in contrasto, in realtà si integrano e danno conto del convincimento cui la Corte è pervenuta, sulla base ancora una volta di un apprezzamento di fatto che, essendo sufficientemente motivato con indicazione delle fonti cui quel convincimento si collega, non è censurabile in questa sede.
Gli ulteriori rilievi del ricorrente – circa una (presunta) insufficienza probatoria degli elementi documentali richiamati – si risolvono in effetti in apprezzamenti di fatto diversi da quelli compiuti dalla Corte territoriale e non sono perciò idonei ad integrare i vizi di motivazione rilevanti nel quadro dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civile.
Ad analoghe conclusioni bisogna giungere con riguardo alle censure secondo cui la Corte di appello non avrebbe dato “la necessaria rilevanza” al brevissimo periodo di convivenza coniugale che caratterizzò il matrimonio de quo né avrebbe tenuto conto dell’esigenza del D. di provvedere ai bisogni della sua nuova famiglia. La sentenza impugnata ha valutato la breve durata della convivenza matrimoniale (pag. 6), nonché le concrete possibilità economiche dell’attuale ricorrente e la necessità di provvedere anche al mantenimento della nuova famiglia (pag. 7). E proprio in base a tale ponderata valutazione ha accolto parzialmente il secondo motivo d’impugnazione, riducendo a lire 300.000 mensili l’assegno di divorzio.
In questo quadro la tesi secondo cui la Corte napoletana avrebbe dovuto escludere in toto il diritto all’assegno non può trovare ingresso. Essa, infatti, postula un sindacato di merito e sul merito che è estraneo ai limiti del giudizio di legittimità.
Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto.
Nessuna pronunzia va adottata in ordine alle spese del giudizio di cassazione, perché l’intimata non ha svolto in questa sede attività difensiva.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso come in narrativa proposto da G. D. nei confronti di F. L..
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